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Un Chisciotte tra i ghiacci roventi

di Sara Mamone
  Kitoboy
Data di pubblicazione su web 02/09/2020  

Philipp Yuryev (Mosca, 1990) è al suo primo lungometraggio. Non privo di ambizioni. Girato nell’estremo lembo orientale dell’Asia, quando la terra si protende verso l’estremo lembo occidentale dell’Alaska, fonde interessi antropologici con un più narrativo romanzo di formazione. In uno sperdutissimo villaggio di cacciatori di balene proteso sul misterioso (e quanto simbolico!) stretto di Bering dove la Russia e gli Stati Uniti sono vicini fino a toccarsi (quattro kilometri distano tra loro le due isole Diomede, americana l’una, russa l’altra) vive Leshka. È giovane e curioso e mal sopporta la vita primordiale della microscopica comunità, segnata dai ritmi delle maree e dal duro e ripetitivo lavoro che tutta la coinvolge con i suoi meccanismi secolari. O si sta sul mare o si sta in casa, non esistono luoghi di ritrovo, non esistono donne né ragazze. La modernità è entrata con le barche a motore, con uno scassato motorino che il giovane protagonista condivide con un assonnato coetaneo. Ma soprattutto la modernità è entrata con Internet che consente agevolmente di captare le pratiche del mondo nuovo, finora irraggiungibile e ora a portata di clic. E i clic sono sempre più spesso sui siti erotici, dove i pochi uomini della comunità si soffermano qualche minuto prima di rientrare nelle loro baracche e ai quali i giovani affidano i loro sogni e le loro domande. 


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Blando passatempo per tutti, scuola di formazione e illusione per Leshka che non si accontenta di una visione compulsiva ma affida la sua formazione e il suo destino, nello stordimento spazio-temporale della chat, a una porno influencer di Detroit. La moderna Dulcinea diventa la sua missione, la sua speranza, lo scopo della sua vita, Detroit il suo Graal per conquistare il quale non esita a uccidere l’amico che gli si prospetta come rivale (immagina fantasmaticamente che si intrattenga con l’ “amata”). E poi via, con qualche reminiscenza dell’empito di libertà del protagonista di Into the Wild, verso l’oriente salvifico, verso il sogno americano. Basta rubare una barca, prendere un fucile e qualche scatoletta di cibo per partire verso il suo viaggio di formazione. Pochi gli ostacoli: qualche bracconiere, il mare ghiacciato ma poi… la guardia costiera americana lo intercetta e lo accoglie, intenerita dalla sua ingenuità e promette di portarlo a Detroit, l’unica parola che lui pronuncia ossessivamente e che estrae dallo stentato inglese che aveva imparato nelle lunghe notti d’inverno per essere pronto all’incontro con “Hollysweet_999”. 


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Ma è tutto così facile? È tutto così vero? Il tema portante del film – e cioè il rapporto tra sogno e realtà, la labilità del confine tra l’uno e l’altra in un mondo in cui la realtà virtuale pare sempre più sovrapporsi a quella reale – pare virare bruscamente verso l’apologo, quando tutto sembra riprendere le vie più prosaiche della realtà e il nostro buon cacciatore Leshka ricompare stabilmente nella sua isola con le sue baracche e l’amico che credeva di aver ucciso semplicemente un po’ fasciato. La narrazione che aveva proceduto con una sua garbata freschezza pare dunque impennarsi in una presunzione di universalità francamente un po’ sproporzionata al garbato andamento narrativo. Si tratta comunque di un’opera prima, il giovane regista avrà tutto il tempo per decantare il suo talento imbrigliandolo in tematiche più contenute.



Kitoboy
cast cast & credits
 


La locandina del film


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