Con
un colpo dala (o di teatro) ben orchestrato, unedizione della Berlinale
passata tra mille difficoltà e con film interessanti ma non memorabili ha
concluso le proiezioni con un colpo al cuore (o allo stomaco, che in questo
caso è la stessa cosa). Berlino porta bene al cinema iraniano o forse sarebbe
meglio dire che il cinema iraniano porta bene a Berlino (il che potrebbe essere
ancora la stessa cosa). E così, dopo premi incomprensibili come quello dello scorso anno in cui la vocazione politica del
festival pareva confondersi in un guazzabuglio velleitario, ecco la nuova
direzione che riprende il cammino sulla via maestra. Sheytan vojud
nadarad
è dunque un capolavoro? Forse no. Ma è il film giusto nel luogo e nel momento
giusti. Perché lIran è oggi un paese immenso, nel bene e nel male, e il suo
cinema va dritto al cuore degli immensi problemi oggi esistenti. È un cinema
politico nel senso migliore poiché non dimentica quasi mai le conseguenze della
politica nella vita delle persone, non dimentica mai cioè lumanità a vantaggio
di unideologia. Dopo aver premiato Jafar
Panahi (lautore del Il palloncino
bianco) con lOrso dargento per Offside nel
2006 e nel 2015 con lOrso doro per Taxi
Teheran; dopo aver fatto scoprire Asghar
Farhadi nel 2006 con About Elly (Orso
dargento) e averlo consacrato nel 2011 con Una
separazione (Orso
doro), Berlino non poteva chiudere la porta a Mohammad Rasoulof, coetaneo di
Farhadi e non meno impegnato di Panahi a entrare e uscire dalle patrie galere.
Meno
poetico dei suoi colleghi, Rasoulof costruisce un film che potrebbe a prima
vista apparire a episodi (e la brevità di ognuna di queste cellule gli ha
permesso di girare senza dar troppo nellocchio), ma che è in realtà ununica
grandiosa interrogazione sul tema del male e su quello del libero arbitrio. Gli
episodi non hanno alcun legame narrativo ma si sommano nellunicità del
racconto morale. Il regista non forza le connessioni ma lo spettatore non potrà
non patire il tema unitario che è quello della pena di morte e della
responsabilità individuale. Ed è proprio di fronte a questa che si trovano i
protagonisti dei quattro episodi: un padre e marito irreprensibile, un soldato
disorientato e piagnucoloso, un altro soldato in licenza che giunge alla festa
di compleanno nel paese della fanciulla amata, uno zio che accoglie la nipote
in arrivo da un grande paese straniero moderno. Questo sembrano ma nessuno è
come sembra: la banalità del male ha consentito loro gesti quotidiani
affiancati a azioni efferate.
Una scena del film
Cè una gradazione nella
responsabilità di ciascuno ma nessuno può dirsi innocente: tutti hanno servito
nellesercito e tutti hanno eseguito le condanne a morte comminate dal
tribunale. Con adesioni diverse, certo. Ma nessuno si è sottratto, ha saputo
sottrarsi. Piano piano, con maestria, le storie individuali prendono forma, le
immagini create si stampano nella memoria. Con la pacata disperazione dei
classici. Possiamo raccontare con mille dettagli il film ma niente può valere
le immagini, ogni immagine lasciata scorrere con apparente oggettività.
Possiamo forse soltanto descrivere il sussulto dei quattro impiccati quando la
mano dellirreprensibile marito e padre schiaccia con indifferenza i bottoni
che apriranno le botole: nessun dolore, nessun compiacimento, solo la banale
sorsata di una tazza di caffè durante lesecuzione del suo lavoro, un lavoro
ben fatto. Gli altri episodi sono meno crudi ma non meno perentori nel chiedere
conto ai carnefici, nel proporre attenuanti non assolutorie agli esecutori ma
anche nellimpedire allo spettatore di svicolare, appagato da una generica pietas.
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