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Lorena Vallieri

Una tragedia ritrovata: “Giuliano cacciatore” di Melchiorre Zoppio

Data di pubblicazione su web 11/06/2019
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Filosofo, medico e letterato, il bolognese Melchiorre Zoppio (fig. 1)[1] è oggi noto soprattutto per essere stato, nel 1588, tra i fondatori della celebre accademia dei Gelati, in cui assunse il nome di Caliginoso e il motto «Muneris hoc tui» d’ispirazione oraziana (Carmina IV, 3, 24). La sua impresa, disegnata da Agostino Carracci,[2] raffigurava il sole che scaccia le nubi (fig. 2) e il suo significato venne esplicitato dallo stesso Zoppio in un sonetto contenuto nelle Ricreazioni amorose del 1590, prima pubblicazione collettiva dei Gelati: 

NUBE son io, che tempestosa e nera,
Minaccia dileguarsi in nembo horrendo,
Ma se il mio sol, con l’aurea luce ardendo
M’irraggia, o in su’l matino o in su la sera
Viemmi da i rai dell’infiammata sfera
Vampa, onde honore inusitato apprendo.
Nel proprio horror dell’altrui luce splende:
Sì ch’imito del sol la faccia vera.
Ne la beltà che in me raddoppia il suo
Sembiante, in lei, quanto in altrui si mira,
Ne il mio proprio squallor più si detesta.
Son’io, son quell’in cui si manifesta
Donna, il tuo volto. Io sono quel che s’ammira;
Ma l’horrore è pur mio, l’onore il tuo.[3] 

In stretti rapporti con compositori e pittori,[4] Zoppio si dedicò con interesse e passione al teatro. Nel 1600 firmò la relazione a stampa del torneo La montagna circea,[5] allestito in occasione del passaggio da Bologna di Margherita Aldobrandini, e intorno al 1614 fece costruire nel proprio palazzo in Strada Maggiore[6] un teatro stabile dotato di macchine,[7] poi inaugurato con una serie di fortunate recite del Tancredi di Ridolfo Campeggi.[8] A quell’altezza cronologica con ogni probabilità la sala era già stata utilizzata per alcune delle «ricreationi honeste» organizzate dai sodali durante il carnevale, a cominciare forse dalla messa in scena nel 1589 della commedia Diogene accusato, scritta dello stesso Zoppio, il cui prologo venne affidato a una personificazione dell’accademia che, a un anno dall’apertura, così si presentava al pubblico: 

Qual mi vedete (o spettatori)
Neve la veste, e ghiaccio il crine
Son l’Academia de i GELATI.
Stanno in desir continuo i miei
Di piacervi, hor con gravi studij
Hor con ricreationi honeste,
Che il piacer vostro è il gusto loro.
Però pensando di spettacolo,
Per dilettare, e in un giovare,
Con motti e scherzi; ma non quali
Han nel rossor, più che nel riso,
E con sentenze, ma non quali
Danno all’horror, quanto al costume,
Trovato han d’accoppiare il giuoco
Comico, senza la comedia;
E senza i tragici cothurni,
Il dir sensato. Et rinovando,
A un certo modo, l’attioni
Vetuste d’Eupoli e Cratino
Predecessori di Menandro,
Autor della comedia nova,
Son per rappresentarvi un’huomo,
Che visse tal, e tal sofferse,
E parlò tal, qual sentirete.[9] 


Da ricordare, a firma del Caliginoso, anche le tragedie Medea essule (1602),[10] Il re Meandro (1629),[11] Admeto (1634)[12] e la perduta Creusa. Parimenti irrintracciabili alcuni drammi segnalati da Leone Allacci: La primavera in contesa coll’autunno (1608), L’innocenza d’amore (1611), Il politico svergognato (1617?) e Il savio conosciuto, ed esaltato (1624).[13] Alle drammaturgie conosciute si può ora aggiungere la tragedia Giuliano cacciatore che, a lungo ritenuta perduta, è stata da me rintracciata in un manoscritto della Biblioteca Oliveriana di Pesaro datato «Bologna, l’ultimo d’agosto 1605» (fig. 3).[14]

In attesa dell’edizione commentata del testo, in preparazione, ho deciso di anticipare la trascrizione della lettera di dedica «al cardinale Serafino»[15] (doc. 1) in quanto ritengo che lo scritto costituisca un imprescindibile punto di partenza per meglio comprendere il rilievo che i Gelati attribuirono alla poetica tragica già nei primi anni di attività.[16] Evidentemente percepita come consona al progetto culturale del sodalizio, essa trovò una successiva sistematizzazione teorica nel trattato Della tragedia di Innocenzo Maria Fioravanti, pubblicato nel 1671 nel volume collettaneo delle Prose de’ sig.ri accademici Gelati.[17] Partendo dalla definizione di Cicerone della tragedia come specchio della vita, Fioravanti ne evidenzia l’intima capacità di far riflettere, nonostante le tragedie fossero

a nostri tempi corrotti così poco sono gradite, quasi che Melpomene non sia legitima figliuola di Giove al par di Talìa. Che non fate dunque stridere contro a questo Secolo sin le vostre penne, o Poeti, impiegandole nel genere di così nobile componimento, intorno a cui favellare m’accingo, non per salire in Catedra come Precettore, ma bensì per ripettere come Discepolo ciò, che appresi da i libri più scielti, che sono i miei muti Maestri.[18]

