Alla ricerca di Rocco e dei suoi fratelli: la Basilicata di Luchino Visconti
Visconti andò alla ricerca di Rocco e dei suoi fratelli con rara passione, accanimento e tenacia. I cinque fratelli Parondi e, ancor di più, il mondo culturale lucano di cui erano destinati ad incarnare la proiezione filmica nel capolavoro a loro dedicato, emersero con qualche fatica dal suo immaginario. Essi furono il frutto di una intensa ricerca intellettuale, alimentata - com'è noto - da molteplici letture ampiamente riconosciute dalla storiografia viscontiana (in primis Verga, Testori, Mann, Dostoevskij, Miller, e sopra tutti il racconto biblico delle storie di Giuseppe) e raffinata da una indagine effettuata 'sul campo', come insegnava la coeva antropologia e come avrebbe imposto una scrittura cinematografica fortemente incline al realismo. La stratificazione dei plurimi apporti letterari - da alcuni racconti testoriani de Il ponte della Ghisolfa ai personaggi verghiani desunti dai Malavoglia, al protagonista ispirato a Myškin de L'idiota di Dostoevskij - e l'esperienza neorealista de La terra trema (1948) da sole non spiegherebbero del tutto la creazione di Rocco e i suoi fratelli, film prodotto dalla «Titanus» di Goffredo Lombardo e proiettato a Venezia per la prima volta il 6 settembre 1960 tra molte polemiche e dissensi nell'ambito della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Le stesure dei trattamenti conservati nel Fondo Luchino Visconti della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, testimoniano l'impegno e le difficoltà dell'incontro con i personaggi del film, così come le duecentotrentasei fotografie scattate in Basilicata, finora tutte inedite, durante un viaggio preparatorio e rivelatore. L'attraversamento della Basilicata e, in specie, di alcuni principali centri del Materano, innescò un processo di conoscenze non relative, bensì fondamentali per la compiutezza filmica di Rocco e i suoi fratelli, il «possente melodramma», le cui riprese, iniziate a Milano il 22 febbraio 1960, esclusero la parte iniziale che avrebbe dovuto svolgersi nella regione nativa della famiglia migrante, assurta a protagonista, rendendo così ancora più preziosi i documenti fotografici, nuovi e inaspettati testimoni del processo di formazione e di narrazione del film.
Il regista milanese visitò i paesi della Basilicata per attingere idee e fisionomie, modi e costumi, forme e natura di un mondo altro da sé. Per affinare lo sguardo e precisare contenuti e obiettivi da riversare in pellicola, tra la fine del 1959 e l'inizio del 1960 (molto probabilmente nel dicembre del 1959) volle che venissero fermati volti, attrezzi, paesaggi, case in fotografie assorte, riproducenti nella fissità del bianco e nero e nell'iterazione dei soggetti, la sua volontà di entrare in contatto con una realtà sconosciuta e lontana, resa, drammaticamente vicina dall' eccezionale fenomeno migratorio degli anni Cinquanta, responsabile di uno dei flussi umani più impressionanti dal Sud povero e contadino verso il Nord ricco e industriale.
Il viaggio in Basilicata, compiuto da Visconti al culmine dei successi cinematografici e teatrali, in compagnia dei suoi più intimi collaboratori, ossia dello scenografo Mario Garbuglia, del costumista Piero Tosi, del fotografo di scena Paul Ronald e di sua moglie, Huguette, fu necessario per prendere coscienza della materia stessa del film, per selezionare tipologie umane e soprattutto fissarne i tratti culturali. Ognuno dei propri compagni di viaggio doveva condividere valori culturali distanti dai propri ed entrare in diretto contatto con quanto di più arcaico conservasse ancora la Basilicata. Sarebbe stata inconcepibile per lo stile registico viscontiano una traduzione cinematografica astratta e avulsa dalla realtà vera, un film pensato e girato in vitro, un esperimento mentale.
L'esperienza diretta nei solchi profondi di quella terra e di quei volti antichi si sarebbe rivelata fondamentale per la traduzione e la trasfigurazione filmica del terribile tema della immigrazione. Difficile da trattare per essere - allora come oggi - di cogente attualità, necessitava di uno sguardo acuto e non retorico, realistico e non sociologico, stilisticamente penetrante e, nel contempo, non melodrammatico.
La scoperta del Sud e - in specie - della Basilicata fu sicuramente sollecitata in Visconti dal crescente interesse di gran parte della intellighenzia italiana degli anni Cinquanta nei confronti di una realtà arcaica e selvaggia, rivelata dalle ricerche di Ernesto De Martino, alle quali si ispirarono per primi i documentari etnografici di Luigi Di Gianni.
Fu un affondo per conoscere quella terra filmata da Carlo Lizzani nel documentario Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949) e balzata all'attenzione generale grazie alle campagne dell'antropologo partenopeo e alle foto di Arturo Zavattini e di Franco Pinna, che ebbero il merito di fissare le immagini delle spedizioni demartiniane lucane e di veicolarne i contenuti. Un territorio che qualche anno prima aveva attratto anche fotografi d'arte quali David Seymour, detto Chim, e Henri Cartier-Bresson, entrambi fondatori dell'agenzia Magnum Photos. Principali tappe del viaggio viscontiano furono Matera, Pisticci e Miglionico, luoghi rispondenti all'idea che della regione si era diffusa durante gli anni Cinquanta, per il tramite della prima campagna fotografica di Cartier-Bresson svolta prevalentemente nella Basilicata orientale tra il 1951 e il 1952 e di quelle, immediatamente coeve, di De Martino, che proprio a Matera e a Pisticci si era recato nell'autunno del 1952, dopo aver suscitato larghi interventi sulla stampa contemporanea. Accanto a quelle suesposte, ulteriori ragioni spinsero Visconti nel Materano, scelto sia per la vasta eco provocata dagli scritti di Carlo Levi e di Rocco Scotellaro, sia anche per qualche familiarità, fin qui trascurata e resa poco evidente, con quel territorio così vicino al Tarantino, nel quale i suoi antenati avevano fin dal tardo Settecento radicati interessi feudali.
La storia disperata e disperante di Rocco e dei suoi fratelli viene pre-narrata nelle fotografie, attualmente raccolte in due buste con segnatura C.26.05.005108-00522O e C.26.05.005399-005519, conservate in un'unica scatola presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma nel Fondo Luchino Visconti. I documenti, su cui è apposta la scritta generica «Matera», narrano di un viaggio coincidente con una sorta di straordinaria avventura culturale. Colpisce l'iterazione dei soggetti fotografati, che tendono a riprodurre in modo ossessivo gli stessi ambienti, addirittura le stesse strade, gli stessi vicoli, lo stesso paesaggio. Gli scatti, raggruppabili in serie fotografiche, sono spesso variazioni di un identico luogo o tema, particolarmente significativo ai fini della costruzione del film, su cui il regista scelse di insistere. Realizzando delle sequenze visive, l'occhio di Visconti cercò di bloccare architetture e volti, interni e paesaggi che si ripetono uguali, ai quali la prospettiva o la diversa angolazione restituiscono interesse, rimarcandone la novità.
Le fotografie scattate in Basilicata, oltre a documentare una delicata fase di lavoro preparatorio per Rocco e i suoi fratelli, rivelano anche un approccio inedito dell'aristocratico regista milanese nei confronti del Meridione. Se la Villa La Colombaia di Forio nell'isola d'Ischia, affacciata sulla baia di San Montano, rappresentava per Visconti il luogo dell'incanto mediterraneo, quello stesso incanto all'ombra del quale ha scelto per sempre di riposare, il tour in Basilicata costituiva l'altra faccia del Sud, il luogo dell'incontro con la civiltà contadina antica e remota, misera e dignitosa, descritta minuziosamente nelle pagine dei romanzi di Levi e di Scotellaro, fermata nelle raffinate immagini di Cartier-Bresson, terra dalla quale provenivano le foltissime comunità di lucani travasate a Milano lungo tutto il corso degli anni Cinquanta, oltre che terra d'origine di Gerardo Guerrieri, suo amico esodale, con il quale aveva condiviso l'esordio della «Compagnia italiana di prosa» nel 1946 al Teatro Eliseo di Roma e gli anni della sua affermazione sui palcoscenici del secondo dopoguerra.
Catturare in Basilicata immagini, fisionomie, contesti fisici, sfondi, gesti e ambientazioni significava impadronirsi di identità sconosciute. Visconti si sottopose consapevolmente ad un rovesciamento delle posizioni: da cittadino milanese osservato dai migranti come possibile modello alternativo si mutò in osservatore attivo del mondo che quegli stessi migranti aveva generato. Un'esperienza culturalmente tanto audace quanto necessaria per riempire di contenuti un soggetto nato dallo spunto scarno di una madre con cinque figli che entrano in contatto con il mondo della boxe. Lo strumento appropriato per fissare i diversi, gli italiani stranieri approdati a Milano e dilagati in tutte le città del Nord, fu, presumibilmente, l'occhio di Paul Ronald, fotografo di scena di numerosi film di Visconti (prima di Rocco, La terra trema del 1948, per il quale fu assistente di Aldo Graziati, Bellissima, Senso, Le notti bianche, infine l'episodio Il lavoro di Boccaccio '70 nel 1962), nonché di numerose regie teatrali. Il fotografo di Hyères potrebbe essere il probabile autore delle fotografie possedute dalla Fondazione Istituto Gramsci di Roma, che pur tuttavia non presentano alcun timbro e alcuna indicazione illuminante circa la sicura paternità degli scatti. La sua presenza in alcune foto (si veda a tal proposito la n. 19) induce a pensare con più sicurezza che le foto siano dello stesso Visconti, che vi compare solo nella foto n. I, a cui piaceva in modo particolare fotografare e documentare i suoi viaggi.
Rocco e i suoi fratelli rispecchia problematiche attualissime, sollevando per la prima volta nella storia del cinema italiano la delicata questione dei rapporti tra culture diverse, caratteristica dominante del mondo moderno. Le storie umane di Rocco, Simone, Ciro, Luca, Vincenzo, affidate ad un cast di attori eccellenti, con la partecipazione di oltre cinquanta interpreti secondari, rappresentano altrettanti volti della cultura lucana e altrettanti modi di rapportarsi al mondo industriale allora emergente. La riproduzione di modelli culturali meridionali, e in specie lucani, fu assicurata al film dal contributo di Pasquale Festa Campanile, lo sceneggiatore e regista di Melfi, che per provenienza geografica garantiva una sicura connotazione regionalistica e un controllo d'insieme non solo della lingua dei migranti ma anche delle dinamiche emotive, relazionali che si scatenano tra i cinque fratelli e tra questi e l'esterno nel faticoso e contrastato processo di inurbamento (Milano, Nadia, la fabbrica, l'ambiente urbano). Il lavoro di Festa Campanile fu condiviso con Massimo Franciosa, lo sceneggiatore, commediografo e regista romano, noto soprattutto per aver sceneggiato Le Quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962). Insieme rappresentavano gli sceneggiatori della «Titanus» di Goffredo Lombardo, la coppia che il produttore in un primo tempo impose a Visconti che già aveva steso il trattamento avvalendosi di Suso Cecchi d'Amico e della breve collaborazione estiva di Vasco Pratolini. «L'intrusione dei nuovi elementi, indicati dalla produzione, fu presto superata dall'amabilità dei caratteri di entrambi. Festa Campanile e Franciosa servirono in modo particolare a dare al dialogo una certa intonazione e coloritura dialettale», ricorda la sceneggiatrice storica dei film viscontiani, la quale spiega come la scelta di Visconti cadde sui lucani e non sui calabresi, i siciliani o altri immigrati meridionali a Milano anche perché il regista «li trovava gradevoli per una certa disponibilità psicologica e per il loro accento».
Più dell'influenza della narrativa meridionalistica, entrambi gli sceneggiatori della produzione, ai quali era stato affidato il prologo - poi tagliato - nella regione nativa dei migranti, scrissero inseguendo analogie e richiami culturali lucani, come essi stessi ebbero modo di dichiarare. Sopra tutto, e principalmente sulla trasposizione letteraria di Levi e Scotellaro, «ben di più poteva il fascino di una esperienza quasi diretta, quale il racconto sentito a viva voce dai nostri padri di mentalità e consuetudini, estri e rigori di Lucania», ammisero Festa Campanile e Franciosa ripercorrendo la loro esperienza con Visconti. Ed è proprio applicando memorie e ricordi alla sceneggiatura del film che il regista e sceneggiatore melfese dettò la battuta chiave pronunciata durante il brindisi in sottofinale da Rocco, carica di nostalgia venata di alone mitico, sulla Basilicata desiderata come «...il paese degli ulivi, del mal di luna, degli arcobaleni».
