Dopo svariati lavori nel genere documentaristico già
orientati verso uninteressante, variopinta fusione dei metodi di
rappresentazione e narrazione, Pietro
Marcello è approdato sulle rive della finzione con Martin Eden,
presentato alla 76° edizione della Mostra del Cinema di Venezia e tratto
dallomonimo romanzo di Jack London.
Come ci si poteva aspettare, avendo trasferito lambientazione dellopera nel “Novecento”
italiano, la trasposizione del regista casertano è più una libera
interpretazione delle parole universali (e in parte autobiografiche) di London,
che qui però acquistano unulteriore apertura.
Martin Eden (Luca Marinelli)
è un marinaio povero e analfabeta che vive in simbiosi col porto di Napoli,
non-luogo romantico (nel senso più letterario possibile) che accoglie in grembo
chi tira a fare qualche soldo per arrivare con tranquillità a fine giornata. Non
ancora influenzato dagli eventi di unItalia sullorlo del tumulto, Martin si
mescola con questa materia umana senza provare ad affacciarsi in un altrove. Un
giorno, dopo aver salvato un ragazzo da una rissa, ne conosce laristocratica
famiglia e soprattutto la sorella, Elena Orsini (Jessica Cressy), che irradia bellezza e cultura nella sicurezza
dellimmensa reggia in cui vive. Lamore a prima vista spinge la curiosità del
marinaio verso una delle occupazioni più nobili dellessere umano, la
letteratura: da che viaggiava per i mari, inizia a navigare dentro di sé e
dentro i piaceri della pagina scritta, arrivando poi ad aprire gli occhi e il
cuore verso la collettività e i suoi problemi. In seguito, grazie al sostegno
della sua premurosa affittuaria e ai preziosi consigli di un burbero mentore,
comincia a scrivere lui stesso, ispirandosi alle esperienze del suo recente e
rinnegato passato. Ma più si avvicina a toccare il successo, più il sogno muta
in disincanto, malattia, noncuranza e senso di colpa.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019
Cè una profonda, affascinante connessione tra
la recitazione di Marinelli (Coppa Volpi) e linterpretazione della Storia (se
la Storia si può interpretare) che Marcello ha aggiunto al racconto di London.
Mentre lattore trasforma a proprio piacimento il linguaggio del suo
personaggio, storpiandone prima la grammatica e poi il suono della voce (come a
significare una spaccatura nel suo animo tale da riflettersi sul suo apparire),
così il regista plasma il Novecento italiano affinché sembri collassare intorno
e dentro Napoli. Il film inizia in un non ben definito periodo tra le due
Guerre, al sorgere delle politiche di massa; significativa la sequenza in cui Martin
parla di individualismo a un raduno di operai “sordi” e insoddisfatti, in
questo simile (ma contrario negli intenti) ai proclami del giovane Mussolini che
Bellocchio ci fa vedere in Vincere.
Poi, quando il marinaio si lascia naufragare nel mare del sapere, ponendosi in
una decadente e nichilistica sfasatura nei confronti della realtà (percepita
come arretrata e insalvabile), ecco che nella rappresentazione dellItalia
subentrano elementi cronologici discordanti con quanto mostrato in precedenza:
dalle automobili anni Settanta alle camicie nere di epoca fascista, dai mobili di
metà secolo agli edifici in stile anni Venti, dalla televisione allo scoppio
della guerra.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019 Davanti agli occhi stanchi e incavati di Luca
Marinelli si sussegue tutto il “secolo breve” (italiano, ma non solo),
cornucopia di eventi tragici che paiono essere stati inevitabili nonostante i
migliori ideali e le più belle parole. A differenza di Pulcinella, che in Bella
e Perduta (2015) viaggiava spazialmente per le “rovine” del belpaese,
Martin ingloba la storia dItalia attraverso la mente e il corpo, fino a
prosciugarsi da qualsiasi entusiasmo per la vita; lui che con la sua
professione, esattamente come la maschera napoletana dellArte, si è ritrovato
intermediario tra i vivi e i morti, tra i ricchi e i poveri, tra i padroni e i
lavoratori. Ed è nella risoluzione di questo doloroso senso di inadeguatezza
verso un compito così gravoso (ma nobile) che Martin Eden gioca la sua
riuscita.
Come un elegante prestigiatore di fine Ottocento,
Marcello fa apparire sullo schermo i frammenti fantasmagorici di un cinema
perduto, metafora di un incanto da riscoprire quando si rischia di farcelo
scivolare dalle mani. In linea teorico-estetica con i misteri del (nuovo)
realismo magico di Alice Rohrwacher
(Le Meraviglie, 2014; Lazzaro Felice, 2018), il regista fa del
cinema uno strumento per addolcire i tumulti della narrazione e,
consequenzialmente, per ricordarci la nostra innata capacità di creare sogni e
bellezza anche laddove non sembra più possibile. Così, indipendentemente da
quello che è stato e che potrà essere, Martin Eden non perde mai di
vista le radici del suo personaggio-autore e riprende la via per linfinità del
mare con un semplice, romantico (sempre nel senso più letterario possibile)
messaggio di speranza: il sapere non deve allontanarci dagli altri e da noi
stessi, bensì è larma migliore che abbiamo per combattere le derive peggiori
dellanimo umano. Perché, in fondo, dovremmo sempre tenere a mente quella
magnifica folgorazione con cui London chiude il “suo” Martin Eden: «nellistante in cui seppe, cessò di sapere».
E sarà inevitabilmente così… per ciascuno di noi.
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