Comincia così una disquisizione ricca di citazioni tratte da classici quali Seneca, Orazio, Virgilio e Plutarco. Colpisce peraltro che venga nominato un solo scrittore moderno: Alessandro Piccolomini[19] che, come noto, era stato a lungo in contatto con il vivace ambiente teatrale dei sodalizi veneti, in particolare padovani, dove si erano tenuti accesi dibattiti e sperimentazioni sulla tragedia. Piccolomini vi era intervenuto in prima persona prendendo parte al progetto degli Infiammati di Padova di mettere in scena la Canace dello Speroni recitata da Ruzante, progetto non realizzato per l’improvvisa morte di Angelo Beolco.[20]

Ma ciò che qui interessa rilevare è come gli stessi riferimenti culturali (ad eccezione del senese) si trovino nella lettera firmata da Zoppio, impegnato a rendere ragione dell’aver abbandonato, dopo la poco fortunata prova della Medea essule, le «inclinationi proprie» per seguire il «sentir di molti che fan legge di quel che piace» e per «condiscendere al piacimento commune»:

Qual si fosse il mio primo pensiero in quanto alla natura della tragedia ne diedi indicio nella Medea essule, et se ho da dire il vero, saltai come a più pare nel mio genio: me la fec’io, me l’allenai [?] io, me l’acconcia a mio senno, con una certa, poco men che non dissi, sprezzatura di pulitezza, alla sofoclea […] Ma per esser parso a me che non s’incontri chi le dia gran fatto fantasia, o sia per esser’ella assai neguciosa, onde conviene dar più al maneggio che al trattenimento, o sia per contenere ella argomento ruvido e lontano dall’orecchie moderne con genealogie et avvenimenti presuppostivi, che il distenderli sarebbe riuscito prolisso e satievole, come il ristringerli oscuro o pur sia per una cotale nota d’oscurità nelle cose mie, ch’io non ce la so conoscere, la quale in effetto vi si trovi, mi son’io facilmente rivolto all’altro pensiero dell’havermi a confare un poco più a gli altrui piacimenti, et del dare come a balia fuor di casa il Giuliano: alfine che quello che fosse da me stimato decoro di sentenza costumata non venga da altri totalmente ascritto a ruvidezza di giudicio impratticabile.[21]

Zoppio non esita a dichiararsi contrario «all’uso moderno» dei poeti, per cui «la favola di padrona ch’ella è per natura si fa per usanza ancella di quelle cose che l’abbelliscono, della sentenza et della elocuzione ch’a buon dovere sarebbono esse le ancelle»,[22] ma afferma di aver comunque deciso di “confarsi” a tale uso anche sull’esempio dell’Anfitrione di Plauto:

Il pensiero fu di comporre non una tragedia, ma per dovermi confare anch’in questo all’orecchio moderno, un misto di tragedia, e di comedia, a cui si potesse fare il nome di tragicomedia non men confacevole di quello ch’altri havessero aggiunto alle pastorali, con molta felicità non niego, ma con male essempio a me non pare, perché Plauto introduttore di tal’onomatopeia ci hebbe pensiero attorno d’altra fatta, et per mio avviso stimo che al fare innesto di due specie di poesia fra di loro dissimili non bastasse imitatione d’una quasi medesima sorte persone, né un tenere di purgare affetto quasi uniforme, Ma come sono differentiate la tragedia e la comedia, che quella fa l’effetto suo mediante l’horrore e la commiserazione cadente sopra personaggi grandi; questa mediante il riso et lo scherzo convenevoli a gente bassa, così al farne questa tal mistura si dovessero accoppiare insieme il solazzevole, e’l severo; secondo l’essempio dell’Anfitrione, tragedia quanto a Giove e Alcumena, comedia  quanto a Mercurio e Sosia.[23]

Il Caliginoso ha presente anche la coeva drammaturgia fiorentina, ricordata attraverso la «Vedova del Varchi»,[24] in un passaggio in cui è chiara la confusione tra l’omonima commedia di Giovan Battista Cini, andata in scena nel 1569 in occasione della visita a Firenze dell’arciduca Carlo d’Austria, e La suocera di Benedetto Varchi. Il modello di riferimento resta comunque la Poetica di Orazio:

Ma in fatti ravvolgend’io per la mente il documento horatiano, et come s’accoppino male il serpente e l’uccello, la tigre e l’agnello, mutai proposito, e mi risolsi al moderare le piacevolezze, et al levarne i ridicoli, parendomi che il caso fosse assai tragico, e potesse conseguire la sua riuscita con qualche trattenimento che non togliesse di suo trono Tragedia. E fui di modo che al cancellarci di molte cose, vi rimasero pure alcuni vestigij della mia primiera intentione: temprandoci pur’anche la riuscita perché non lasci l’animo in tutt’oppresso da quell’horrore tragichissimo, ma sia con qualche sollevamento per buon costume.[25]

Una autorità che non viene messa in discussione neanche in una successiva occasione in cui Zoppio esprime il proprio pensiero intorno alla tragedia. Alludo alla lettera scritta a Marcantonio Amici su un Sigismondo andato in scena ad Ascoli e accompagnato da una querelle che coinvolse anche i locali frati Serviti (doc. 2).[26] Il documento, datato 31 luglio 1621, è conservato in copia presso la Biblioteca comunale Mozzi-Borgetti di Macerata e, a quanto mi risulta, è inedito. Esso mostra un Caliginoso tanto competente quanto prudente nel prendere posizione in una polemica evidentemente “scomoda” e oggi poco nota, anche se sicuramente meritevole di ulteriori approfondimenti in modo da aggiungere un ulteriore tassello alle nostre conoscenze sulle riflessioni accademiche intorno ai generi teatrali.