La selezione delle fotografie inedite in mostra non è confluita nel film, né è stata esplicitamente trascritta in ordinate sequenze. Tuttavia, ha rappresentato la sottile trama ideologica e culturale dell'opera, finendo per determinarla. L'originalità delle foto sia in quanto fonti visive del regista e dei suoi più stretti collaboratori, sia in quanto documenti appartenenti alla storia del cinema italiano, è duplice. Da un lato convogliano forti significati storici, essendo dei frammenti della memoria, dall'altro conservano un significato ulteriore, potendo essere considerate tra i contributi pionieristici per la fissazione della Basilicata come set cinematografico. Come capita ai precursori, Visconti contribuì suo malgrado con Rocco e i suoi fratelli a suggerire ai registi successivi una regione arcaica e densa di significati, la stessa che affascinò il torinese Carlo Levi. Dopo di lui Luigi Zampa, Brunello Rondi e Pier Paolo Pasolini si recarono a Matera, per girare rispettivamente Gli anni ruggenti (1962); Il demonio (1963); Il Vangelo secondo Matteo (1964). Qualche anno più tardi, nel 1979, nella stazione di Pisticci Francesco Rosi girò le scene dell'arrivo di Carlo Levi in Basilicata, recuperando un territorio e un paesaggio fino ad allora poco frequentati dalla cinematografia d'autore.
Il Percorso
Visconti e i suoi accompagnatori si diressero a Matera, dove fecero assai presumibilmente la prima tappa. Qui, visitarono in modo accurato nella parte meridionale della città, l'antico Sasso Caveoso, camminando nel denso intrico di vicinati, lamioni, case a corti per meglio osservare e capire la vita di relazione che vi si svolgeva. Seguendo l'esempio di Henri Cartier-Bresson, ogni angolo, ogni lamione materano fu oggetto della loro cura e del loro interesse. Vi scoprirono la facciata della chiesa di San Pietro Caveoso (foto n. 83), si soffermarono sull'affascinante Rupe di Monterrone che domina l'intero Sasso e vi girarono intorno fino a mettere in risalto anche anfratti non immediatamente visibili. Penetrarono dentro il Sasso percorrendo la lunga e larga via Bruno Buozzi, raffigurata nelle foto nn. 32, 33, 35, senza tralasciare gli scorci suggestivi del Caveoso proposti alloro sguardo dal percorso e senza nemmeno trascurare gli interni delle case. Per Visconti e la sua troupe, il viaggio-sopralluogo a Matera proseguì con una ricognizione nel centro cittadino. Attraversarono per certo via Regina Margherita, detta anche via delle Beccherie, come dimostra la foto n. 84, passarono per piazza Vittorio Veneto (foto n. 79), videro il Palazzo del Governo, poi la chiesa di San Rocco (foto n. 82). Sostarono dinanzi alla chiesa rupestre detta "della Scordata" (foto n. 30), in via Santo Stefano, infine dinanzi all'arco del "Ponticello".
Dopo Matera, proseguirono per Pisticci, raggiungendo probabilmente Bernalda, superando di sicuro Miglionico, che viene immortalato nella immagine n. 59, riproducente il Castello del Malconsiglio, la imponente costruzione normanna ribattezzata in tal modo per aver ospitato tra le sue possenti sale nel 1481 la congiura dei baroni contro Ferdinando I d' Aragona. Passarono per Metaponto e costeggiarono lo Ionio, secondo la testimonianza orale di Mario Garbuglia. Pisticci è il luogo fotografato con massima attenzione, nel quale lo sguardo si concentra in modo fisso nello storico Rione Dirupo. Di tale quartiere, esempio di architettura spontanea contadina, nato sul finire del Seicento, Visconti e i suoi collaboratori fissarono ogni strada, ogni angolo, ogni particolare. Tralasciando le zone alte e signorili del paese, compreso l'imponente palazzo baronale Rogges, si concentrarono sull'urbanistica del Dirupo, dove avrebbero potuto ambientare le immagini iniziali del film, prima del taglio imposto alla sceneggiatura. Furono sicuramente conquistati dall'ordinata bellezza del posto, dalle case tutte uguali, bianchi presidi di fronte al paesaggio lunare dei calanchi, simili a greggi, entro le quali tutto era assolutamente essenziale: lo spazio, gli arredi, le relazioni culturali, affettive e sociali che vi si svolgevano. Ogni casa costituiva un microcosmo che si specchiava in un altro, in tutto e per tutto simile al primo. Nel selciato delle strade pulsava una vita ordinata, regolata dai ritmi del lavoro dei campi, essendo Pisticci in quegli anni un importante centro agricolo. Per la sua stessa conformazione urbanistica, il Rione Dirupo dovette colpire Visconti e i suoi accompagnatori, che si fermarono a ritrarlo dall'alto, in più angolazioni e ripetutamente, cominciando dai tetti, finendo con il paesaggio argilloso. I luoghi dai quali risultano essere state scattate le fotografie, identificati nel corso di un apposito sopralluogo svolto dalla scrivente durante l'estate del 2003, sono, secondo l'attuale toponomastica: via Parini (foto n. 7), il muretto di via Leopardi (foto n. 4), via Meridionale (foto n. 6). Entrati dentro il reticolo delle vie, scattarono foto in via Risorgimento (foto nn. 16, 20, 74) , in via Lissa, in piazza Solferino (foto nn. 24, 31), in via Meridionale (foto nn. 37-38), in via Manzoni (foto nn. II, 40), in via Menotti (foto nn. 70-71,73, 75), in via Palestro (foto n. 78), in via Carducci (foto n. 18), nei pressi della seicentesca chiesa della Immacolata Concezione (foto n. 17).
Il paesaggio sconfinato dei calanchi catturò l'attenzione degli illustri visitatori. Le foto nn. 6, 49, 52-53, 56, 58, sono indicative di come lo sguardo di Visconti e dei suoi collaboratori sia stato conquistato dall'infinito mare di argilla, immortalato nel romanzo e nelle tele di Levi e divenuto anche per questa via il simbolo della Basilicata orientale. Matera con il torrente Gravina (foto n. 57), così come Pisticci sembrano affacciati sul vuoto dei dirupi argillosi, una terra rugosa, infinita, imprevedibile, immobile eppure in movimento, irregolare e arida. Lo sconfinato sistema giallastro dei calanchi, caratteristico delle dorsali della fossa bradanica, è stato inseguito con accanimento da Visconti e i suoi, intenti a ritrarre il possibile paesaggio nel quale avrebbero dovuto muoversi i personaggi di Rocco, secondo la sceneggiatura originaria che prevedeva in Basilicata l'inizio della storia.
Per il primo trattamento, doveva trattarsi di un paesino della provincia di Potenza, designato con l'iniziale «M.», che indurrebbe a pensare a «Melfi», trovandosi nel gruppo degli sceneggiatori il melfese Pasquale Festa Campanile. A conferma di tale ipotesi, negli appunti manoscritti di Visconti per un altro trattamento, secondo il quale Simone e Rocco sono rimasti al paese, preceduti dalla madre e dagli altri fratelli nel viaggio a Milano, si legge la trama di una lettera che Rosaria avrebbe dettato da Milano, in base alla quale, seguendo le disposizioni materne: «Rocco e Simone chiudano la casetta di Melfi lascino la chiave al parroco, prendano il treno [...] la raggiungano a Milano». A Melfi avrebbe dovuto essere ambientata la parte tagliata del film, che in un trattamento successivo diventava «B.», rimanendo sempre «un paesino della provincia di Potenza». I Parondi, che dapprima si chiamavano Pafundi, essendo stato mutato il loro cognome nel corso delle riprese per un caso di omonimia con un illustre personaggio del tempo, potevano allora provenire da Barile, Brienza o da qualche altro posto, essendo numerosi i nomi dei paesi del Potentino con questa iniziale. L'oscillazione dei luoghi è dovuta ad una visione unitaria del territorio e della cultura della Basilicata, che per il regista milanese non conosce distinzioni né geografiche, né localistiche. A ribadire tale atteggiamento, nella sceneggiatura definitiva viene citata Bernalda come posto dove i fratelli Pafundi avrebbero potuto sotterrare il padre morto. Bernalda è territorialmente vicina a Pisticci, tanto vicina che proprio da quest'ultimo comune la cittadina ottenne nel 1932 il suo ampliamento, comprendendo nei suoi confini il Metapontino. Pertanto, la sceneggiatura sembrerebbe riflettere l'esperienza diretta del viaggio in modo più consono e più filologico rispetto ai trattamenti.
La scelta del nome
Secondo un diffuso adagio latino, secco ed efficace come ogni giudizio verbale di genere, «nomen omen», il nome presagisce il destino. Distillato di sapienza classica potrebbe essere illustrato dalle parole di Ernst Cassirer, il quale sostiene «che il nome e l'essenza siano tra loro in una connessione intrinsecamente necessaria, e che il nome non soltanto designi l'essenza ma che esso sia l'essenza medesima, e che la forza dell'essenza medesima stia racchiusa in esso». La connessione tra il nome 'Rocco' per il protagonista che dette il titolo al film e l''essenza' dei contenuti ideologici non è stata mai fino in fondo indagata.
A ben guardare, le ragioni che spinsero Visconti a scegliere quel nome e non altri furono molteplici, concomitanti e sicuramente suggerite anche, se non esclusivamente, dalle tracce raccolte durante il sopralluogo lucano. Il viaggio indicò in modo inconfutabile la preminenza in quel territorio del nome, il cui significato rimanda alla forza e alla solidità fisica e morale, gli stessi caratteri che avrebbero connotato il personaggio centrale del capolavoro viscontiano, facendolo spiccare sulla costruzione psicologica degli altri fratelli. A Pisticci, principale tappa del suo itinerario lucano, il regista sicuramente apprese dell'esistenza di un culto straordinario tributato al santo di Montpellier, fatto oggetto di una venerazione popolare che tuttora si esplicita riempiendo di sue immagini ogni luogo, pubblico o privato, della cittadina. Al santo taumaturgo, idolo onnipresente, epifania stessa del sacro a Pisticci, i contadini, per la maggior parte braccianti, che fino ai primi anni Cinquanta hanno combattuto contro un territorio infestato dalle febbri malariche, hanno affidato qualsiasi momento della propria esistenza, tributandogli da sempre grandiosi festeggiamenti.
L'identificazione collettiva dei braccianti pisticcesi raggiungeva il culmine e il momento di maggiore di riconoscibilità proprio nella venerazione - ancora attuale e poco scalfita dal passare del tempo - di Rocco da Montpellier, al quale il 16 agosto di ogni anno tuttora viene offerta una sontuosa processione incastonata in un rituale di assoluta magnificenza. La visione del centralissimo 'Ufficio S. Rocco' fissato nella foto n. 44, e ubicato, allora come adesso, al lato della chiesa omonima e della piazza principale della cittadina lucana, anch'essa popolarmente conosciuta come 'Piazza San Rocco', lasciò un segno indelebile nella memoria di Visconti. Come si evince dalla foto n. 82 rappresentante la chiesa di San Rocco, a Matera il regista e la sua ristretta troupe poterono verificare la diffusione del culto anche in ambito cittadino e il suo coincidere con un tratto forte della identità lucana, in special modo bracciantile e contadina.
Spronato dal dilagare del nome, il regista avrà approfondito l'agiografia del santo, scoprendo il carattere di Rocco pellegrino e viaggiatore, tanto simile a quello dei lucani, in particolare del diciannovesimo e del ventesimo secolo, al pari di lui viaggiatori che con la stessa facilità hanno superato le Alpi e solcato gli oceani, per approdare su altre sponde, sfuggire alla miseria e soddisfare il bisogno di una vita migliore. L'associazione tra il santo, mosso dall'urgenza di soccorrere i malati egli appestati, e i migranti lucani della Milano degli anni Cinquanta sarà stata sicuramente agevolata dall'incontro diretto con la cultura del territorio.
