Ci pare che il cinema iraniano, in questi ultimi tempi, batta un pochino in testa, come si diceva con un metafora automobilistica di cui non rusciamo più bene a ricordare lorigine ma che comunque indica che la macchina non va più benissimo. Forse perché ci siamo abituati alle grandi prove dei Kiarostami o dei Makhmalbaf o forse perché abbiamo alla spalle una stagione ormai abbastanza lunga di promesse mantenute a metà, di filmini esili e graziosi, di piccole incantevoli prove dalla narrazione così leggera da essere quasi inconsistente, per una volta abbiamo deciso di non accontentarci. E anche se restano più che lodevoli e degne di una mostra come quella di Berlino (che ha confermato nel premio maggiore allimpegnato film di Jasmila Zbanic Grbavic sugli stupri etnici in Serbia lalto valore assegnato al cinema sociale) alcune prove vanno forse viste non con lo sguardo incoraggiante e trepido che si riserva alle specie protette ma con il giudizio fermo di unopera che va vista in sé. Tanto più se non stiamo parlando di un regista esordiente di buona volontà ma di un solidissmo Jafar Panahi, assistente di Kiarostami e pluripremiato in proprio (Leone doro a Venezia nel 2000 con Dayereh-Il Cerchio).
Forse perché non ne possiamo più del calcio come metafora, non riusciamo a trovare incantevole e importante questo abile spaccato di vita a Teheran con la lineare semplicità di un racconto che mescola con pari abilità realismo cinematografico e realismo narrativo, che trova nella descrizione di un pomeriggio non qualunque della vita della città loccasione per parlare con leggerezza di gravi problemi sociali.
La giornata non qualunque, è quella della partita Bahrein-Iran per lammissione ai mondiali di Germania 2006 (cioè domani, siamo quindi al limite del cinema verità). Su uno scassato autobus un padre cerca la figlia, mentre unaltra giovinetta si cela dietro unabile truccatura per nascondere il suo sesso e quindi sperare di entrare a vedere la parita. Con abilità e maestria la macchina da presa segue, in soggettiva e non, gli sguardi dei giovani maschi compagni, le loro perplessità, le loro solidarietà mentre il caso singolo si moltiplica nellentrata allo stadio dove molte sono evidentemente le donne che intendono entrare. Molte le fortunate, le sfortunate vengono prese e ad una ad una sommate in una sorta di recinto, sorvegliate da soldati giovani e più spauriti di loro. Qui tra piccole furberie e piccole solidarietà si sviluppano (si fa per dire) le problematiche del film fino a che la vittoria dellamatissima squadra nazionale scioglie le durezze e, pur caricate su un cellulare per essere condotte in caserma e poi riconsegnate (cosa ben peggiore) alle famiglie, le fanciulle vengono poi liberate in un gioioso tripudio popolare.
Naturalmente il film potrebbe essere visto con ben maggiore serietà come occasione di riflessione sulla condizione della donna e non solo, in Iran, etc. etc., ma ci pare che arricchisca la casistica più che aprirci gli occhi o sinceramnete indignarci o commuoverci. Con un sospetto, del tutto personale (non fugato dallazzeccato titolo), di furberia contingente che leverebbe molto allincanto della semplicità.
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Offside
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Jafar Panahi
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