 

APPENDICE

I criteri di trascrizione sono stati prevalentemente conservativi tuttavia, quando necessario, sono stati regolarizzati gli accenti e la punteggiatura in modo da agevolare la lettura e la comprensione del testo. Gli a capo e le maiuscole sono stati rispettati solo in parte. Le lettere aggiunte e le parole ricostruite sono state inserite tra quadre ([ ]). I casi di ripensamento e le correzioni sono stati segnalati con parentesi uncinate (< >), sia quando si tratta di aggiunte a margine o in interlinea, sia in caso di parola sostituita. 

Doc. 1

Melchiorre Zoppio, lettera di dedica al cardinale Serafino Olivier Razzali, Bologna, 31 agosto 1605, in Giuliano cacciatore. Tragedia del Caliginoso gelato Melchiorre Zoppio. In honore di Macerata per cara memoria di padre in essa città favorito di gioventù propria indirizzata di contribuzioni academiche fra Catenati già detto il Sollevato, 1605, Pesaro, Biblioteca Oliveriana, ms. 1377, cc. ar.-fv

 

AL CARDINALE SERAFINO
Ill.mo et R.mo Sig.re

S’incamina a V.S. Ill.ma da presentarsele per mano del S.r Abbate Fachinetti la mia GIULIANO così dimandatami da lei, perch’ella è tragedia, et perch’è di titolo maschile. È già suo di protettione quel ch’è mio di produttione, esce di stanza riposta e caliginosa a farsi vedere alla luce e campeggiare a i raggi ill.mi dell’ampiezza vostra: acciocché dov’egli è manchevole per l’oscurità del producitore possa sperare d’avvantaggiarsi per la chiarezza d’un tanto protettore. 

Nacque egli ad un tempo con un suo fratello di padre il medesimo, di madre diversa. E non si può già dire che l’un et l’altro insieme prodotti, e insieme dedicati uscissero in vita <né> da tempo meno lieto mentre che il mondo era in giubilo per la promotione di V.S. Ill.ma al Cardinalato, vedendosi i veri honori esser veri o premi, o segni del valore e del merito. Né con augurij men prosperi: poiché l’uno il qual’hebbe il padre distinto dalla madre ottenne favore nel Sacro Lavacro per la vita che si spera eterna ch’ei vi fosse tenuto a nome del S.r Cardinale Serafino: l’altro a cui son’io padre e madre prende fidanza sotto il medesimo nome di non forse molto repentina morte et sì come quell’incommincia a muovere i passi, ma non si che non si sia bisogno di chi a lui ponga sostento nel salire delle scale, così a questo ho giudicato io molto espediente che porga mano il mio Sig.r Abbate, mie forze, mio animo, mio indirizzo, et (per così dire) mia raccoglitrice ne’ parti del mio intelletto, et allevatrice nell’infantia et invalidità loro. 

Questo Prelato di quella forza ch’egli è, sostenterà GIULIANO perché sicuro venga a salire i colli di Roma, dove in alto V.S. Ill.ma accresce di splendore la porpora per la chiarezza delle virtù riguardevoli a meraviglia nella sua persona, et lo solleverà a quel segno in cospetto di essa lei, al quale il fanciullo, stante la debbolezza [sic] propria non confiderebbe mai da sé di pervenire. 

Sono i fratelli d’un’età istessa infantile, ma differenti in ciò, che l’un di loro non per anche articola voci. L’altro, la cui infantia si devria (secondo l’avvertimento d’Horatio) estendere fino a i nove anni, è d’una precoce loquacità, più che non saria per ventura condecente a tragica moderanza con venustà, che riceve scarsi abbellimenti, chiara di suo colore, distinta con brevi sigilli, per doversi conformare a lavoro più di Pallade che d’Arachne. Ma tal volta è pur benfatto di torre alle inclinationi proprie per dare al sentir di molti che fan legge di quel che piace, e condiscendere al piacimento commune e ha forza d’introdurne uso, nel cui contrasto bisogna che la ragione arrenda e si ritiri. 

Di due tragedie le quali io mi trovo d’haver condott’a compimento è avvenuto a me di quello che ad una madre di due figliuole, che ne allatti una, e ne dia fuori a balia un’altra. Così io mi ci trovo di haver havuto due pensieri. L’uno del mio senso in rispetto della qualità del componimento; l’altro dell’altrui gusto in rispetto dell’usanza. Qual si fosse il mio primo pensiero in quanto alla natura della tragedia ne diedi indicio nella Medea essule, et se ho da dire il vero, saltai come a più pare nel mio genio: me la fec’io, me l’allenai [?] io, me l’acconcia a mio senno, con una certa, poco men che non dissi, sprezzatura di pulitezza, alla sofoclea: perch’ella dovesse comparire alla foggia di matrona che in giorno di festa se ne vada in su la sua, col suo velo in capo, in su le sue treccie [sic] accolte in nastro semplice senza molto increspar di capelli, né sfoggiar d’habbito: vestita (s’io non m’inganno) di buona robba, e tale che [parola illeggibile] sodo che le dia ben fantasia, possa raddoppiarci l’occhiata, e dire 