Il personaggio di Rocco Parondi, interpretato splendidamente nel film da Alain Delon, come il santo omonimo ha funzioni salvifiche nei confronti della propria famiglia. In più, come ha rilevato Guido Aristarco sulla scorta di una dichiarazione del regista, nella scelta del nome del protagonista del film, Visconti fu guidato anche, ma non solo, da quello di Rocco Scotellaro, il sindaco socialista di Tricarico legato da profonda amicizia con Gerardo Guerrieri, a sua volta corrispondente e collaboratore del regista milanese. Come in un gioco di rispecchiamenti poco o per nulla casuali, Visconti sarebbe pervenuto a scegliere il nome Rocco tramite la conoscenza che di Scotellaro fece, complice l'amico e confidente 'romano' Guerrieri. Sul piano drammaturgico, per questa via indiretta ma feconda, nella scelta viscontiana di strutturare il film in cinque episodi, ossia sui cinque fratelli Parondi, si potrebbero riverberare le cinque vite dei Contadini del Sud di Scotellaro. In tal senso, l'accenno che fa Rocco nella conversazione con Nadia alle lotte bracciantili, ai suoi paesani poveri finiti nelle carceri di Matera e di Potenza per «la terra da zappare», è un esplicito riferimento alle rivolte del movimento contadino degli anni Cinquanta, all'impegno meridionalistico scotellariano, nonche alle vicende biografiche dello scrittore di Tricarico, poeta della libertà contadina finito in carcere per aver difeso i diritti dei più deboli.
Vi fu, peraltro, un'altra trasposizione onomastica rilevante e impressa nella pellicola: il nome del campione della boxe degli anni Cinquanta, il potentino Rocco Mazzola. Balzato agli onori della cronaca, dovette imporsi all'attenzione di Visconti sia per la provenienza geografica, sia per la pratica sportiva, imprescindibile condizione creativa, indicata dal regista sin dalla prima idea del film. Rocco Mazzola, lucano e campione di pugilato, così come sarà nello svolgimento della trama Rocco Parondi, confermò in qualche misura la scelta del nome. La sua brevissima ma importante apparizione nel film fu l'omaggio che il regista rese al mondo della boxe in generale e al campione in particolare ed insieme il segnale di un nome a forte connotazione etnica, che fa tutt'uno con la percezione che della morfologia fisica ed etica dei lucani avevano sviluppato gli "altri", i cittadini milanesi, i settentrionali, coloro che la Storia aveva fatto assurgere a classe dominante.
Tracce per la madre
Un dato rilevante che balza agli occhi di chi consulti il corpus fotografico preparatorio di Rocco e i suoi fratelli è la netta preminenza dei soggetti femminili, legata alla necessità di individuare i tratti fisiognomici delle donne lucane e di fissarne le caratteristiche psicologiche da riversare in pellicola. Le donne chiuse negli scialli, con le braccia conserte per rimandare l'immagine di un duro monolito sono simili a tante inespugnabili piramidi dal corpo triangolare. Tali fattezze risaltano almeno nelle foto nn. 42, 66, 68, 73, 87. Al pari di altre realtà lucane - si pensi a Maratea, visitata da Franco Pinna nel 1956 - Pisticci e Matera appaiono luoghi di sole donne, o meglio di donne e bambini, tanti bambini che, curiosi, spuntano e occhieggiano anche negli scatti che non li avrebbero previsti. A Pisticci, le donne di via Lissa (foto n. 20), di corso Regina Margherita (foto n. 42), di via Menotti e tutte le altre incontrate lungo il percorso nel cuore dell'antico Rione Dirupo, suggeriscono un'idea di compostezza e insieme di chiusura difensiva, accentuata dall'uso dei lunghi scialli, usati come soprabiti o cappotti e portati in specie dalle donne anziane, che si muovono per le vie, le strade, le scale del paese, solo a capo coperto.
Al pari delle donne arabe, sono le contadine lucane degli anni Cinquanta a vestire di preferenza così, con questo segno distintivo che le qualifica e le individua, le protegge e le separa dal resto della comunità. Visconti e i suoi amici indugiarono nel fotografarle, seguendone i passi, scrutandone il cammino, ritraendole anche in privato, nelle proprie case, con l'abbigliamento caratteristico (foto nn. I, 41-43, 66, 68, 70, 73, 87, 93, 96, 100), composto da una gonna plissettata, di colore scuro, una camicia bianca con maniche abbondantissime che si increspano sui polsi, un nastro di seta o di velluto messo sulla camicia. Il vestito tipico della 'pacchiana', ossia della contadina di Pisticci e del Metapontino, gode di una diretta citazione filmica nella foto di famiglia che campeggia nelle abitazioni dei Parondi, ben visibile in più momenti. Ma soprattutto l'incontro con queste donne dovette suggerire a Visconti e a Piero Tosi i costumi opportuni per la protagonista. Rosaria Parondi, che nel film deve impersonare la madre lucana, apparirà dunque con il capo coperto per tutta la prima parte, sia quando scende alla stazione milanese dal treno proveniente da Bari, sia quando si reca a casa dei parenti di Vincenzo, sia quando si trasferisce nello scantinato del condominio di Lambrate.
Il viaggio in Basilicata suggerì alcuni tratti fondamentali nella creazione della madre, dura contadina dotata di straordinaria intelligenza istintiva, fatta rivivere nel film dall'attrice greca Katina Panixou, versata nei ruoli teatrali tragici, così descritta da Visconti in uno dei trattamenti del film:
"Rosaria è una donna energica e sbrigativa. Se la grande città le mette, è vero, un certo sgomento, come è naturale del resto per chi è nato e vissuto in un paesino sperduto e primitivo della Lucania e non se n'era mai allontanato, non per questo lei si perde. Anzi affronta la grande città con baldanza e accanimento. Sa cosa vuole. Un alloggio e questo ce l'ha. Poi vuole un lavoro per lei e per i figli (quelli che possono lavorare). Non sono forse di quella razza dura e [tenace] come le pietre delle loro montagne? E allora? Sono disposti a fare di tutto. Sono duri alla fatica e resistenti. Le insidie di una città come Milano Rosaria le intuisce ma non le teme; il suo istinto di contadina e una certa astuzia e prudenza naturali la aiutano. Il suo tono è aggressivo, il passo maschile nelle scarpe rozze da paisana [sic] del sud. Gli occhi intelligenti, diritti e neri (e profondi) guardano in faccia cose e persone come a domandare ragione, a pretendere un diritto che nessuno le contesta".
La madre dei cinque figli maschi, colei che per cinque volte ha potuto sperimentare ciò che viene considerato l'amore allo stato puro, è una dominatrice assoluta delle loro esistenze. Dispotica e tirannica, tenera e aspra, sa essere eccessiva e usare gesti amplificati, servendosi di tutte le possibilità espressive di cui è dotata, per tentare di volgere al meglio il corso del destino. Come un altro ritratto di madre viscontiana, Maddalena Cecconi in Bellissima, Rosaria Parondi verrà sconfitta, ma come la protagonista del film neorealista «crede nei propri figli quasi con la furia di una scatenata».
Come acutamente dichiara Visconti, diversamente da Maddalena la madre lucana dei cinque figli che vorrebbe per sempre uniti al pari delle cinque dita di una mano, «per la sua origine, recita sempre: recita la gioia ed il dolore, quasi dilatando alll'estemo i sentimenti che sente dentro». La capacità attoriale di Rosaria risiede non nella finzione ma nell'esternazione dei sentimenti, nella ricchezza di una affettività che tracima, invadendo la vita dei suoi prossimi. Il suo personaggio, riflesso della mentalità di una contadina lucana degli anni Cinquanta, percepisce il mondo estraneo dove ha caparbiamente condotto i suoi figli senza capirlo. Per lei, la comprensione non è condizione necessaria, rimanendo il suo ruolo ovunque e comunque quello di madre, divoratrice dei suoi stessi figli, sebbene ostinatamente intenta alla loro promozione sociale.
La scoperta dei bambini
Nel corso del breve e intenso tour invernale in Basilicata, Visconti e i suoi collaboratori furono seguiti e talvolta 'inseguiti' dai bambini. La loro presenza è particolarmente numerosa e costante nelle fotografie scattate a Pisticci e non si fa desiderare neppure in quelle aventi per oggetto il Sasso Caveoso, cuore antico di Matera. Sono bambini dotati di libertà di movimento, che sbucano dagli ingressi delle porte di Rione Dirupo e ne popolano le bianche vie, che amano mettersi in posa e lasciarsi fotografare o che si lasciano sorprendere nelle loro abituali occupazioni. Scortano e guidano il regista e la sua ristretta troupe nelle strade più interne, conducendoli per luoghi talora impervi, talora ai bordi dei calanchi, al confine con la campagna. È probabile che, proprio i bambini per indole curiosi e disponibili, siano diventati anche dei solerti informatori. Uno di loro, in particolare, fotografato di fronte alla bottega del calzolaio Giuseppe Burzo nella via Raffaele Rogges a Pisticci (foto n. 45), che conduce alla parte alta del paese, parrebbe aver portato fin lì i visitatori, ai quali interessava soffermarsi di più sul Rione Dirupo. In altre occasioni, è lo sguardo del regista che sceglie intenzionalmente di ritrarre i bambini. Le foto nn. 77 e 90 riproducono la volontà di Visconti di fermarsi su di loro.
Nella ideazione e conseguente realizzazione del personaggio di Luca Parondi, avrà sicuramente svolto un ruolo significativo il contatto diretto con i bambini lucani, la verifica del grado di autonomia degli stessi, lasciati scorrazzare negli spazi protettivi dei vicinati materani o del Rione Dirupo e mandati a scuola da soli (foto n. 36). Anche Luca, cresciuto in un paesino lucano degli anni Cinquanta, come i suoi simili rimasti in Basilicata, saprà muoversi agevolmente nei vialoni milanesi, inforcare la bici e fare da prezioso supporto ai fratelli maggiori, ora sul cantiere edile per Vincenzo, ora nei pressi della fabbrica dell' Alfa Romeo per Ciro.
Una sfida esemplare: la «virtus» di Potenza contro l'«aurora» di Milano
Sport molto popolare nel secondo dopoguerra, la boxe incarna perfettamente l'immagine della lotta per il riscatto da condizioni di povertà e di miseria. Senza cadere in alcun tipo di retorica, oltre le esigenze di sviluppo della trama, nel film viscontiano tale sport diventa metaforica condizione del migrante, in lotta con la propria identità per l'affermazione in un mondo sconosciuto ed estraneo. Non è dunque un caso se la prima sfida pugilistica di Simone Parondi (Renato Salvatori), peso medio massimo della società Aurora di Milano avvenga contro Vitolo, della società Virtus di Potenza. La stessa provenienza geografica dei due boxeurs sottolinea come lo scontro fisico fra due rappresentanti di una identica cultura, che militano in campi opposti, sia esemplare della faticosa uscita fuori dal proprio mondo di appartenenza. Sul ring i due lucani si affrontano perché sono entrambi privi di alternative. Per l'uno e per l'altro incassare pugni è l'unico modo per poter sopravvivere e dare contemporaneamente sfogo alla propria aggressività repressa. L'incontro Simone Parondi- Vitolo, destinato a far risaltare il talento pugilistico del fratello di Rocco, è un combattimento ovviamente simbolico, nel quale si rappresenta la violenza del rapporto con la città di Milano e si condensano le difficoltà del migrante con se stesso e con gli altri. Vincere sul ring equivale per Simone a farcela nella vita reale. Per questo, nella studiata trama del film quando si incrina il suo rapporto con il pugilato comincia l'inarrestabile rovina del personaggio.
Lo scontro fra la «Lucania» - come viene detto nel dialogo del film - e la Lombardia rappresentate dalle due società pugilistiche è ben radicato nel razzismo senza razza che percorre per intero il film. Il razzismo differenzialista, definito e isolato da Etienne Balibar, consistente nel ritenere la propria cultura superiore alle altre e pertanto inconciliabile con le altre, rappresenta l'impianto ideologico del viscontiano Rocco e i suoi fratelli. La «Lucania» ora è apertamente qualificata come «Africa» dai condomini della periferia milanese, ora è sottintesa come disvalore che separa ed emargina. La rinuncia all'integrazione nella metropoli da parte di Rocco, l'integrazione compiuta da parte del fratello maggiore Vincenzo, quella rifiutata da parte di Simone, quella voluta da parte di Ciro e quella, infine, da compiersi da parte del piccolo Luca sono altrettanti paradigmi dei possibili atteggiamenti dei migranti di tutti i tempi. Consapevole di ciò, il grande regista impostò la sua drammaturgia puntando sulla «trasformazione che provoca crisi, perdite, cadute. Tra un là mitizzato nella memoria e un qua intravisto in campo lungo dall'esterno come luogo di un possibile ma non scontato approdo, Visconti sceglie di mettere in scena solo ciò che sta in mezzo, eliminando - per aferesi o per apocope - tanto il punto di partenza quanto il punto di arrivo».
