Nata
dalla collaborazione tra l'Archivio di Stato di Mantova e la Fondazione Palazzo
Te, la collana “I Gonzaga digitali” risponde alla volontà di valorizzare e
promuovere la conoscenza, anche tra i non specialisti, della storia della città
lombarda attraverso i documenti conservati nel Fondo Gonzaga, via via resi
disponibili sul
portale della Fondazione stessa. La raccolta di saggi
qui proposta è dedicata alla moda tra la metà
del Cinquecento e il 1650, studiata in una prospettiva europea attraverso indagini
di prima mano sui carteggi, i registri e gli inventari dei signori di Mantova, oltre
che sui contratti dotali, che si sono dimostrati una miniera di informazioni,
come illustrato da
Daniela Sogliani
(pp. 1-8).
Un
rilevante capitolo della storia del gusto da rileggere in un'ottica
interdisciplinare, legato come è alla storia della letteratura, a cominciare dal
Cortegiano di Castiglione; a quella economica,
per i continui riferimenti agli scambi commerciali e alle produzioni
artigianali di alta qualità; a quella dell'arte, per gli opportuni riscontri
iconografici. Senza dimenticare che la libertà nell'uso dei capi
d'abbigliamento era limitata fin dal XIII secolo da apposite leggi suntuarie cui
anche i Gonzaga dovevano attenersi. Atte a disciplinare l'ostentazione del
lusso per ceto sociale, sesso, status economico, religioso o politico, si
rivelano fonti imprescindibili anche per la storia dello spettacolo grazie ai
costanti riferimenti all'organizzazione dei principali eventi dinastici:
battesimi, nozze, banchetti e funerali.
L'attenzione
data dalla storiografia italiana alla storia del costume e alle origini della
moda vanta una lunga tradizione, come dimostra Maria Giuseppina Muzzarelli, che individua tre fasi distinte (pp.
9-16). La prima si colloca tra gli anni Settanta dell'Ottocento e gli anni
Venti del secolo successivo: un'epoca curiosa e aperta a nuove suggestioni,
interessata a tutti gli aspetti della vita quotidiana e sociale del passato,
con particolare riguardo all'epoca medievale e rinascimentale. La seconda, tra
gli anni Sessanta e la fine del Novecento, molto deve al rinnovamento culturale
promosso da «Les Annales» e, in particolare, alle posizioni di Fernand Braudel
che sosteneva che la storia degli abiti fosse tutt'altro che aneddotica e che
andasse contestualizzata nel suo divenire. A questo periodo risale la
monumentale Storia del costume in Italia,
pubblicata in più volumi da Rosita Levi Pisetzky tra il 1964 e il 1969, nonché
le successive ricerche di Roland Barthes sulle forme e i significati
dell'abbigliamento. Fino ad arrivare ai primi due decenni del XXI secolo,
caratterizzati da una crescente interazione multidisciplinare, anche se forse a
discapito della ricerca di nuove fonti.
Roberta Orsi Landini illustra la doppia
funzione comunicativa dell'abito nelle società di corte di Antico regime (pp.
17-32). Da un lato esso era parte dell'immagine pubblica di sé e del proprio
ruolo e doveva restituire un'idea di “splendore” e lusso attraverso l'abbondante
uso di oro e gemme. Dall'altra doveva trasmettere raffinatezza e gusto estetico.
Da qui la necessità di trovare sempre nuovi abbinamenti, sfumature di colore e disegni
per ricami, da sfoggiare nelle occasioni più disparate come feste, giostre e
tornei, sfilate, cortei. Una caccia all'oggetto da cercare nei principali
centri di produzione di beni di lusso: Roma, Venezia, Milano, Firenze e Praga. Lo
dimostra la determinazione del duca Vincenzo I Gonzaga, un vero e proprio
maestro di stile, ad avere abiti “di inusitata e straordinaria foggia” e
oggetti che “escano dall'ordinario”, come emerge dai documenti rintracciati da Federica Veratelli (pp. 33-50).
Per
ottenere i prodotti originali ed esclusivi di cui erano costantemente alla
ricerca, i Gonzaga si avvalsero di una vasta rete di intermediari che operavano
nelle ricordate città e dei quali si è interessata Elisa Tosi Brandi (pp. 51-73). Erano loro a occuparsi degli aspetti
più delicati della scelta, confezione e acquisto degli abiti, di cui si
assumevano piena responsabilità, con esiti non sempre positivi, come nel caso
di Giovanni Magni. Delicata anche la scelta dei bottoni, spesso preziosi,
sempre veri e propri accessori di stile, come illustrato da Barbara Bettoni (pp. 93-110).
Il
linguaggio della moda aristocratica doveva comunque sottostare a una serie di
codici imposti dall'etichetta di corte, tanto più forte in occasione di eventi
luttuosi o festivi (Bruna Niccoli, pp.
75-92). Nel primo caso la scelta dell'abito si inseriva in un più ampio
contesto di apparati che prevedeva l'uso del nero in tutte le sue sfumature; le
feste erano al contrario l'occasione per le più ardite combinazioni di colori,
in particolare durante le incoronazioni, quando si doveva esibire tutta la
simbologia della regalità e del potere.
Se
ne ha un riscontro nell'utile apparato iconografico che chiude il volume con
esempi di calzature, “rosette” per abbigliamento, particolari dei ricami
dipinti da abili artisti come Rubens, Clouet, Lucrina e Domenico Fetti e
Sustermans (pp. 111-146).