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Kubrick in scatola

di Luigi Nepi
  First Man
Data di pubblicazione su web 04/09/2018  

Dopo il mezzo passo falso dello scorso anno con Downsizing di Alexander Payne l’accoppiata Damien Chazelle-Ryan Gosling torna al cinema con First Man, ovvero la storia di Neil Armstrong e degli eventi che hanno portato alla prima missione lunare.

Per mettere in scena questo importante pezzo di storia recente Chazelle imbastisce un racconto che cerca di sfuggire alla retorica della “conquista dello spazio”, insistendo invece sui suoi troppi punti deboli e sulla sua sostanziale approssimazione. Si inizia nel 1961, quando Armstrong (all’epoca pilota collaudatore) porta il traballante aerorazzo X-15 a raggiungere i sessantotto chilometri di altezza dalla superficie terrestre, per arrivare all’allunaggio del 20 luglio del 1969 sull’altrettanto instabile Apollo 11. Il film procede su un doppio binario: da un lato ciò che accade nella base spaziale; dall’altro la sfera familiare del protagonista da cui prende forma quella tensione drammatica che aleggia su tutta la storia, con la morte della piccola figlia (uccisa a soli due anni da un tumore al cervello) come tragica prolessi delle tante vittime di un progetto che alla fine deve il suo successo più all’incoscienza che al coraggio dei suoi astronauti. 


Una scena del film
© Biennale Cinema 2018

In modo antifrastico Chazelle mostra il percorso che porta l’uomo a lasciare la sua impronta sulla luna attraverso un film claustrofobico che rinchiude i suoi personaggi (e con loro anche lo spettatore) all’interno di quegli angusti moduli spaziali difficili da controllare, pieni di viti cigolanti, leve che sembrano non funzionare, lamiere che si surriscaldano. Una claustrofobia che si riverbera anche nella scelta di inquadrature strette che indugiano in primi e primissimi piani, dettagli, soggettive e false soggettive e che vorrebbero trasmettere a chi guarda la stessa incertezza che contraddistingue il punto di vista ottuso e precario dei protagonisti. Un contesto ben assecondato dagli attori che offrono una prova convincente: Ryan Gosling, sotto un’apparente inespressività, lavora di sfumature e microespressioni che restituiscono molto bene il carattere tanto geniale quanto anaffettivo di Armstrong. Ancora meglio è la esile Claire Foy che, nella parte della moglie Janet, costruisce un personaggio di donna contemporanea: forte, consapevole del suo ruolo, decisa a non farsi prevaricare e a ricondurre, se necessario, il marito ai suoi obblighi se non coniugali almeno di padre. Eppure, finita la visione, rimane la sensazione che qualcosa non abbia funzionato.

Quel sospetto di furbizia che già aleggiava su La La Land trova in First Man un’acuta conferma. Chazelle, trovandosi tra le mani una sceneggiatura di sicuro impatto (l’autore è il Josh Singer di Spotlight e The Post), aspira a dare alla sua opera una connotazione autoriale: “sporca” l’immagine, ne sgrana la fotografia, la rende continuamente instabile e tremolante (fin quasi alla cinetosi) con insistiti movimenti di macchina che tuttavia non sempre si rivelano efficaci. La pellicola finisce così per rimbalzare continuamente tra l’occhio kubrickiano di 2001: Odissea nello spazio (i cui riferimenti sono così ripetuti da rasentare l’ossessione o l’assenza di alternative) e scene di vita familiare che sembrano uscite da The Tree of Life di Malick (2011), sino al finale che riprende quello di Pickpocket di Bresson (1959), senza però l’epifania di una grazia raggiunta.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2018

Altro neo è, sorprendentemente, la musica: da un musicista amante del jazz come Chazelle ci si sarebbe aspettati un po’ più di attenzione e di originalità, non certo una colonna sonora pervasiva tutta improntata alla sottolineatura e all’enfasi che spesso sfocia persino nella ridondanza. Tanto che l’improvviso silenzio all’apertura del portellone sulla luna appare più un inaspettato sollievo che una scelta di stile. Allo stesso modo il meritevole tentativo di depotenziare l’inevitabile aura retorica della storia prima fa alcune vittime illustri (come la bellissima poesia L’uomo bianco va sulla luna che, da inno antirazzista, appare trasformato in una speculazione di chi manifesta contro il progetto spaziale); poi finisce per girare a vuoto quando alla fine viene riproposto il famoso discorso di Kennedy sulla “necessità” di concretizzare il sogno di arrivare sulla luna. Tutto questo dà vita a un film ibrido, estremamente lungo (troppo), che rischia di non convincere lo spettatore esigente e di lasciare un po’ interdetto chi vorrebbe solo divertirsi.

Sicuramente non si griderà al miracolo (come è accaduto con La La Land), ma First Man è una di quelle storie che possono arrivare dritte agli Oscar. Certo solleticare la nostalgia di un genere che fu è molto meno pericoloso che mettere Kubrick in scatola.



First Man
cast cast & credits
 


La locandina


 
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