Sotto il profilo drammaturgico, il conflitto tra 'Lucania' e 'Lombardia' è stato esemplificato anche nella musica composta da Nino Rota per il film, basata sul tema del paese e sul tema di Nadia. Ed è proprio il tema musicale del paese, appositamente struggente e variato, a legare i personaggi alle proprie radici, a richiamarne l'identità e a far sentire con modi sottili quanto discreti la presenza/assenza della Basilicata dentro le sequenze viscontiane.
A caccia di interni
Numerose sono le tracce di una corrispondenza tra l'esperienza del viaggio in Basilicata e la meticolosa costruzione scenografica di Rocco e i suoi fratelli. E esemplare, in tal senso, la foto di famiglia che nel film riempie le pareti della povera casa di Rosaria, prima dello scantinato, poi della casa popolare milanese, attraverso la quale Nadia impara a riconoscere i cinque fratelli Parondi, e le identiche foto di fami-glia che, allineate le une alle altre, riempiono le pareti degli interni contadini visti da Visconti (foto n. 97) durante il sopralluogo lucano. Il leitmotiv del film, ossia le fotografie «continuamente mostrate, commentate o esibite» (dal medaglione di Rosaria ai manifesti della scena finale con l'immagine di Rocco) affonda le proprie radici nell'aver osservato gli interni delle abitazioni lucane e nell'avervi appreso il forte senso della memoria affidato alla fotografia dai suoi abitatori. L'immagine fotografica diventa ricordo, conforto, prova tangibile dell'esistenza propria e di quella altrui, proiezione affettiva, legame con gli assenti.
Nella ricostruzione filmica, in taluni casi parrebbe che vi sia una riproduzione minuziosa e precisa di oggetti e ambientazioni. Non a caso, la collana di aglio nella cucina milanese di Rosaria replica quella della foto n. 46. Gli utensili di rame e i cesti di vimini appesi al muro come una natura morta sono altrettante citazioni degli interni di case contadine visitate in Basilicata. All'occhio analitico di Visconti non potevano sfuggire questi particolari, di cui esige la presenza nella scaletta preparatoria, richiamando ancora una volta l'effigie di san Rocco, ritenuta tanto importante da essere alternativa a quella della Madonna:
"Nella prima casa di Rosaria, dev'esserci la sfilata dei tegami al muro; davanti all'immagine della Madonna o del San Rocco, i poveri, che non hanno fiori, mettono basilico fresco, preso proprio dalla sporta della spesa".
Dimostrando di aver acquisito uno sguardo acuto come quello di un fine antropologo, Visconti in un altro punto precisa:
"Nella visita agli altri meridionali che affittano letti, può esserci in uno stanzino (ricordo delle abitudini campagnole) un tappeto di mele, o di cipolle rosse distese a terra; La [sic] Madonna della Madia, o il San Luca, o il San Rocco che, al posto della lorica, porta un cilicio fatto come una specie di nassa di pruni selvatici intrecciati fra loro (ad imitazione dei penitenti che nei paesi meridionali portano in processione il San Rocco)".
Mettendo a confronto gli scatti fotografici durante il sopralluogo lucano e gli interni delle due case milanesi di Rosaria, si nota agilmente come, complice la maestria dello scenografo Mario Garbuglia, la cura del grande regista del cinema italiano nei confronti del particolare raggiunga livelli di precisione impressionante. La statua di san Rocco messa sotto una campana di vetro è il nume tutelare della famiglia lucana dei Parondi, così come lo è per la gran parte delle famiglie di Pisticci. Nel film appare nello scantinato di Lambrate, sull'angolo, nello spazio adibito a camera da letto, e viene inquadrata circondata da lunghe candele, lumini e fiori, mentre i fratelli Parondi si vestono velocemente, felici per la nevicata che avvolge la città e che avrebbe assicurato loro un giorno di lavoro. Nel sopralluogo, lo stesso oggetto devozionale risulta evidente nella foto n. 64, scattata nella cittadina lucana, precisamente in corso Regina Margherita, dove presumibilmente fu acquistata, e nell'interno rappresentato dalla foto n. 97. In un altro momento del film la sua presenza salvifica è evocata da Rosaria: «San Rocco sta sempe inta a' stanza mia! [San Rocco si trova sempre nella mia camera!]», dice a Rocco quando al ritorno dal servizio militare gli mostra la nuova casa, volendo con questo rassicurarlo circa la continuità degli affetti e l'armonia apparente che governa la loro famiglia. E nella camera di Rosaria san Rocco viene inquadrato altre due volte, sempre attorniato da candele e fiori, l'ultima delle quali nella scena della confessione dell'omidicio di Nadia da parte di Simone a Rocco. Nel salutare i figli augurando loro una giornata piena di lavoro, Rosaria invoca i santi Rocco e Donato, entrambi aventi funzioni terapeutiche e salvifiche. Visconti è pienamente consapevole del delicato ruolo svolto dal santo di Montpellier, tanto che in una scaletta scrive:
"Il ritorno di Rocco...Gli amuleti che aiutano Rocco e San Rocco, in Lucania, sono piccoli arti di cera (mani, braccia, gambe, teste di cera), come quelle dei pupazzetti [...]. Davanti al San Rocco che ha fatto la grazia (e questo vale anche per la scena finale, poiché Rosaria aspettava l'esito dell'ultimo incontro), c'è un cestello contenente grano, fiori, cera e danaro".
L'offerta votiva raccomandata dal regista tradisce una volta di più l' attenzione verso il particolare in grado di veicolare messaggi culturali a forte connotazione etnica e di suggerire una qualche connotazione lucana. Lo sguardo selettivo, antropologicamente avvertito, di Luchino Visconti in Basilicata orientò anche per questa via le scelte registiche compiute nella realizzazione di Rocco.
Lo specchio della memoria
Tratto distintivo della cultura lucana degli anni Cinquanta, il lutto con i relativi rituali ha largamente dominato la letteratura scientifica di carattere antropologico prodotta in quegli anni. Nel suo sopralluogo nella Basilicata orientale, tale costume, assai diffuso, venne percepito da Visconti non solo nel nero di cui è ammantata la maggior parte delle figure femminili, ma anche nella casa listata a lutto. La foto con segnatura C.26.05-005455 scattata a Pisticci, raffigurante il numero civico 3 di via Menotti, con accanto un negozio di alimentari frequentato da bambini (vd. foto n. 75), è una inedita testimonianza visiva che si aggiunge alle molteplici fonti raccolte dagli antropologi e che trova conferma nelle pagine del romanzo di Levi: «Le porte di quasi tutte le case [...] erano curiosamente incorniciate di stendardi neri, alcuni nuovi, altri stinti dal sole e dalla pioggia, sì che tutto il paese sembrava a lutto, o imbandierato per una festa della Morte».
Come in un quadro in cui si compongono numerosi rispecchiamenti, i codici del lutto si addicono a Rosaria Parondi. E una situazione luttuosa che scaraventa sei persone in una realtà estranea e ostile come Milano, ed è quel lutto, di cui Rosaria si serve per riportare a se il figlio maggiore, il sentimento doloroso che tiene affettivamente insieme e cementifica la famiglia di migranti lucani. Il dolore profondo per la morte del capofamiglia si tramuta in valore etico, in energia positiva, in capacità di riscatto. La lontananza letterale e metaforica dalla propria cultura è lo stato luttuoso in cui sono costretti a vivere i cinque fratelli, per intraprendere il processo di interazione, prima ancora che di integrazione sociale ed esistenziale nella ostile metropoli del Nord. Di nero è costantemente vestita Rosaria Parondi, come la maggior parte delle donne incontrate in Basilicata. Porta appuntato sul petto il ritratto ovale del marito per dichiarare il suo stato vedovile e attingere da questo la sua forza dominatrice. Di nero sono vestiti i suoi figli orfani di un padre che li ha voluti legare alla terra misera e avara. Solo Vincenzo, immigrato per primo, sembra non rispettare il lutto del padre, mentre tutti gli altri vi sono costretti. Annota Visconti:
"Dopo la notizia dello sfratto, o in qualsiasi altro posto, potrebb'esserci la gustosa scenetta, da liquidare in una "sinistra" e in una battuta, dei fratelli che, passato il tempo stabilito, potranno finalmente liberarsi - con autentici sospiri di sollievo - del lutto".
Il vestito di Rosaria, all'arrivo a Milano, è pieno di spilli e spilloni, di quelli cosiddetti 'da balia'. Tali particolari rimandano all'immagine di Maddalena La Rocca, la fattucchiera immortalata da Franco Pinna a Colobraro nell'ottobre del 1952, che Ernesto De Martino pubblicò nel 1959 nel volume Sud e magia. Sono oggetti tipici di un costume regionale, che servono all'abbigliamento povero, ma sono anche sinonimi di laboriosità. Servendosi di spilli e spilloni il filo di lana corre infatti veloce tra le dita. Guardato con molta attenzione, il vestiario delle contadine lucane ispirò Piero Tosi, il costumista fiorentino che prima di Rocco aveva lavorato ai viscontiani Bellissima e Senso. «Contemporaneamente alla visita dei luoghi, cercavo dei materiali di vestiario e ne feci una grande raccolta, tanto che sia Rosaria che i figli all'inizio del film furono vestiti con abiti comperati in Lucania». La testimonianza di Tosi è una conferma ulteriore di quanto e di come il viaggio in Basilicata seppur circoscritto a poche tappe, sia stato determinante per la messa a fuoco dei caratteri culturali necessari ai personaggi del film.
Gli appunti fotografici di Visconti, una sorta di instant-book per la consultazione immediata, non potevano non riprodurre usi e costumi della Basilicata di fine anni Cinquanta, strettamente connessi alla vita quotidiana. Così è per le grandi forme rotonde di pane viste a Matera e immortalate nella foto n. 85, riproducente la cosiddetta 'tavola del pane', come veniva chiamata in città, che indussero il regista a valorizzare il cibo principe dell'alimentazione contadina. Non a caso, egli ne raccomandò la citazione ad apertura del film, nel modo seguente:
"L'apparizione di Rosaria e dei figliuoli alla discesa dal treno, e successivamente in casa Giannelli, dev'essere con le grandi forme di pane assieme ai bagagli".
Visconti ne fece un uso dichiarato nella scena del risveglio milanese con la nevicata, quando ognuno dei fratelli affetta del pane per la propria colazione e su un lato del povero tavolo ne troneggia una grande forma, simile a una di quelle mostrate dalla foto n. 85. Altri cibi, oltre al pane, ribadiscono il legame con la Basilicata, primi fra tutti le lenticchie, che vengono pulite come in un rito collettivo dai fratelli Parondi nella scena dell'apparizione di Nadia, ma anche l'aglio immancabilmente appeso nelle cucine di Rosaria. Visconti dimostra altresì un'attenzione particolare anche verso alcuni piatti rituali, poi non trasferiti in pellicola: le frittelle pasquali simili a «grandi e gonfie cravatte a fiocco», prescritte in una scaletta del film ed anche «l'uovo sodo circondato da un cestello commestibile fatto con la stessa pasta delle frittelle d'aprile» al posto delle uova colorate.
Rimanendo nella città dei Sassi, il regista ebbe modo di fissare nel suo block-notes fotografico anche gli attrezzi di lavoro agricolo o domestico, soggetti anche questi a trasposizione cinematografica. Continuando il gioco significativo di rimandi speculari tra la realtà lucana e il travestimento filmico, il carretto con il quale Rosaria raggiunge la sua prima residenza milanese sembrerebbe una citazione diretta dei carretti (i cosiddetti 'traini') visti durante il sopralluogo materano e fissati in numerosi scatti. Le foto nn. 32, 34, 36 documentano l'impiego di tali attrezzi di lavoro, molto diffusi in città, a tal punto che, subito dopo Visconti, Oskar Kokoschka nel 1961 li immortalò in una litografia, facendone una delle immagini della città immediatamente riconoscibile. In altri momenti, l'occhio acuto del regista coglie le donne mentre maneggiano brocche accanto alle fontane o stringono a se galline (foto nn. 81, 65), contribuendo in tal modo a fissare uno stereotipo figurativo destinato a divenire ricorrente nella produzione artistica lucana.
