Dopo il mezzo passo falso dello scorso anno con Downsizing di Alexander Payne laccoppiata Damien Chazelle- Ryan Gosling torna al cinema con First Man, ovvero la storia di Neil Armstrong e degli eventi che hanno portato alla prima missione lunare.
Per mettere in scena questo importante pezzo di storia recente Chazelle imbastisce un racconto che cerca di sfuggire alla retorica della “conquista dello spazio”, insistendo invece sui suoi troppi punti deboli e sulla sua sostanziale approssimazione. Si inizia nel 1961, quando Armstrong (allepoca pilota collaudatore) porta il traballante aerorazzo X-15 a raggiungere i sessantotto chilometri di altezza dalla superficie terrestre, per arrivare allallunaggio del 20 luglio del 1969 sullaltrettanto instabile Apollo 11. Il film procede su un doppio binario: da un lato ciò che accade nella base spaziale; dallaltro la sfera familiare del protagonista da cui prende forma quella tensione drammatica che aleggia su tutta la storia, con la morte della piccola figlia (uccisa a soli due anni da un tumore al cervello) come tragica prolessi delle tante vittime di un progetto che alla fine deve il suo successo più allincoscienza che al coraggio dei suoi astronauti.
Una scena del film © Biennale Cinema 2018
In modo antifrastico Chazelle mostra il percorso che porta luomo a lasciare la sua impronta sulla luna attraverso un film claustrofobico che rinchiude i suoi personaggi (e con loro anche lo spettatore) allinterno di quegli angusti moduli spaziali difficili da controllare, pieni di viti cigolanti, leve che sembrano non funzionare, lamiere che si surriscaldano. Una claustrofobia che si riverbera anche nella scelta di inquadrature strette che indugiano in primi e primissimi piani, dettagli, soggettive e false soggettive e che vorrebbero trasmettere a chi guarda la stessa incertezza che contraddistingue il punto di vista ottuso e precario dei protagonisti. Un contesto ben assecondato dagli attori che offrono una prova convincente: Ryan Gosling, sotto unapparente inespressività, lavora di sfumature e microespressioni che restituiscono molto bene il carattere tanto geniale quanto anaffettivo di Armstrong. Ancora meglio è la esile Claire Foy che, nella parte della moglie Janet, costruisce un personaggio di donna contemporanea: forte, consapevole del suo ruolo, decisa a non farsi prevaricare e a ricondurre, se necessario, il marito ai suoi obblighi se non coniugali almeno di padre. Eppure, finita la visione, rimane la sensazione che qualcosa non abbia funzionato.
Quel sospetto di furbizia che già aleggiava su La La Land trova in First Man unacuta conferma. Chazelle, trovandosi tra le mani una sceneggiatura di sicuro impatto (lautore è il Josh Singer di Spotlight e The Post), aspira a dare alla sua opera una connotazione autoriale: “sporca” limmagine, ne sgrana la fotografia, la rende continuamente instabile e tremolante (fin quasi alla cinetosi) con insistiti movimenti di macchina che tuttavia non sempre si rivelano efficaci. La pellicola finisce così per rimbalzare continuamente tra locchio kubrickiano di 2001: Odissea nello spazio (i cui riferimenti sono così ripetuti da rasentare lossessione o lassenza di alternative) e scene di vita familiare che sembrano uscite da The Tree of Life di Malick (2011), sino al finale che riprende quello di Pickpocket di Bresson (1959), senza però lepifania di una grazia raggiunta.
Altro neo è, sorprendentemente, la musica: da un musicista amante del jazz come Chazelle ci si sarebbe aspettati un po più di attenzione e di originalità, non certo una colonna sonora pervasiva tutta improntata alla sottolineatura e allenfasi che spesso sfocia persino nella ridondanza. Tanto che limprovviso silenzio allapertura del portellone sulla luna appare più un inaspettato sollievo che una scelta di stile. Allo stesso modo il meritevole tentativo di depotenziare linevitabile aura retorica della storia prima fa alcune vittime illustri (come la bellissima poesia Luomo bianco va sulla luna che, da inno antirazzista, appare trasformato in una speculazione di chi manifesta contro il progetto spaziale); poi finisce per girare a vuoto quando alla fine viene riproposto il famoso discorso di Kennedy sulla “necessità” di concretizzare il sogno di arrivare sulla luna. Tutto questo dà vita a un film ibrido, estremamente lungo (troppo), che rischia di non convincere lo spettatore esigente e di lasciare un po interdetto chi vorrebbe solo divertirsi.
Sicuramente non si griderà al miracolo (come è accaduto con La La Land), ma First Man è una di quelle storie che possono arrivare dritte agli Oscar. Certo solleticare la nostalgia di un genere che fu è molto meno pericoloso che mettere Kubrick in scatola.
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