Costei certo per sé già non mi spiace 

Ma per esser parso a me che non s’incontri chi le dia gran fatto fantasia, o sia per esser’ella assai neguciosa, onde conviene dar più al maneggio che al trattenimento, o sia per contenere ella argomento ruvido e lontano dall’orecchie moderne con genealogie et avvenimenti presuppostivi, che il distenderli sarebbe riuscito prolisso e satievole, come il ristringerli oscuro o pur sia per una cotale nota d’oscurità nelle cose mie, ch’io non ce la so conoscere, la quale in effetto vi si trovi, mi son’io facilmente rivolto all’altro pensiero dell’havermi a confare un poco più a gli altrui piacimenti, et del dare come a balia fuor di casa il Giuliano: alfine che quello che fosse da me stimato decoro di sentenza costumata non venga da altri totalmente ascritto a ruvidezza di giudicio impratticabile. Essendo il comporre favole d’hoggidi ridotto a così fatta delicatezza che pare che più si doni all’orecchio che al negocio, et si essamini non quanto più dicevolmente ma quanto più dilettevolmente, né quanto più sodo, ma quanto più bello, né tal volta quanto più bello, ma quanto più abbellito se n’esca un poema. Et perché non si ritrova attione la più capace di piacevolezze che l’amorosa, sono andati in disuso quegli argomenti grandi, dell’Hecube, de gli Oresti, de gli Hercoli furenti, de gli Edipi tiranni. 

Così la favola di padrona ch’ella è per natura si fa per usanza ancella di quelle cose che l’abbelliscono, della sentenza et della elocuzione ch’a buon dovere sarebbono esse le ancelle, quasi i [parola illeggibile] amino meglio d’essere gioielieri che sposi, poscia che le gioie le quali esser dovrebbono le secondarie in servigio dell’addobbare la sposa pongo essi in su la bella mostra come le principali nel mestiero: della sposa poi lasciano il pensiero ad altri, pur che sia ben pulita, se bene misurata poco importa loro. Così pare che si tenga conto de gli abbellimenti, comunque della favola adivenga. Che cosa è ciò? Se non con somma industria formar l’anello, e poscia farci un dito posticcio da metterlovi attorno? Ne già mi meraviglio io che tale introduttione habbia dilettato, quando che a molti piace più una gemma pretiosa che una mano gratiosa. Et ci sarà tal’uno che s’addurrebbe al danneggiare una bella mano, pur haversene una bella gemma. 

Io non cavillo altri, e non correggo nesuno, ch’io non sono da tanto, ma rendo ragione del conformare me stesso al costume non mica popolare; stando ch’io ci trovo condiscendere i più pregiati di questo secolo. Et pongo in chiaro la causa dell’essermi io sperimentato nell’uscir fuori del mio battuto per la strada più frequentata, e provatomi in quello che da più riputati compositori nostrali si trova autenticato, con intentione d’havermi a domesticare, e più tosto venir zoppicando appo gli altri fra gli ultimi che andarmene a gran passi notato a dito solingo per balzi e dirupi. Io so che tal’uno dir mi potrebbe: se non ti ci accomodi perché non te ne lievi? (et come disse quel villano: se non ci sai gir di dì, perché ci vuoi gir di notte?) camina per la tua via, nissun ti chiama dalla filosofia alla poesia: e so pur troppo che mi direbbe il vero. Ma quel che disse Platone della gravidanza de gli animi in occasione amorosa, vassi verificando nel mio intelletto in matina studiosa; il qual non si pare che sappia starsi senza concepire continuamente qualche novità, se non che soventi volte si trova riuscire in aborti. Nel tempo dello studio la filosofia mi tiene in servitù; nel tempo della vacanza la poesia mi chiama a ricreatione. Io non mi so stare senza penna in mano e cervello in aria. Troppo è chiamato chi viene stimolato da Genio, e dovendo andare è pur meglio d’accompagnarsi con gli altri perché almeno si può sperare aiuto a cattivi passi, e sostento ove si sdruccioli, e rilievo ove pur si cada. Il che è stato insieme causa ch’io mi sia voluto della piacevolezza della rima ovunque per giuoco amoreggiando mi sono io dilatato, et ch’io mi sia fatto lecito nel qualificare li stati et le persone il non vietato a poeti anachronismo perché i trattati si rendano confacevoli alla notitia de’ tempi moderni, con titoli che vanno per le bocche, di Duchi, di Baroni, di feudi; non mi travagliand’io in aggiustare con esquisitezza il calcolo, se a tempi di qualsivoglia Imperadore che risedesse in Roma fossero in uso dominij né giurisdittioni simiglianti, massimamente non trovand’io per li scrittori da assodare con l’età il caso di Giuliano. 