Nello straordinario viaggio in Basilicata, solo apparentemente rimosso dal film ma interiorizzato in profondità, Visconti, reduce dalla stagione neorealista di Ossessione, La terra trema, Bellissima, poté riscontrare in pieno ancora una volta la sua concezione di cinema antropomorfico, messa a fuoco nel 1943 sulle pagine di «Cinema»:
"L'esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell'essere umano, la sua presenza, è la sola "cosa" che veramente colmi il fotogramma, che l'ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell'uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa,si svolge dinanzi ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essa modificata continuamente".
Le stesure dei trattamenti conservati nel Fondo Luchino Visconti della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, testimoniano l'impegno e le difficoltà dell'incontro con i personaggi del film, così come le duecentotrentasei fotografie scattate in Basilicata, finora tutte inedite, durante un viaggio preparatorio e rivelatore. L'attraversamento della Basilicata e, in specie, di alcuni principali centri del Materano, innescò un processo di conoscenze non relative, bensì fondamentali per la compiutezza filmica di Rocco e i suoi fratelli, il «possente melodramma», le cui riprese, iniziate a Milano il 22 febbraio 1960, esclusero la parte iniziale che avrebbe dovuto svolgersi nella regione nativa della famiglia migrante, assurta a protagonista, rendendo così ancora più preziosi i documenti fotografici, nuovi e inaspettati testimoni del processo di formazione e di narrazione del film.
Il regista milanese visitò i paesi della Basilicata per attingere idee e fisionomie, modi e costumi, forme e natura di un mondo altro da sé. Per affinare lo sguardo e precisare contenuti e obiettivi da riversare in pellicola, tra la fine del 1959 e l'inizio del 1960 (molto probabilmente nel dicembre del 1959) volle che venissero fermati volti, attrezzi, paesaggi, case in fotografie assorte, riproducenti nella fissità del bianco e nero e nell'iterazione dei soggetti, la sua volontà di entrare in contatto con una realtà sconosciuta e lontana, resa, drammaticamente vicina dall' eccezionale fenomeno migratorio degli anni Cinquanta, responsabile di uno dei flussi umani più impressionanti dal Sud povero e contadino verso il Nord ricco e industriale.
Il viaggio in Basilicata, compiuto da Visconti al culmine dei successi cinematografici e teatrali, in compagnia dei suoi più intimi collaboratori, ossia dello scenografo Mario Garbuglia, del costumista Piero Tosi, del fotografo di scena Paul Ronald e di sua moglie, Huguette, fu necessario per prendere coscienza della materia stessa del film, per selezionare tipologie umane e soprattutto fissarne i tratti culturali. Ognuno dei propri compagni di viaggio doveva condividere valori culturali distanti dai propri ed entrare in diretto contatto con quanto di più arcaico conservasse ancora la Basilicata. Sarebbe stata inconcepibile per lo stile registico viscontiano una traduzione cinematografica astratta e avulsa dalla realtà vera, un film pensato e girato in vitro, un esperimento mentale.
L'esperienza diretta nei solchi profondi di quella terra e di quei volti antichi si sarebbe rivelata fondamentale per la traduzione e la trasfigurazione filmica del terribile tema della immigrazione. Difficile da trattare per essere - allora come oggi - di cogente attualità, necessitava di uno sguardo acuto e non retorico, realistico e non sociologico, stilisticamente penetrante e, nel contempo, non melodrammatico.
La scoperta del Sud e - in specie - della Basilicata fu sicuramente sollecitata in Visconti dal crescente interesse di gran parte della intellighenzia italiana degli anni Cinquanta nei confronti di una realtà arcaica e selvaggia, rivelata dalle ricerche di Ernesto De Martino, alle quali si ispirarono per primi i documentari etnografici di Luigi Di Gianni.
Fu un affondo per conoscere quella terra filmata da Carlo Lizzani nel documentario Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949) e balzata all'attenzione generale grazie alle campagne dell'antropologo partenopeo e alle foto di Arturo Zavattini e di Franco Pinna, che ebbero il merito di fissare le immagini delle spedizioni demartiniane lucane e di veicolarne i contenuti. Un territorio che qualche anno prima aveva attratto anche fotografi d'arte quali David Seymour, detto Chim, e Henri Cartier-Bresson, entrambi fondatori dell'agenzia Magnum Photos. Principali tappe del viaggio viscontiano furono Matera, Pisticci e Miglionico, luoghi rispondenti all'idea che della regione si era diffusa durante gli anni Cinquanta, per il tramite della prima campagna fotografica di Cartier-Bresson svolta prevalentemente nella Basilicata orientale tra il 1951 e il 1952 e di quelle, immediatamente coeve, di De Martino, che proprio a Matera e a Pisticci si era recato nell'autunno del 1952, dopo aver suscitato larghi interventi sulla stampa contemporanea. Accanto a quelle suesposte, ulteriori ragioni spinsero Visconti nel Materano, scelto sia per la vasta eco provocata dagli scritti di Carlo Levi e di Rocco Scotellaro, sia anche per qualche familiarità, fin qui trascurata e resa poco evidente, con quel territorio così vicino al Tarantino, nel quale i suoi antenati avevano fin dal tardo Settecento radicati interessi feudali.
La storia disperata e disperante di Rocco e dei suoi fratelli viene pre-narrata nelle fotografie, attualmente raccolte in due buste con segnatura C.26.05.005108-00522O e C.26.05.005399-005519, conservate in un'unica scatola presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma nel Fondo Luchino Visconti. I documenti, su cui è apposta la scritta generica «Matera», narrano di un viaggio coincidente con una sorta di straordinaria avventura culturale. Colpisce l'iterazione dei soggetti fotografati, che tendono a riprodurre in modo ossessivo gli stessi ambienti, addirittura le stesse strade, gli stessi vicoli, lo stesso paesaggio. Gli scatti, raggruppabili in serie fotografiche, sono spesso variazioni di un identico luogo o tema, particolarmente significativo ai fini della costruzione del film, su cui il regista scelse di insistere. Realizzando delle sequenze visive, l'occhio di Visconti cercò di bloccare architetture e volti, interni e paesaggi che si ripetono uguali, ai quali la prospettiva o la diversa angolazione restituiscono interesse, rimarcandone la novità.
Le fotografie scattate in Basilicata, oltre a documentare una delicata fase di lavoro preparatorio per Rocco e i suoi fratelli, rivelano anche un approccio inedito dell'aristocratico regista milanese nei confronti del Meridione. Se la Villa La Colombaia di Forio nell'isola d'Ischia, affacciata sulla baia di San Montano, rappresentava per Visconti il luogo dell'incanto mediterraneo, quello stesso incanto all'ombra del quale ha scelto per sempre di riposare, il tour in Basilicata costituiva l'altra faccia del Sud, il luogo dell'incontro con la civiltà contadina antica e remota, misera e dignitosa, descritta minuziosamente nelle pagine dei romanzi di Levi e di Scotellaro, fermata nelle raffinate immagini di Cartier-Bresson, terra dalla quale provenivano le foltissime comunità di lucani travasate a Milano lungo tutto il corso degli anni Cinquanta, oltre che terra d'origine di Gerardo Guerrieri, suo amico esodale, con il quale aveva condiviso l'esordio della «Compagnia italiana di prosa» nel 1946 al Teatro Eliseo di Roma e gli anni della sua affermazione sui palcoscenici del secondo dopoguerra.
Catturare in Basilicata immagini, fisionomie, contesti fisici, sfondi, gesti e ambientazioni significava impadronirsi di identità sconosciute. Visconti si sottopose consapevolmente ad un rovesciamento delle posizioni: da cittadino milanese osservato dai migranti come possibile modello alternativo si mutò in osservatore attivo del mondo che quegli stessi migranti aveva generato. Un'esperienza culturalmente tanto audace quanto necessaria per riempire di contenuti un soggetto nato dallo spunto scarno di una madre con cinque figli che entrano in contatto con il mondo della boxe. Lo strumento appropriato per fissare i diversi, gli italiani stranieri approdati a Milano e dilagati in tutte le città del Nord, fu, presumibilmente, l'occhio di Paul Ronald, fotografo di scena di numerosi film di Visconti (prima di Rocco, La terra trema del 1948, per il quale fu assistente di Aldo Graziati, Bellissima, Senso, Le notti bianche, infine l'episodio Il lavoro di Boccaccio '70 nel 1962), nonché di numerose regie teatrali. Il fotografo di Hyères potrebbe essere il probabile autore delle fotografie possedute dalla Fondazione Istituto Gramsci di Roma, che pur tuttavia non presentano alcun timbro e alcuna indicazione illuminante circa la sicura paternità degli scatti. La sua presenza in alcune foto (si veda a tal proposito la n. 19) induce a pensare con più sicurezza che le foto siano dello stesso Visconti, che vi compare solo nella foto n. I, a cui piaceva in modo particolare fotografare e documentare i suoi viaggi.
Rocco e i suoi fratelli rispecchia problematiche attualissime, sollevando per la prima volta nella storia del cinema italiano la delicata questione dei rapporti tra culture diverse, caratteristica dominante del mondo moderno. Le storie umane di Rocco, Simone, Ciro, Luca, Vincenzo, affidate ad un cast di attori eccellenti, con la partecipazione di oltre cinquanta interpreti secondari, rappresentano altrettanti volti della cultura lucana e altrettanti modi di rapportarsi al mondo industriale allora emergente. La riproduzione di modelli culturali meridionali, e in specie lucani, fu assicurata al film dal contributo di Pasquale Festa Campanile, lo sceneggiatore e regista di Melfi, che per provenienza geografica garantiva una sicura connotazione regionalistica e un controllo d'insieme non solo della lingua dei migranti ma anche delle dinamiche emotive, relazionali che si scatenano tra i cinque fratelli e tra questi e l'esterno nel faticoso e contrastato processo di inurbamento (Milano, Nadia, la fabbrica, l'ambiente urbano). Il lavoro di Festa Campanile fu condiviso con Massimo Franciosa, lo sceneggiatore, commediografo e regista romano, noto soprattutto per aver sceneggiato Le Quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962). Insieme rappresentavano gli sceneggiatori della «Titanus» di Goffredo Lombardo, la coppia che il produttore in un primo tempo impose a Visconti che già aveva steso il trattamento avvalendosi di Suso Cecchi d'Amico e della breve collaborazione estiva di Vasco Pratolini. «L'intrusione dei nuovi elementi, indicati dalla produzione, fu presto superata dall'amabilità dei caratteri di entrambi. Festa Campanile e Franciosa servirono in modo particolare a dare al dialogo una certa intonazione e coloritura dialettale», ricorda la sceneggiatrice storica dei film viscontiani, la quale spiega come la scelta di Visconti cadde sui lucani e non sui calabresi, i siciliani o altri immigrati meridionali a Milano anche perché il regista «li trovava gradevoli per una certa disponibilità psicologica e per il loro accento».
Più dell'influenza della narrativa meridionalistica, entrambi gli sceneggiatori della produzione, ai quali era stato affidato il prologo - poi tagliato - nella regione nativa dei migranti, scrissero inseguendo analogie e richiami culturali lucani, come essi stessi ebbero modo di dichiarare. Sopra tutto, e principalmente sulla trasposizione letteraria di Levi e Scotellaro, «ben di più poteva il fascino di una esperienza quasi diretta, quale il racconto sentito a viva voce dai nostri padri di mentalità e consuetudini, estri e rigori di Lucania», ammisero Festa Campanile e Franciosa ripercorrendo la loro esperienza con Visconti. Ed è proprio applicando memorie e ricordi alla sceneggiatura del film che il regista e sceneggiatore melfese dettò la battuta chiave pronunciata durante il brindisi in sottofinale da Rocco, carica di nostalgia venata di alone mitico, sulla Basilicata desiderata come «...il paese degli ulivi, del mal di luna, degli arcobaleni».
La selezione delle fotografie inedite in mostra non è confluita nel film, né è stata esplicitamente trascritta in ordinate sequenze. Tuttavia, ha rappresentato la sottile trama ideologica e culturale dell'opera, finendo per determinarla. L'originalità delle foto sia in quanto fonti visive del regista e dei suoi più stretti collaboratori, sia in quanto documenti appartenenti alla storia del cinema italiano, è duplice. Da un lato convogliano forti significati storici, essendo dei frammenti della memoria, dall'altro conservano un significato ulteriore, potendo essere considerate tra i contributi pionieristici per la fissazione della Basilicata come set cinematografico. Come capita ai precursori, Visconti contribuì suo malgrado con Rocco e i suoi fratelli a suggerire ai registi successivi una regione arcaica e densa di significati, la stessa che affascinò il torinese Carlo Levi. Dopo di lui Luigi Zampa, Brunello Rondi e Pier Paolo Pasolini si recarono a Matera, per girare rispettivamente Gli anni ruggenti (1962); Il demonio (1963); Il Vangelo secondo Matteo (1964). Qualche anno più tardi, nel 1979, nella stazione di Pisticci Francesco Rosi girò le scene dell'arrivo di Carlo Levi in Basilicata, recuperando un territorio e un paesaggio fino ad allora poco frequentati dalla cinematografia d'autore.
