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La realtà e la sua rappresentazione

di Marco Luceri
  Vincere
Data di pubblicazione su web 23/05/2009  

Per quello che è stato il suo ritorno sul palcoscenico del festival più importante del mondo, Marco Bellocchio ha scelto di riesumare una vicenda persa nelle pagine della storia d'Italia del primo Novecento. In un paese che fatica più che mai, ancora oggi, sia a distinguere la dimensione pubblica dei suoi rappresentanti politici da quella privata (costantemente esibita, rinfacciata e data in pasto ai media della servitù) sia a chiudere i conti con la sua stessa storia (il fascismo, il terrorismo, Mani pulite), il racconto intimo della tragedia di una donna e del suo figlio, sacrificati in nome della ragion di stato (nella sua accezione, ancora una volta, privata) non può che assumere una valenza paradigmatica.

E questo non per dare manforte alla pletora di tribuni (catodici) della plebe autoproclamatisi resistenti, né tantomeno per montare l'ennesima polemica sui corsi e ricorsi della storia, ma per ritornare a riflettere sul valore di ciò che il cinema, rappresentando la realtà (anche storica), ci fa vedere e ci restituisce in forma di immagini e parole. Vincere è dunque un discorso sulla storia e sul cinema, sui meandri della rappresentazione e del senso che essi, comunicando, hanno saputo costruire e far deflagrare in quello che è stato giustamente definito "il secolo dell'occhio", il Novecento.

Bellocchio, con l'originalità e l'acutezza che gli vanno riconosciute, ha raccontato la storia di Ida Dalser, la giovane e bella proprietaria di una sartoria, che nel 1915, dopo una tumultuosa e travolgente storia d'amore, da' alla luce il primogenito di Benito Mussolini, l'allora socialista e anticlericale direttore de L'Avanti!. La donna segue il futuro duce nei suoi repentini cambi di opinione, dettati dall'astuzia e dall'opportunismo politico: la svolta interventista, la fondazione de Il popolo d'Italia, la partecipazione alla Grande Guerra, la fondazione dei Fasci di combattimento, l'ascesa irresistibile di un personaggio sanguinario e crudele alla guida di un intero paese e di un popolo, subito ricambiato con la perdita della libertà.

Questo è il film che vede scorrere davanti ai suoi occhi la povera Ida, mentre prima viene rispedita a Trento, poi chiusa in manicomio, poi privata del piccolo Benito Albino, a sua volta allontanato dalla madre e costretto alla rigida vita militare, prima di essere anch'egli internato. E' il film della sua vita, davanti alla quale resta impotente, come milioni di singoli uomini e donne d'Italia per cui c'è sempre qualcuno che decide chi sei e che cosa devi fare. E' il film rubato, è il grande cinema delle origini (Cabiria, Le avventure di Saturnino Farandola, Christus ecc.) che cede il passo prima alla propaganda di guerra, poi a quella fascista, fino alla ripetitività ossessiva di un volto e di un corpo, quello del duce, trasformatosi da personaggio in ieratica silhouette della Storia. Nella sala buia che produce immaginario, ovunque essa sia (in una sala cinematografica, in un ospedale, in una scuola), c'è sempre qualcuno che guarda alla propria vita con gli occhi del cinema e spera, combatte, si inginocchia pensando a un orizzonte possibile, a una via di fuga a portata di mano (come nella scena in cui Ida piange di disperazione davanti a Il monello di Chaplin).

La pena da scontare è proprio l'irriducibile lontananza tra la realtà e la sua rappresentazione, la dolorosa constatazione di essere circondati (come Ida) da un muro sordo e impenetrabile fatto di tanti, tantissimi mediocri e servi e da pochissimi bastonati eroi comuni. Di fronte alle ramificazioni soffocanti del Potere (tema bellocchiano per eccellenza, da I pugni in tasca a Nel nome del padre a L'ora di religione) non c'è più nulla da fare e l'unica forma di libertà possibile sembra essere per Ida quella di non rinunciare a urlare la propria esistenza e il proprio diritto a non essere cancellata, non sapendo di compiere in tal modo il gesto più antifascista di tutti.

Ida, perdutamente innamorata di un uomo egoista e spregiudicato, a cui ha saputo sacrificare tutto, è un personaggio di per sé universale, che non accetta l'ottusità delle regole e che continua a vedere nell'immagine dell'amato non quella del divo, ma ancora quella del corsaro rivoluzionario socialista che l'aveva sedotta tanti anni prima in un vicolo buio di Trento. E' lei però la prima a vedere i limiti di un regime che è tanto forte all'esterno (la rappresentazione) quanto miserevole e mediocre all'interno (la realtà). Per il ruolo di questa donna combattuta Bellocchio ha scelto la carica emotiva di Giovanna Mezzogiorno e l'attrice, in quello che è stato probabilmente il ruolo più difficile della sua carriera, ci ha messo dentro tutta la sua grinta e la sua forza di carattere, anche se alla fine ha finito per rendere il carattere di una donna eccezionale troppo simile ai ruoli già in precedenza interpretati (e modellati su L'ultimo bacio di Muccino): improvvisi scatti d'ira, lacrima facile, introspezione poco convincente.

Assai più vicino alle corde espressive bellocchiane appare invece Filippo Timi, su cui il regista costruisce un interessante esperimento di sdoppiamento, affidandogli la parte del giovane Mussolini e quella del figlio Benito Albino adulto. Caricando il personaggio in maniera espressionista, Timi ne ha fatto una maschera, un attore che incarna alla perfezione i pensieri che promuove, trasformandosi in un vero e proprio sex-symbol. Anche in questo aspetto, la distanza tra la realtà e la rappresentazione trova il suo riscontro più tetro e allucinatorio nella caricatissima pantomima che lo stesso Timi inscena in una delle ultime sequenze del film, quando la sua maschera (quella del figlio che imita il padre), in preda alla follia, mostra i suoi tratti più repellenti e mostruosi.

La prova dell'attore si inserisce a pieno nella costruzione che Bellocchio ha voluto imprimere al film, soprattutto nella prima parte: grazie a un montaggio discontinuo e anti-narrativo, alla frantumazione delle sequenze sul piano spazio-temporale, all'inserzione delle didascalie e dei filmati d'epoca, all'uso retorico delle musiche e della contrastata fotografia (firmata da Daniele Ciprì) il regista ha saputo irrobustire visivamente la sostanza drammatica del personaggio Mussolini: grande, potente, coraggioso, veloce, visionario, poetico, fisico, spudorato, vitale, violento, cattivo. Il ritratto di un'intera epoca, insomma. Poi quando lentamente Mussolini cede la scena a Ida, il film perde il suo carattere vorticoso e irregolare per confluire verso i più marcati e riconoscibili meccanismi di un melodramma comunque freddo e glaciale, la dimensione più appropriata in cui si consuma la tragedia di Ida e del figlio.

E' anche il passaggio tra il vecchio e il nuovo Mussolini, tra il socialismo rivoluzionario e la dittatura fascista, tra le immagini del film e quelle della Storia, tra l'amore fisico e passionale e l'amore mummificato e tombale. E' anche il passaggio (definitivo) dalle illusioni della rappresentazione alle durezze della realtà: il finale, con il duce in bianco e nero che impettito proclama a piazza Venezia l'entrata in guerra dell'Italia, seguito dalla didascalia finale del film, ne è forse la più tragica prova.

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