Dell’elettione del quale, et del luogo costruitomi [?] per l’attione, con tutto ch’io non n’havessi a reder conto per essere cosa arbitraria, tutta volta mi giova toccar la ragione che mi ci ha sospinto: ragione di grata rimembranza, ragione di riconoscenza verso la città di Macerata dove già mio padre fu honorato per tredici anni della publica lettura, et vi istituì l’Academia de’ CATENATI in tempo ch’io ci trassi gli anni crescenti della mia giovinezza, et mi ci <si> diedero le mosse per la carriera della cattedra un biennio, ch’io sono di poi andato continuando in Bologna. Talché non mi viene in memoria Macerata ch’io non mi risenta con doppio pungolo di gratitudine, per causa e paterna e propria, et ch’io non mi paia ad un certo modo di ringiovanire con la dolce ricordanza di qui floridi giorni, causa ch’io mi sono pur’anche facilmente indutto al cospargere il componimento d’alcune sorti leggierezze, confacevoli all’adolescenza. 

Ho giudicato convenirsi l’attione al luogo, dandomene campo l’incertezza del dove, e del quando succedesse l’avvenimento senza starmi ad intracciare argomenti se Macerata si trovasse in essere ne prima ne poi, attenendomi a questo, ch’io so esser nome di Santo in essa Tutelare, [?] e festeggiarsi con honoranza di cacciatori S. Giuliano, insino al chiamarsi il luogo della sua basilica castello di S. GIULIANO, e mostrarsi il braccio in essa conservato, il quale che potess’essere il proprio del parricidio non ardirei già io di pensare, se non mi venisse alla mente come talvolta per dispositione divina de’ casi di contumacia si vanno facendo casi d’honore. 

Non ho stimato ne anche doverci trovare intoppo nel farlo di casa Cesarina; si perché intendo andar per mano un’antichità di quella famiglia che perciò di tempo in tempo l’imposizione di tal nome vi si trovi in uso perpetuato; si perché la vicinanza di Civitanova mi viene a far giuoco all’attione in Macerata. Hammi eletto Urbisaglia per illustrare il nome del competitore inventato per Giuliano, essendo ella già stata città regale Urbs Salvia, molto riguardevole et per memoria di scrittori celebrità. E quest’è quanto all’elettione fatta da me del luogo dov’io rappresentassi l’attione: quanto poi all’elettione dell’attione istessa, io ci hebbi a principio un tal mio pensiero; ma poi venni a mutarlo. 

Il pensiero fu di comporre non una tragedia, ma per dovermi confare anch’in questo all’orecchio moderno, un misto di tragedia, e di comedia, a cui si potesse fare il nome di tragicomedia non men confacevole di quello ch’altri havessero aggiunto alle pastorali, con molta felicità non niego, ma con male essempio a me non pare, perché Plauto introduttore di tal’onomatopeia ci hebbe pensiero attorno d’altra fatta, et per mio avviso stimo che al fare innesto di due specie di poesia fra di loro dissimili non bastasse imitatione d’una quasi medesima sorte persone, né un tenere di purgare affetto quasi uniforme, Ma come sono differentiate la tragedia e la comedia, che quella fa l’effetto suo mediante l’horrore e la commiserazione cadente sopra personaggi grandi; questa mediante il riso et lo scherzo convenevoli a gente bassa, così al farne questa tal mistura si dovessero accoppiare insieme il solazzevole, e’l severo; secondo l’essempio dell’Anfitrione, tragedia quanto a Giove e Alcumena, comedia quanto a Mercurio e Sosia. 

Feci però io un tal proponimento d’impiacevolire quel tragico rigore che dal nome istesso nasce spaventevole, et m’imaginai di formare una cacciatrice che fosse mista di civile e di rustico con dar’agio al dilatarsi pur le delicatezze, spargendo l’attione c’havea per iscopo l’horrore del parricidio alluogo alluogo [sic] di ridicoli in bocca di persone servili, et così d’andarla mantenendo gioconda: in modo che né giocondità soprafacesse turbolenza, né turbolenza pregiudicasse a giocondità, ma l’una per l’altra si assodasse e si ammollisse, fino al porvi pur entro concetti anzi lirici che dramatici in qualche luogo con rime e leggierezze dovendo alfin poi riuscire la favola nel miserabile. 

Ma in fatti ravvolgend’io per la mente il documento horatiano, et come s’accoppino male il serpente e l’uccello, la tigre e l’agnello, mutai proposito, e mi risolsi al moderare le piacevolezze, et al levarne i ridicoli, parendomi che il caso fosse assai tragico, e potesse conseguire la sua riuscita con qualche trattenimento che non togliesse di suo trono Tragedia. E fui di modo che al cancellarci di molte cose, vi rimasero pure alcuni vestigij della mia primiera intentione: temprandoci pur’anche la riuscita perché non lasci l’animo in tutt’oppresso da quell’horrore tragichissimo, ma sia con qualche sollevamento per buon costume. Per chi poi la volesse più tragica io vi notai (ad essempio della Vedova del Varchi) alcune intromissioni pur entro che facciano insieme all’abbreviarla, prolissa invero, e più o meno secondo che ad altri sia di piacimento. 