Il Percorso
Visconti e i suoi accompagnatori si diressero a Matera, dove fecero assai presumibilmente la prima tappa. Qui, visitarono in modo accurato nella parte meridionale della città, l'antico Sasso Caveoso, camminando nel denso intrico di vicinati, lamioni, case a corti per meglio osservare e capire la vita di relazione che vi si svolgeva. Seguendo l'esempio di Henri Cartier-Bresson, ogni angolo, ogni lamione materano fu oggetto della loro cura e del loro interesse. Vi scoprirono la facciata della chiesa di San Pietro Caveoso (foto n. 83), si soffermarono sull'affascinante Rupe di Monterrone che domina l'intero Sasso e vi girarono intorno fino a mettere in risalto anche anfratti non immediatamente visibili. Penetrarono dentro il Sasso percorrendo la lunga e larga via Bruno Buozzi, raffigurata nelle foto nn. 32, 33, 35, senza tralasciare gli scorci suggestivi del Caveoso proposti alloro sguardo dal percorso e senza nemmeno trascurare gli interni delle case. Per Visconti e la sua troupe, il viaggio-sopralluogo a Matera proseguì con una ricognizione nel centro cittadino. Attraversarono per certo via Regina Margherita, detta anche via delle Beccherie, come dimostra la foto n. 84, passarono per piazza Vittorio Veneto (foto n. 79), videro il Palazzo del Governo, poi la chiesa di San Rocco (foto n. 82). Sostarono dinanzi alla chiesa rupestre detta "della Scordata" (foto n. 30), in via Santo Stefano, infine dinanzi all'arco del "Ponticello".
Dopo Matera, proseguirono per Pisticci, raggiungendo probabilmente Bernalda, superando di sicuro Miglionico, che viene immortalato nella immagine n. 59, riproducente il Castello del Malconsiglio, la imponente costruzione normanna ribattezzata in tal modo per aver ospitato tra le sue possenti sale nel 1481 la congiura dei baroni contro Ferdinando I d' Aragona. Passarono per Metaponto e costeggiarono lo Ionio, secondo la testimonianza orale di Mario Garbuglia. Pisticci è il luogo fotografato con massima attenzione, nel quale lo sguardo si concentra in modo fisso nello storico Rione Dirupo. Di tale quartiere, esempio di architettura spontanea contadina, nato sul finire del Seicento, Visconti e i suoi collaboratori fissarono ogni strada, ogni angolo, ogni particolare. Tralasciando le zone alte e signorili del paese, compreso l'imponente palazzo baronale Rogges, si concentrarono sull'urbanistica del Dirupo, dove avrebbero potuto ambientare le immagini iniziali del film, prima del taglio imposto alla sceneggiatura. Furono sicuramente conquistati dall'ordinata bellezza del posto, dalle case tutte uguali, bianchi presidi di fronte al paesaggio lunare dei calanchi, simili a greggi, entro le quali tutto era assolutamente essenziale: lo spazio, gli arredi, le relazioni culturali, affettive e sociali che vi si svolgevano. Ogni casa costituiva un microcosmo che si specchiava in un altro, in tutto e per tutto simile al primo. Nel selciato delle strade pulsava una vita ordinata, regolata dai ritmi del lavoro dei campi, essendo Pisticci in quegli anni un importante centro agricolo. Per la sua stessa conformazione urbanistica, il Rione Dirupo dovette colpire Visconti e i suoi accompagnatori, che si fermarono a ritrarlo dall'alto, in più angolazioni e ripetutamente, cominciando dai tetti, finendo con il paesaggio argilloso. I luoghi dai quali risultano essere state scattate le fotografie, identificati nel corso di un apposito sopralluogo svolto dalla scrivente durante l'estate del 2003, sono, secondo l'attuale toponomastica: via Parini (foto n. 7), il muretto di via Leopardi (foto n. 4), via Meridionale (foto n. 6). Entrati dentro il reticolo delle vie, scattarono foto in via Risorgimento (foto nn. 16, 20, 74) , in via Lissa, in piazza Solferino (foto nn. 24, 31), in via Meridionale (foto nn. 37-38), in via Manzoni (foto nn. II, 40), in via Menotti (foto nn. 70-71,73, 75), in via Palestro (foto n. 78), in via Carducci (foto n. 18), nei pressi della seicentesca chiesa della Immacolata Concezione (foto n. 17).
Il paesaggio sconfinato dei calanchi catturò l'attenzione degli illustri visitatori. Le foto nn. 6, 49, 52-53, 56, 58, sono indicative di come lo sguardo di Visconti e dei suoi collaboratori sia stato conquistato dall'infinito mare di argilla, immortalato nel romanzo e nelle tele di Levi e divenuto anche per questa via il simbolo della Basilicata orientale. Matera con il torrente Gravina (foto n. 57), così come Pisticci sembrano affacciati sul vuoto dei dirupi argillosi, una terra rugosa, infinita, imprevedibile, immobile eppure in movimento, irregolare e arida. Lo sconfinato sistema giallastro dei calanchi, caratteristico delle dorsali della fossa bradanica, è stato inseguito con accanimento da Visconti e i suoi, intenti a ritrarre il possibile paesaggio nel quale avrebbero dovuto muoversi i personaggi di Rocco, secondo la sceneggiatura originaria che prevedeva in Basilicata l'inizio della storia.
Per il primo trattamento, doveva trattarsi di un paesino della provincia di Potenza, designato con l'iniziale «M.», che indurrebbe a pensare a «Melfi», trovandosi nel gruppo degli sceneggiatori il melfese Pasquale Festa Campanile. A conferma di tale ipotesi, negli appunti manoscritti di Visconti per un altro trattamento, secondo il quale Simone e Rocco sono rimasti al paese, preceduti dalla madre e dagli altri fratelli nel viaggio a Milano, si legge la trama di una lettera che Rosaria avrebbe dettato da Milano, in base alla quale, seguendo le disposizioni materne: «Rocco e Simone chiudano la casetta di Melfi lascino la chiave al parroco, prendano il treno [...] la raggiungano a Milano». A Melfi avrebbe dovuto essere ambientata la parte tagliata del film, che in un trattamento successivo diventava «B.», rimanendo sempre «un paesino della provincia di Potenza». I Parondi, che dapprima si chiamavano Pafundi, essendo stato mutato il loro cognome nel corso delle riprese per un caso di omonimia con un illustre personaggio del tempo, potevano allora provenire da Barile, Brienza o da qualche altro posto, essendo numerosi i nomi dei paesi del Potentino con questa iniziale. L'oscillazione dei luoghi è dovuta ad una visione unitaria del territorio e della cultura della Basilicata, che per il regista milanese non conosce distinzioni né geografiche, né localistiche. A ribadire tale atteggiamento, nella sceneggiatura definitiva viene citata Bernalda come posto dove i fratelli Pafundi avrebbero potuto sotterrare il padre morto. Bernalda è territorialmente vicina a Pisticci, tanto vicina che proprio da quest'ultimo comune la cittadina ottenne nel 1932 il suo ampliamento, comprendendo nei suoi confini il Metapontino. Pertanto, la sceneggiatura sembrerebbe riflettere l'esperienza diretta del viaggio in modo più consono e più filologico rispetto ai trattamenti.
La scelta del nome
Secondo un diffuso adagio latino, secco ed efficace come ogni giudizio verbale di genere, «nomen omen», il nome presagisce il destino. Distillato di sapienza classica potrebbe essere illustrato dalle parole di Ernst Cassirer, il quale sostiene «che il nome e l'essenza siano tra loro in una connessione intrinsecamente necessaria, e che il nome non soltanto designi l'essenza ma che esso sia l'essenza medesima, e che la forza dell'essenza medesima stia racchiusa in esso». La connessione tra il nome 'Rocco' per il protagonista che dette il titolo al film e l''essenza' dei contenuti ideologici non è stata mai fino in fondo indagata.
A ben guardare, le ragioni che spinsero Visconti a scegliere quel nome e non altri furono molteplici, concomitanti e sicuramente suggerite anche, se non esclusivamente, dalle tracce raccolte durante il sopralluogo lucano. Il viaggio indicò in modo inconfutabile la preminenza in quel territorio del nome, il cui significato rimanda alla forza e alla solidità fisica e morale, gli stessi caratteri che avrebbero connotato il personaggio centrale del capolavoro viscontiano, facendolo spiccare sulla costruzione psicologica degli altri fratelli. A Pisticci, principale tappa del suo itinerario lucano, il regista sicuramente apprese dell'esistenza di un culto straordinario tributato al santo di Montpellier, fatto oggetto di una venerazione popolare che tuttora si esplicita riempiendo di sue immagini ogni luogo, pubblico o privato, della cittadina. Al santo taumaturgo, idolo onnipresente, epifania stessa del sacro a Pisticci, i contadini, per la maggior parte braccianti, che fino ai primi anni Cinquanta hanno combattuto contro un territorio infestato dalle febbri malariche, hanno affidato qualsiasi momento della propria esistenza, tributandogli da sempre grandiosi festeggiamenti.
L'identificazione collettiva dei braccianti pisticcesi raggiungeva il culmine e il momento di maggiore di riconoscibilità proprio nella venerazione - ancora attuale e poco scalfita dal passare del tempo - di Rocco da Montpellier, al quale il 16 agosto di ogni anno tuttora viene offerta una sontuosa processione incastonata in un rituale di assoluta magnificenza. La visione del centralissimo 'Ufficio S. Rocco' fissato nella foto n. 44, e ubicato, allora come adesso, al lato della chiesa omonima e della piazza principale della cittadina lucana, anch'essa popolarmente conosciuta come 'Piazza San Rocco', lasciò un segno indelebile nella memoria di Visconti. Come si evince dalla foto n. 82 rappresentante la chiesa di San Rocco, a Matera il regista e la sua ristretta troupe poterono verificare la diffusione del culto anche in ambito cittadino e il suo coincidere con un tratto forte della identità lucana, in special modo bracciantile e contadina.
Spronato dal dilagare del nome, il regista avrà approfondito l'agiografia del santo, scoprendo il carattere di Rocco pellegrino e viaggiatore, tanto simile a quello dei lucani, in particolare del diciannovesimo e del ventesimo secolo, al pari di lui viaggiatori che con la stessa facilità hanno superato le Alpi e solcato gli oceani, per approdare su altre sponde, sfuggire alla miseria e soddisfare il bisogno di una vita migliore. L'associazione tra il santo, mosso dall'urgenza di soccorrere i malati egli appestati, e i migranti lucani della Milano degli anni Cinquanta sarà stata sicuramente agevolata dall'incontro diretto con la cultura del territorio.
Il personaggio di Rocco Parondi, interpretato splendidamente nel film da Alain Delon, come il santo omonimo ha funzioni salvifiche nei confronti della propria famiglia. In più, come ha rilevato Guido Aristarco sulla scorta di una dichiarazione del regista, nella scelta del nome del protagonista del film, Visconti fu guidato anche, ma non solo, da quello di Rocco Scotellaro, il sindaco socialista di Tricarico legato da profonda amicizia con Gerardo Guerrieri, a sua volta corrispondente e collaboratore del regista milanese. Come in un gioco di rispecchiamenti poco o per nulla casuali, Visconti sarebbe pervenuto a scegliere il nome Rocco tramite la conoscenza che di Scotellaro fece, complice l'amico e confidente 'romano' Guerrieri. Sul piano drammaturgico, per questa via indiretta ma feconda, nella scelta viscontiana di strutturare il film in cinque episodi, ossia sui cinque fratelli Parondi, si potrebbero riverberare le cinque vite dei Contadini del Sud di Scotellaro. In tal senso, l'accenno che fa Rocco nella conversazione con Nadia alle lotte bracciantili, ai suoi paesani poveri finiti nelle carceri di Matera e di Potenza per «la terra da zappare», è un esplicito riferimento alle rivolte del movimento contadino degli anni Cinquanta, all'impegno meridionalistico scotellariano, nonche alle vicende biografiche dello scrittore di Tricarico, poeta della libertà contadina finito in carcere per aver difeso i diritti dei più deboli.
