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Un colpo da maestro

di Sara Mamone
  Il male non esiste
Data di pubblicazione su web 12/03/2020  

Con un colpo d’ala (o di teatro) ben orchestrato, un’edizione della Berlinale passata tra mille difficoltà e con film interessanti ma non memorabili ha concluso le proiezioni con un colpo al cuore (o allo stomaco, che in questo caso è la stessa cosa). Berlino porta bene al cinema iraniano o forse sarebbe meglio dire che il cinema iraniano porta bene a Berlino (il che potrebbe essere ancora la stessa cosa). E così, dopo premi incomprensibili come quello dello scorso anno in cui la vocazione politica del festival pareva confondersi in un guazzabuglio velleitario, ecco la nuova direzione che riprende il cammino sulla via maestra.

Sheytan vojud nadarad è dunque un capolavoro? Forse no. Ma è il film giusto nel luogo e nel momento giusti. Perché l’Iran è oggi un paese immenso, nel bene e nel male, e il suo cinema va dritto al cuore degli immensi problemi oggi esistenti. È un cinema politico nel senso migliore poiché non dimentica quasi mai le conseguenze della politica nella vita delle persone, non dimentica mai cioè l’umanità a vantaggio di un’ideologia. Dopo aver premiato Jafar Panahi (l’autore del Il palloncino bianco) con l’Orso d’argento per Offside nel 2006 e nel 2015 con l’Orso d’oro per Taxi Teheran; dopo aver fatto scoprire Asghar Farhadi nel 2006 con About Elly (Orso d’argento) e averlo consacrato nel 2011 con Una separazione (Orso d’oro), Berlino non poteva chiudere la porta a Mohammad Rasoulof, coetaneo di Farhadi e non meno impegnato di Panahi a entrare e uscire dalle patrie galere.

Una scena del film

Meno poetico dei suoi colleghi, Rasoulof costruisce un film che potrebbe a prima vista apparire a episodi (e la brevità di ognuna di queste cellule gli ha permesso di girare senza dar troppo nell’occhio), ma che è in realtà un’unica grandiosa interrogazione sul tema del male e su quello del libero arbitrio. Gli episodi non hanno alcun legame narrativo ma si sommano nell’unicità del racconto morale. Il regista non forza le connessioni ma lo spettatore non potrà non patire il tema unitario che è quello della pena di morte e della responsabilità individuale. Ed è proprio di fronte a questa che si trovano i protagonisti dei quattro episodi: un padre e marito irreprensibile, un soldato disorientato e piagnucoloso, un altro soldato in licenza che giunge alla festa di compleanno nel paese della fanciulla amata, uno zio che accoglie la nipote in arrivo da un grande paese straniero moderno. Questo sembrano ma nessuno è come sembra: la banalità del male ha consentito loro gesti quotidiani affiancati a azioni efferate. 


Una scena del film


C’è una gradazione nella responsabilità di ciascuno ma nessuno può dirsi innocente: tutti hanno servito nell’esercito e tutti hanno eseguito le condanne a morte comminate dal tribunale. Con adesioni diverse, certo. Ma nessuno si è sottratto, ha saputo sottrarsi. Piano piano, con maestria, le storie individuali prendono forma, le immagini create si stampano nella memoria. Con la pacata disperazione dei classici. Possiamo raccontare con mille dettagli il film ma niente può valere le immagini, ogni immagine lasciata scorrere con apparente oggettività. Possiamo forse soltanto descrivere il sussulto dei quattro impiccati quando la mano dell’irreprensibile marito e padre schiaccia con indifferenza i bottoni che apriranno le botole: nessun dolore, nessun compiacimento, solo la banale sorsata di una tazza di caffè durante l’esecuzione del suo lavoro, un lavoro ben fatto. Gli altri episodi sono meno crudi ma non meno perentori nel chiedere conto ai carnefici, nel proporre attenuanti non assolutorie agli esecutori ma anche nell’impedire allo spettatore di svicolare, appagato da una generica pietas.



Il male non esiste
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La locandina


 
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