Questo ho tentat’io, et per questo, se m’habbia colpito in cosa di buono e d’acconcio, n’ho dubbio per sentirm’io trar fuori della mia inclinatione, la quale travaglia volentieri intorno a qualche ruvidezza, et non suole accommodarsi molto a certe morbidezze. Nel qual fatto vad’io pensando che sia per potere avvenirmi appunto di quello che alla madre di due figliuoli, l’uno de quali essa stessa allatti di suo petto, l’altro dia ad allattare a nutrice straniera: et quest’apprende insieme col latte la favella, et le [parola illeggibile] in molte parti forestiere. A me si confà meglio la Medea: quel che sia per riuscire ad altri il Giuliano io non lo so: parlerà forse meglio alla foggia ch’a me si confaccia meno. Ma son certo che qual si voglia mio pensiero mi verrà sortito felicemente qualunque volta mie ragioni mi vagliano a scusa in cospetto di V.S. Ill.ma che mi saranno di sicuro poi valevole diffesa presso gli altri. Nel che s’io fossi per ingannar me stesso, per quanto attiene al Giuliano, a quest’effetto glie lo mand’io in mano avvanti ch’egli esca in pubblico: che si possa mentre ch’egli è infante castigare et ammaestrare si ch’ei favelli secondo che piaccia al padrone, dal quale si desidera sì l’approvazione, ma con animo di ricevere in grado ogni correttione. Ma pure m’andrò io facilmente imaginando che in qualche parte ei possa essere ascoltato nella foggia che parla, non tanto per la mia dettatura quanto per le cortesi orecchie, le quali in altro si sono mostrate molto più ch’io non m’havrei pensato ben’aperte al sentir delle cose mie sopra il merito loro. 

Se ne viene adunque baldanzoso il mio cacciatore, et per chi l’ha da condurre, et per chi l’ha da ricettare. Il S.r Abbate Fachinetti, che si può dire di più compito? Il S.r Cardinal Serafino che si può trovare il più stimato? Et viensene a Roma quasi sicuro d’accoglienza per l’invito fattomene da V.S. Ill.ma al farglielo vedire, et per la dimostratione ch’io m’hebbi dell’humanità di lei nel dedicare ch’io le fei di me stesso, onde mi parve al primo ingresso d’havere acquistato quell’angolo nella gratia sua ch’io ne la supplico si degli conservarmelo. Porta seco indicio di segnalata divotione quel maggiore che mia debolezza mi concede, ma tutt’hora lo stimerò io sufficiente che lo scorgerò gradito. 

Cosa leggiera per oggetto sì alto, io’l confesso, e torbida per sì ampio splendore; ma il fumo ancora scuro e lieve hagli dove braci infocate e lucide non ascendono. Bramerei io che da questo mio fumo potesse ascendere una tal qual luce; ma il dar luce è parte di V.S. Ill.ma non mia, che di me consapevole mi sono eletto in radunanza Academica fra GELATI il sopranome del CALIGINOSO. Ma posto che in me non sia mai per trovarsi scintilla di luce, mi goderò io almeno di questo fumo che per la presente dedicatione si <[parola illeggibile]> come le fatiche mie possano piacere a persona tale che sia regola di giudicij altrui: di modo che per suo rispetto altri se non le approvasse, non le rifiuti, et se non abbracciasse GIULIANO CACCIATORE vada rattenuto in vilipenderlo, per dubbio di non dissentire da giudicio purgatissimo, e senno sanissimo quale è quello del S.r Cardinale Serafino. 

Quanto poi all’interesse dell’altro mio figliuolo Gio. Ludovico, io prego a V.S. Ill.ma vita che possa così mostrarsi officiosa ch’egli, per mancamento d’età non resti incapace di favore che dalla sovrana autorità et benignità di essa lei possa derisarsi in lui, il che non sarà se non altra decine e decine d’anni che le siano feliciss[im]i. 

Da Bologna l’ultimo d’Agosto 1605
Di V.S. Ill.ma et R.ma

Ser.e di singolariss.a divotione
Melchiorre Zoppio

 

Doc. 2

 

Copia di lettera di Melchiorre Zoppio Marcantonio Amici, Bologna, 31 luglio 1621, Macerata, Biblioteca comunale Mozzi-Borgetti, ms. 501 [già 5.4.E.2], fasc. 7, n. 1.

 

Copia della le.ra del sig.re Melchiorre Zoppio

 

Tengo appresso di me quella contesa in materia di quella Tragedia, o vogliami dire Rappresentatione, come pare [?] al Censore, e pare [?] similmente a me. Aspetto occasione di mandarla sicura, ella è stata il mio trattenimento per viaggio. Non ardisco interporvi giuditio. I Padri Serviti hanno aquistato quel credito nelle lettere che possono sotentar per ben fatto ciò che da loro è fatto; ma in verità, in caminare per la via battuta, adherirei più tosto alla Censura e replica, che non farei alla Tragedia, e alla risposta, alla quale veggo l’unica [parola illeggibile] horatiana · Si quid inexpertum scene committis, et audes · Non havrei tanto ardito io che non sono ne anche timido. Non ho veduto la tragedia, ma per quanto si cava dalla contesa io ci sto molto con l’animo perplesso, e tanto più ch’io veggio il negocio trapassare da gl’argomenti alle punture. Et s’io mi facessi troppo innanzi, temo non incontrasse a me di quello che è avvenuto a Ms Jacomo Ferrari, che l’archibugiata diretta ad altri l’ha colto lui che non c’havea né colpa, né peccato. Il Sig.re Ecc.mo Gallo mi richiede il parere più chiaro e risoluto. Egli è questo: d’ingegno tutti due son bravi nel merito della causa s’accordino fra loro. Per me giudico bene a star lontano che non ambisco che quella Tragedia fosse la mia, per haverla da sostentare come Tragedia secondo le Regole. Questo ch’io scrivo con amica sincerità rimetto al giudicio di V.S. e del Sig.re Gallo quando fossero molestati del mio parere, si contentino di essere insieme, dicano qualche torpaia da dire, tacciano quelch’è da tacere. Mi rimetto nelle loro mani, ma veggano di non mi mettere alle mani. Le bacio all’uno e l’altro. Di Bol.a l’ultimo di luglio 1621

D.V.S. m.to Ill.re e m.to F.se

 

S.re di vivo, e vero affetto
Melchiorre Zoppio



[1]  Per maggiori notizie su Melchiorre Zoppio mi permetto di rimandare alla voce da me curata per il Dizionario biografico degli italiani (in corso di stampa).