Vi fu, peraltro, un'altra trasposizione onomastica rilevante e impressa nella pellicola: il nome del campione della boxe degli anni Cinquanta, il potentino Rocco Mazzola. Balzato agli onori della cronaca, dovette imporsi all'attenzione di Visconti sia per la provenienza geografica, sia per la pratica sportiva, imprescindibile condizione creativa, indicata dal regista sin dalla prima idea del film. Rocco Mazzola, lucano e campione di pugilato, così come sarà nello svolgimento della trama Rocco Parondi, confermò in qualche misura la scelta del nome. La sua brevissima ma importante apparizione nel film fu l'omaggio che il regista rese al mondo della boxe in generale e al campione in particolare ed insieme il segnale di un nome a forte connotazione etnica, che fa tutt'uno con la percezione che della morfologia fisica ed etica dei lucani avevano sviluppato gli "altri", i cittadini milanesi, i settentrionali, coloro che la Storia aveva fatto assurgere a classe dominante.
Tracce per la madre
Un dato rilevante che balza agli occhi di chi consulti il corpus fotografico preparatorio di Rocco e i suoi fratelli è la netta preminenza dei soggetti femminili, legata alla necessità di individuare i tratti fisiognomici delle donne lucane e di fissarne le caratteristiche psicologiche da riversare in pellicola. Le donne chiuse negli scialli, con le braccia conserte per rimandare l'immagine di un duro monolito sono simili a tante inespugnabili piramidi dal corpo triangolare. Tali fattezze risaltano almeno nelle foto nn. 42, 66, 68, 73, 87. Al pari di altre realtà lucane - si pensi a Maratea, visitata da Franco Pinna nel 1956 - Pisticci e Matera appaiono luoghi di sole donne, o meglio di donne e bambini, tanti bambini che, curiosi, spuntano e occhieggiano anche negli scatti che non li avrebbero previsti. A Pisticci, le donne di via Lissa (foto n. 20), di corso Regina Margherita (foto n. 42), di via Menotti e tutte le altre incontrate lungo il percorso nel cuore dell'antico Rione Dirupo, suggeriscono un'idea di compostezza e insieme di chiusura difensiva, accentuata dall'uso dei lunghi scialli, usati come soprabiti o cappotti e portati in specie dalle donne anziane, che si muovono per le vie, le strade, le scale del paese, solo a capo coperto.
Al pari delle donne arabe, sono le contadine lucane degli anni Cinquanta a vestire di preferenza così, con questo segno distintivo che le qualifica e le individua, le protegge e le separa dal resto della comunità. Visconti e i suoi amici indugiarono nel fotografarle, seguendone i passi, scrutandone il cammino, ritraendole anche in privato, nelle proprie case, con l'abbigliamento caratteristico (foto nn. I, 41-43, 66, 68, 70, 73, 87, 93, 96, 100), composto da una gonna plissettata, di colore scuro, una camicia bianca con maniche abbondantissime che si increspano sui polsi, un nastro di seta o di velluto messo sulla camicia. Il vestito tipico della 'pacchiana', ossia della contadina di Pisticci e del Metapontino, gode di una diretta citazione filmica nella foto di famiglia che campeggia nelle abitazioni dei Parondi, ben visibile in più momenti. Ma soprattutto l'incontro con queste donne dovette suggerire a Visconti e a Piero Tosi i costumi opportuni per la protagonista. Rosaria Parondi, che nel film deve impersonare la madre lucana, apparirà dunque con il capo coperto per tutta la prima parte, sia quando scende alla stazione milanese dal treno proveniente da Bari, sia quando si reca a casa dei parenti di Vincenzo, sia quando si trasferisce nello scantinato del condominio di Lambrate.
Il viaggio in Basilicata suggerì alcuni tratti fondamentali nella creazione della madre, dura contadina dotata di straordinaria intelligenza istintiva, fatta rivivere nel film dall'attrice greca Katina Panixou, versata nei ruoli teatrali tragici, così descritta da Visconti in uno dei trattamenti del film:
"Rosaria è una donna energica e sbrigativa. Se la grande città le mette, è vero, un certo sgomento, come è naturale del resto per chi è nato e vissuto in un paesino sperduto e primitivo della Lucania e non se n'era mai allontanato, non per questo lei si perde. Anzi affronta la grande città con baldanza e accanimento. Sa cosa vuole. Un alloggio e questo ce l'ha. Poi vuole un lavoro per lei e per i figli (quelli che possono lavorare). Non sono forse di quella razza dura e [tenace] come le pietre delle loro montagne? E allora? Sono disposti a fare di tutto. Sono duri alla fatica e resistenti. Le insidie di una città come Milano Rosaria le intuisce ma non le teme; il suo istinto di contadina e una certa astuzia e prudenza naturali la aiutano. Il suo tono è aggressivo, il passo maschile nelle scarpe rozze da paisana [sic] del sud. Gli occhi intelligenti, diritti e neri (e profondi) guardano in faccia cose e persone come a domandare ragione, a pretendere un diritto che nessuno le contesta".
La madre dei cinque figli maschi, colei che per cinque volte ha potuto sperimentare ciò che viene considerato l'amore allo stato puro, è una dominatrice assoluta delle loro esistenze. Dispotica e tirannica, tenera e aspra, sa essere eccessiva e usare gesti amplificati, servendosi di tutte le possibilità espressive di cui è dotata, per tentare di volgere al meglio il corso del destino. Come un altro ritratto di madre viscontiana, Maddalena Cecconi in Bellissima, Rosaria Parondi verrà sconfitta, ma come la protagonista del film neorealista «crede nei propri figli quasi con la furia di una scatenata».
Come acutamente dichiara Visconti, diversamente da Maddalena la madre lucana dei cinque figli che vorrebbe per sempre uniti al pari delle cinque dita di una mano, «per la sua origine, recita sempre: recita la gioia ed il dolore, quasi dilatando alll'estemo i sentimenti che sente dentro». La capacità attoriale di Rosaria risiede non nella finzione ma nell'esternazione dei sentimenti, nella ricchezza di una affettività che tracima, invadendo la vita dei suoi prossimi. Il suo personaggio, riflesso della mentalità di una contadina lucana degli anni Cinquanta, percepisce il mondo estraneo dove ha caparbiamente condotto i suoi figli senza capirlo. Per lei, la comprensione non è condizione necessaria, rimanendo il suo ruolo ovunque e comunque quello di madre, divoratrice dei suoi stessi figli, sebbene ostinatamente intenta alla loro promozione sociale.
La scoperta dei bambini
Nel corso del breve e intenso tour invernale in Basilicata, Visconti e i suoi collaboratori furono seguiti e talvolta 'inseguiti' dai bambini. La loro presenza è particolarmente numerosa e costante nelle fotografie scattate a Pisticci e non si fa desiderare neppure in quelle aventi per oggetto il Sasso Caveoso, cuore antico di Matera. Sono bambini dotati di libertà di movimento, che sbucano dagli ingressi delle porte di Rione Dirupo e ne popolano le bianche vie, che amano mettersi in posa e lasciarsi fotografare o che si lasciano sorprendere nelle loro abituali occupazioni. Scortano e guidano il regista e la sua ristretta troupe nelle strade più interne, conducendoli per luoghi talora impervi, talora ai bordi dei calanchi, al confine con la campagna. È probabile che, proprio i bambini per indole curiosi e disponibili, siano diventati anche dei solerti informatori. Uno di loro, in particolare, fotografato di fronte alla bottega del calzolaio Giuseppe Burzo nella via Raffaele Rogges a Pisticci (foto n. 45), che conduce alla parte alta del paese, parrebbe aver portato fin lì i visitatori, ai quali interessava soffermarsi di più sul Rione Dirupo. In altre occasioni, è lo sguardo del regista che sceglie intenzionalmente di ritrarre i bambini. Le foto nn. 77 e 90 riproducono la volontà di Visconti di fermarsi su di loro.
Nella ideazione e conseguente realizzazione del personaggio di Luca Parondi, avrà sicuramente svolto un ruolo significativo il contatto diretto con i bambini lucani, la verifica del grado di autonomia degli stessi, lasciati scorrazzare negli spazi protettivi dei vicinati materani o del Rione Dirupo e mandati a scuola da soli (foto n. 36). Anche Luca, cresciuto in un paesino lucano degli anni Cinquanta, come i suoi simili rimasti in Basilicata, saprà muoversi agevolmente nei vialoni milanesi, inforcare la bici e fare da prezioso supporto ai fratelli maggiori, ora sul cantiere edile per Vincenzo, ora nei pressi della fabbrica dell' Alfa Romeo per Ciro.
Una sfida esemplare: la «virtus» di Potenza contro l'«aurora» di Milano
Sport molto popolare nel secondo dopoguerra, la boxe incarna perfettamente l'immagine della lotta per il riscatto da condizioni di povertà e di miseria. Senza cadere in alcun tipo di retorica, oltre le esigenze di sviluppo della trama, nel film viscontiano tale sport diventa metaforica condizione del migrante, in lotta con la propria identità per l'affermazione in un mondo sconosciuto ed estraneo. Non è dunque un caso se la prima sfida pugilistica di Simone Parondi (Renato Salvatori), peso medio massimo della società Aurora di Milano avvenga contro Vitolo, della società Virtus di Potenza. La stessa provenienza geografica dei due boxeurs sottolinea come lo scontro fisico fra due rappresentanti di una identica cultura, che militano in campi opposti, sia esemplare della faticosa uscita fuori dal proprio mondo di appartenenza. Sul ring i due lucani si affrontano perché sono entrambi privi di alternative. Per l'uno e per l'altro incassare pugni è l'unico modo per poter sopravvivere e dare contemporaneamente sfogo alla propria aggressività repressa. L'incontro Simone Parondi- Vitolo, destinato a far risaltare il talento pugilistico del fratello di Rocco, è un combattimento ovviamente simbolico, nel quale si rappresenta la violenza del rapporto con la città di Milano e si condensano le difficoltà del migrante con se stesso e con gli altri. Vincere sul ring equivale per Simone a farcela nella vita reale. Per questo, nella studiata trama del film quando si incrina il suo rapporto con il pugilato comincia l'inarrestabile rovina del personaggio.
Lo scontro fra la «Lucania» - come viene detto nel dialogo del film - e la Lombardia rappresentate dalle due società pugilistiche è ben radicato nel razzismo senza razza che percorre per intero il film. Il razzismo differenzialista, definito e isolato da Etienne Balibar, consistente nel ritenere la propria cultura superiore alle altre e pertanto inconciliabile con le altre, rappresenta l'impianto ideologico del viscontiano Rocco e i suoi fratelli. La «Lucania» ora è apertamente qualificata come «Africa» dai condomini della periferia milanese, ora è sottintesa come disvalore che separa ed emargina. La rinuncia all'integrazione nella metropoli da parte di Rocco, l'integrazione compiuta da parte del fratello maggiore Vincenzo, quella rifiutata da parte di Simone, quella voluta da parte di Ciro e quella, infine, da compiersi da parte del piccolo Luca sono altrettanti paradigmi dei possibili atteggiamenti dei migranti di tutti i tempi. Consapevole di ciò, il grande regista impostò la sua drammaturgia puntando sulla «trasformazione che provoca crisi, perdite, cadute. Tra un là mitizzato nella memoria e un qua intravisto in campo lungo dall'esterno come luogo di un possibile ma non scontato approdo, Visconti sceglie di mettere in scena solo ciò che sta in mezzo, eliminando - per aferesi o per apocope - tanto il punto di partenza quanto il punto di arrivo».
Sotto il profilo drammaturgico, il conflitto tra 'Lucania' e 'Lombardia' è stato esemplificato anche nella musica composta da Nino Rota per il film, basata sul tema del paese e sul tema di Nadia. Ed è proprio il tema musicale del paese, appositamente struggente e variato, a legare i personaggi alle proprie radici, a richiamarne l'identità e a far sentire con modi sottili quanto discreti la presenza/assenza della Basilicata dentro le sequenze viscontiane.