[2]  Cfr. The Illustrated Bartsch, 39, I, Italian Master of the Sixteenth Century. Agostino Carracci, a cura di B. BOHN, New York, Abaris Book, 1995, p. 261.

[3]  Ricreationi amorose de gli academici Gelati di Bologna, Bologna, Giovanni Rossi, 1590, p. 64.

[4]  Del primo ne sono prova, ad esempio, il madrigale e la lettera in versi enneasillabi premessi alla pubblicazione del Melone di Ercole Bottrigari (Ferrara, Vittorio Baldini, 1602, pp. n.n.); del secondo lo sono gli stretti rapporti con pittori quali Francesco Albani e i Carracci, in particolare Agostino. Cfr. J. ANDERSON, The Head-Hunter and Head-Huntress in Italian Religious Portraiture, in Vernacular Christianity. Essays in the Social Anthropology of Religion, a cura di W. JAMES e D.H. Johnson, New York, Lilian Barber Press, 1988, pp. 60-69: 66-69; J.L. COLOMER, Un tableau «littéraire» et académique au XVIIe siècle: “L’Enlèvement d’Hélène” de Guido Reni, in «Revue de l’Art», 1990, 90, pp. 74-87; G. PERINI, Ut pictura poesis: l’accademia dei Gelati e le arti figurative, in Italian academies, in Italian Academies of the Sixteenth Century, a cura di D.S. Chambers e F. Quiviger, London, The Warburg Institute-University of London, 1995, pp. 113-126; S. GINZBURG CARIGNANI, Annibale Carracci a Roma. Gli affreschi di Palazzo Farnese, Roma, Donzelli, 2000, in partic. pp. 135-155; D.M. STONE, Self and Myth in Caravaggio’s “David and Goliath”, in Caravaggio: Realism, Rebellion, Reception, a cura di G. WARWICK, Newark, University of Delaware press, 2006, pp. 36-113: 44 nota 36; S. COLONNA, La galleria dei Carracci in Palazzo Farnese a Roma, Roma, Gangemi, 2007; S. GINZBURG, La galleria Farnese, Milano, Electa, 2008; R. ZAPPERI, Annibale Carracci a palazzo Farnese: studi recenti, in «Bollettino d’arte», XCIV, 2009, 2, pp. 141-148; C. GURRERI, L’amico committente: Melchiorre Zoppio, Francesco Albani e il “Noli me tangere” nella basilica di S. Maria dei Servi di Bologna, in «Studi storici sull’Ordine dei Servi di Maria», 2014, 64-65, pp. 527-547; ID., Legami e corrispondenze nell’accademia dei Gelati. Intellettuali, pittori e prelati a Bologna nel XVII secolo, in Legami e corrispondenze fra la letteratura e le arti. Atti del convegno internazionale (Roma, 27-28 febbraio 2014), a cura di A Favaro, C. G. e C. UBALDINI, Roma, Arbor Sapientiae, 2016, pp. 57-71.

[5]  Cfr. La montagna circea. Torneamento nel passaggio della sereniss. duchessa donna Margherita Aldobrandina sposa del sereniss. Ranuccio Farnese duca di Parma, e Piacenza. Festeggiato in Bologna à xxvii giugno 1600, Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 1600. Cfr. anche G.L. BETTI-M. CALORE, Politica e accademia a Bologna tra il 1598 e il 1600: «apparati» per Clemente VIII e un torneo in onore degli Aldobrandini, in «Il Carrobbio», XXX, 2004, pp. 165-188; S. CASTELLANETA, Le muse e la storia: teatro letteratura arti per Ranuccio I Farnese e Margherita Aldobrandini, Bari, Cacucci, 2012.

[6]  Cfr. G. GUIDICINI, Cose notabili della città di Bologna ossia Storia cronologica de’ suoi stabili sacri, pubblici e privati […], Bologna, Società tipografica dei Compositori, 1868-1873, vol. III, pp. 36-37; G. ROVERSI, Palazzi e case nobili del ’500 a Bologna. La storia, le famiglie, le opere d’arte, prefazione di G. Fasoli, Casalecchio di Reno, Grafis, 1986, pp. 353-357, 371.

[7]  Regolarmente utilizzato fino al 1637, il teatro probabilmente era ancora in funzione nel 1671, quando secondo Corrado Ricci gli accademici Indipendenti vi allestirono L’inganno fortunato con prologo e intermezzi di Benedetto Giuseppe Balbi. Cfr. I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII. Storia aneddotica di Corrado Ricci, Bologna, Successori Monti, 1888, passim.