A caccia di interni
Numerose sono le tracce di una corrispondenza tra l'esperienza del viaggio in Basilicata e la meticolosa costruzione scenografica di Rocco e i suoi fratelli. E esemplare, in tal senso, la foto di famiglia che nel film riempie le pareti della povera casa di Rosaria, prima dello scantinato, poi della casa popolare milanese, attraverso la quale Nadia impara a riconoscere i cinque fratelli Parondi, e le identiche foto di fami-glia che, allineate le une alle altre, riempiono le pareti degli interni contadini visti da Visconti (foto n. 97) durante il sopralluogo lucano. Il leitmotiv del film, ossia le fotografie «continuamente mostrate, commentate o esibite» (dal medaglione di Rosaria ai manifesti della scena finale con l'immagine di Rocco) affonda le proprie radici nell'aver osservato gli interni delle abitazioni lucane e nell'avervi appreso il forte senso della memoria affidato alla fotografia dai suoi abitatori. L'immagine fotografica diventa ricordo, conforto, prova tangibile dell'esistenza propria e di quella altrui, proiezione affettiva, legame con gli assenti.
Nella ricostruzione filmica, in taluni casi parrebbe che vi sia una riproduzione minuziosa e precisa di oggetti e ambientazioni. Non a caso, la collana di aglio nella cucina milanese di Rosaria replica quella della foto n. 46. Gli utensili di rame e i cesti di vimini appesi al muro come una natura morta sono altrettante citazioni degli interni di case contadine visitate in Basilicata. All'occhio analitico di Visconti non potevano sfuggire questi particolari, di cui esige la presenza nella scaletta preparatoria, richiamando ancora una volta l'effigie di san Rocco, ritenuta tanto importante da essere alternativa a quella della Madonna:
"Nella prima casa di Rosaria, dev'esserci la sfilata dei tegami al muro; davanti all'immagine della Madonna o del San Rocco, i poveri, che non hanno fiori, mettono basilico fresco, preso proprio dalla sporta della spesa".
Dimostrando di aver acquisito uno sguardo acuto come quello di un fine antropologo, Visconti in un altro punto precisa:
"Nella visita agli altri meridionali che affittano letti, può esserci in uno stanzino (ricordo delle abitudini campagnole) un tappeto di mele, o di cipolle rosse distese a terra; La [sic] Madonna della Madia, o il San Luca, o il San Rocco che, al posto della lorica, porta un cilicio fatto come una specie di nassa di pruni selvatici intrecciati fra loro (ad imitazione dei penitenti che nei paesi meridionali portano in processione il San Rocco)".
Mettendo a confronto gli scatti fotografici durante il sopralluogo lucano e gli interni delle due case milanesi di Rosaria, si nota agilmente come, complice la maestria dello scenografo Mario Garbuglia, la cura del grande regista del cinema italiano nei confronti del particolare raggiunga livelli di precisione impressionante. La statua di san Rocco messa sotto una campana di vetro è il nume tutelare della famiglia lucana dei Parondi, così come lo è per la gran parte delle famiglie di Pisticci. Nel film appare nello scantinato di Lambrate, sull'angolo, nello spazio adibito a camera da letto, e viene inquadrata circondata da lunghe candele, lumini e fiori, mentre i fratelli Parondi si vestono velocemente, felici per la nevicata che avvolge la città e che avrebbe assicurato loro un giorno di lavoro. Nel sopralluogo, lo stesso oggetto devozionale risulta evidente nella foto n. 64, scattata nella cittadina lucana, precisamente in corso Regina Margherita, dove presumibilmente fu acquistata, e nell'interno rappresentato dalla foto n. 97. In un altro momento del film la sua presenza salvifica è evocata da Rosaria: «San Rocco sta sempe inta a' stanza mia! [San Rocco si trova sempre nella mia camera!]», dice a Rocco quando al ritorno dal servizio militare gli mostra la nuova casa, volendo con questo rassicurarlo circa la continuità degli affetti e l'armonia apparente che governa la loro famiglia. E nella camera di Rosaria san Rocco viene inquadrato altre due volte, sempre attorniato da candele e fiori, l'ultima delle quali nella scena della confessione dell'omidicio di Nadia da parte di Simone a Rocco. Nel salutare i figli augurando loro una giornata piena di lavoro, Rosaria invoca i santi Rocco e Donato, entrambi aventi funzioni terapeutiche e salvifiche. Visconti è pienamente consapevole del delicato ruolo svolto dal santo di Montpellier, tanto che in una scaletta scrive:
"Il ritorno di Rocco...Gli amuleti che aiutano Rocco e San Rocco, in Lucania, sono piccoli arti di cera (mani, braccia, gambe, teste di cera), come quelle dei pupazzetti [...]. Davanti al San Rocco che ha fatto la grazia (e questo vale anche per la scena finale, poiché Rosaria aspettava l'esito dell'ultimo incontro), c'è un cestello contenente grano, fiori, cera e danaro".
L'offerta votiva raccomandata dal regista tradisce una volta di più l' attenzione verso il particolare in grado di veicolare messaggi culturali a forte connotazione etnica e di suggerire una qualche connotazione lucana. Lo sguardo selettivo, antropologicamente avvertito, di Luchino Visconti in Basilicata orientò anche per questa via le scelte registiche compiute nella realizzazione di Rocco.
Lo specchio della memoria
Tratto distintivo della cultura lucana degli anni Cinquanta, il lutto con i relativi rituali ha largamente dominato la letteratura scientifica di carattere antropologico prodotta in quegli anni. Nel suo sopralluogo nella Basilicata orientale, tale costume, assai diffuso, venne percepito da Visconti non solo nel nero di cui è ammantata la maggior parte delle figure femminili, ma anche nella casa listata a lutto. La foto con segnatura C.26.05-005455 scattata a Pisticci, raffigurante il numero civico 3 di via Menotti, con accanto un negozio di alimentari frequentato da bambini (vd. foto n. 75), è una inedita testimonianza visiva che si aggiunge alle molteplici fonti raccolte dagli antropologi e che trova conferma nelle pagine del romanzo di Levi: «Le porte di quasi tutte le case [...] erano curiosamente incorniciate di stendardi neri, alcuni nuovi, altri stinti dal sole e dalla pioggia, sì che tutto il paese sembrava a lutto, o imbandierato per una festa della Morte».
Come in un quadro in cui si compongono numerosi rispecchiamenti, i codici del lutto si addicono a Rosaria Parondi. E una situazione luttuosa che scaraventa sei persone in una realtà estranea e ostile come Milano, ed è quel lutto, di cui Rosaria si serve per riportare a se il figlio maggiore, il sentimento doloroso che tiene affettivamente insieme e cementifica la famiglia di migranti lucani. Il dolore profondo per la morte del capofamiglia si tramuta in valore etico, in energia positiva, in capacità di riscatto. La lontananza letterale e metaforica dalla propria cultura è lo stato luttuoso in cui sono costretti a vivere i cinque fratelli, per intraprendere il processo di interazione, prima ancora che di integrazione sociale ed esistenziale nella ostile metropoli del Nord. Di nero è costantemente vestita Rosaria Parondi, come la maggior parte delle donne incontrate in Basilicata. Porta appuntato sul petto il ritratto ovale del marito per dichiarare il suo stato vedovile e attingere da questo la sua forza dominatrice. Di nero sono vestiti i suoi figli orfani di un padre che li ha voluti legare alla terra misera e avara. Solo Vincenzo, immigrato per primo, sembra non rispettare il lutto del padre, mentre tutti gli altri vi sono costretti. Annota Visconti:
"Dopo la notizia dello sfratto, o in qualsiasi altro posto, potrebb'esserci la gustosa scenetta, da liquidare in una "sinistra" e in una battuta, dei fratelli che, passato il tempo stabilito, potranno finalmente liberarsi - con autentici sospiri di sollievo - del lutto".
Il vestito di Rosaria, all'arrivo a Milano, è pieno di spilli e spilloni, di quelli cosiddetti 'da balia'. Tali particolari rimandano all'immagine di Maddalena La Rocca, la fattucchiera immortalata da Franco Pinna a Colobraro nell'ottobre del 1952, che Ernesto De Martino pubblicò nel 1959 nel volume Sud e magia. Sono oggetti tipici di un costume regionale, che servono all'abbigliamento povero, ma sono anche sinonimi di laboriosità. Servendosi di spilli e spilloni il filo di lana corre infatti veloce tra le dita. Guardato con molta attenzione, il vestiario delle contadine lucane ispirò Piero Tosi, il costumista fiorentino che prima di Rocco aveva lavorato ai viscontiani Bellissima e Senso. «Contemporaneamente alla visita dei luoghi, cercavo dei materiali di vestiario e ne feci una grande raccolta, tanto che sia Rosaria che i figli all'inizio del film furono vestiti con abiti comperati in Lucania». La testimonianza di Tosi è una conferma ulteriore di quanto e di come il viaggio in Basilicata seppur circoscritto a poche tappe, sia stato determinante per la messa a fuoco dei caratteri culturali necessari ai personaggi del film.
Gli appunti fotografici di Visconti, una sorta di instant-book per la consultazione immediata, non potevano non riprodurre usi e costumi della Basilicata di fine anni Cinquanta, strettamente connessi alla vita quotidiana. Così è per le grandi forme rotonde di pane viste a Matera e immortalate nella foto n. 85, riproducente la cosiddetta 'tavola del pane', come veniva chiamata in città, che indussero il regista a valorizzare il cibo principe dell'alimentazione contadina. Non a caso, egli ne raccomandò la citazione ad apertura del film, nel modo seguente:
"L'apparizione di Rosaria e dei figliuoli alla discesa dal treno, e successivamente in casa Giannelli, dev'essere con le grandi forme di pane assieme ai bagagli".
Visconti ne fece un uso dichiarato nella scena del risveglio milanese con la nevicata, quando ognuno dei fratelli affetta del pane per la propria colazione e su un lato del povero tavolo ne troneggia una grande forma, simile a una di quelle mostrate dalla foto n. 85. Altri cibi, oltre al pane, ribadiscono il legame con la Basilicata, primi fra tutti le lenticchie, che vengono pulite come in un rito collettivo dai fratelli Parondi nella scena dell'apparizione di Nadia, ma anche l'aglio immancabilmente appeso nelle cucine di Rosaria. Visconti dimostra altresì un'attenzione particolare anche verso alcuni piatti rituali, poi non trasferiti in pellicola: le frittelle pasquali simili a «grandi e gonfie cravatte a fiocco», prescritte in una scaletta del film ed anche «l'uovo sodo circondato da un cestello commestibile fatto con la stessa pasta delle frittelle d'aprile» al posto delle uova colorate.
Rimanendo nella città dei Sassi, il regista ebbe modo di fissare nel suo block-notes fotografico anche gli attrezzi di lavoro agricolo o domestico, soggetti anche questi a trasposizione cinematografica. Continuando il gioco significativo di rimandi speculari tra la realtà lucana e il travestimento filmico, il carretto con il quale Rosaria raggiunge la sua prima residenza milanese sembrerebbe una citazione diretta dei carretti (i cosiddetti 'traini') visti durante il sopralluogo materano e fissati in numerosi scatti. Le foto nn. 32, 34, 36 documentano l'impiego di tali attrezzi di lavoro, molto diffusi in città, a tal punto che, subito dopo Visconti, Oskar Kokoschka nel 1961 li immortalò in una litografia, facendone una delle immagini della città immediatamente riconoscibile. In altri momenti, l'occhio acuto del regista coglie le donne mentre maneggiano brocche accanto alle fontane o stringono a se galline (foto nn. 81, 65), contribuendo in tal modo a fissare uno stereotipo figurativo destinato a divenire ricorrente nella produzione artistica lucana.
Nello straordinario viaggio in Basilicata, solo apparentemente rimosso dal film ma interiorizzato in profondità, Visconti, reduce dalla stagione neorealista di Ossessione, La terra trema, Bellissima, poté riscontrare in pieno ancora una volta la sua concezione di cinema antropomorfico, messa a fuoco nel 1943 sulle pagine di «Cinema»:
"L'esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell'essere umano, la sua presenza, è la sola "cosa" che veramente colmi il fotogramma, che l'ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell'uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa,si svolge dinanzi ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essa modificata continuamente".
immagine 1 - Pisticci, Rione Dirupo. Bambina che guarda le case puntellate in via Meridionale
immagine 2 - Pisticci, donna che sale le scale tra il Rione Dirupo e il Rione di Terravecchia
immagine 3 - Pisticci, Rione Dirupo. 'Pacchiana' con gallina in via Meridionale
immagine 4 - Pisticci, Rione Dirupo. Fotografo, bambini e calanchi
immagine 5 - Pisticci. Rione Dirupo. Passanti fra via Lissa e via Risorgimento
immagine 6 - Pisticci. Donne e bambini nel Rione Dirupo
immagine 7 - Pisticci. Il gruppo dei 'viscontiani' (si distingue Paul Ronald con cappello e pipa) nel Rione Dirupo