[8]  Cfr. M. CALORE, Accademie e teatro: il “Tancredi” di Ridolfo Campeggi a Palazzo Zoppio nel 1615, in «Strenna Storica Bolognese», XXXII, 1982, pp. 83-98; L. Vallieri, Ridolfo Campeggi “dramaturg” dell’accademia bolognese dei Gelati (1605-1617), Tesi di laurea in Storia del Teatro e dello Spettacolo, Università degli studi di Firenze, Corso di Laurea in Lettere, a.a. 2003-2004, tutor Prof. Stefano Mazzoni; S. Bazzichetto, Il “Tancredi” di Ridolfo Campeggi:

[9]  Cfr. Il Diogene accusato, comedia del Caliginoso academico gelato. Dedicata all’illustrissimo sign. Nicolò Cornaro, Venezia, Gasparo Bindoni, 1598, pp. A5v.-A6r. Secondo Ricci la commedia fu rappresentata nel teatro di casa Zoppio una prima volta nel 1589 (a meno che non si tratti di un errore dovuto all’inversione degli ultimi due numeri della data di stampa) e nuovamente nel 1616. Cfr. I teatri di Bologna, cit., pp. 278, 323.

[10]  Cfr. La Medea essule. Tragedia del Caliginoso gelato il sig. Melchiorre Zoppio, Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 1602.

[11]  Cfr. Il re Meandro. Tragedia recitata nell’accademia dei Gelati. Principe l’Intento, autore il Caliginoso Melchiorre Zoppio, Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 1629.

[12]  Cfr. Admeto tragedia del Caliginoso Melchiorre Zoppio, Bologna, Tebaldini, 1634.

[13]  Cfr. Drammaturgia di Lione Allacci accresciuta e continuata fino all’anno MDCCLV, Venezia, Giambattista Pasquali, 1755, coll. 459, 637, 644, 695-696.

[14]  Cfr. Giuliano cacciatore. Tragedia del Caliginoso gelato Melchiorre Zoppio. In honore di Macerata per cara memoria di padre in essa città favorito di gioventù propria indirizzata di contribuzioni academiche fra Catenati già detto il Sollevato, 1605, Pesaro, Biblioteca Oliveriana, ms. 1377 (c. fv. per la citazione); Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, opera fondata da G. MAZZATINTI, Firenze, Olschki, 1930, vol. XLV, p. 161. All’Oliveriana si trovano anche i Ragionamenti accademici di Melchiorre Zoppio (ms. 782, 2 voll. rilegati separatamente) e alcune lettere del Caliginoso a Camillo Giordani (ms. 419, fasc. II, cc. 112-157. Due sono state pubblicate da A. SAVIOTTI, Una rappresentazione a Bologna nel 1615, Pesaro, Terenzi, 1903, pp. 7-13). Cfr. Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, cit., vol. XXXIX, p. 33 e vol. XLII, p. 139.

[15]  A mio parere da identificare con quel Serafino Olivier Razzali (o Razali) già studiato da Gian Luigi Betti. Cfr. G.L. Betti, Note per la biografia del cardinale Serafino Olivier Razzali: gli anni precedenti l’arrivo a Roma, il testamento, l’amicizia con i Sozzini, in «Bullettino senese di Storia patria», XCIII, 1986, pp. 433-448; Id., Il cardinale Serafino Olivier Razali tra eretici e curia romana, in «L’Archiginnasio», XCVI, 2001, pp. 81-93; Id., Per la biografia di Traiano Boccalini: Lettere al card. Serafino Razzali, suo ignorato protettore, e altre storie, in «Il pensiero politico. Rivista delle idee politiche e sociali», XLVIII, 2015, 3, pp. 475-486.

[16]  Sui primi anni di attività del sodalizio mi limito qua a rimandare allo scritto di Andrea GARDI, Riflessioni sui primi Gelati (1588-1598), in Un tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali, a cura di Andrea CSILLAGHY et al., Udine, Forum, 2011, vol. II, pp. 423-434.

[17]  Cfr. Della tragedia del sig. dott. Innocenzio Maria Fioravanti, in Prose de’ sig.ri accademici Gelati di Bologna, Bologna, Manolessi, 1671, pp. 180-189.

[18]  Ivi, p. 181.

[19]  Ivi, p. 184. Per i rapporti di Piccolomini con Bologna: L. VALLIERI, Drammaturgie imperiali a Bologna: l’“Amor costante” di Alessandro Piccolomini (1542), in «Drammaturgia», XV / ns. 5, 2018, pp. 291-323.

[20]  Sull’argomento mi limito qui a rimandare a N. SAVARESE, In morte di Angelo Beolco detto Ruzante. La “Canace” dello Speroni, in «Biblioteca teatrale», 1976, n. 15/16, pp. 170-190.

[21]  Giuliano cacciatore. Tragedia del Caliginoso gelato Melchiorre Zoppio, cit., cc. br.-v.

[22]  Ibid.

[23]  Ivi, cc. dv.-er.

[24]  Ivi, c. ev.

[25]  Ivi, cc. er.-v.

[26]  Cfr. Copia di lettera di Melchiorre Zoppio a Marcantonio Amici, Bologna, 31 luglio 1621, Macerata, Biblioteca comunale Mozzi-Borgetti, ms. 501 [già 5.4.E.2], fasc. 7, n. 1. Nel medesimo fascicolo si trovano altre due lettere anonime sullo stesso argomento (nn. 2-3). Cfr. Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, cit., vol. 100, pp. 120-121. 



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