Anticipiamo qui un contributo che apparirà su un prossimo volume su Carlo di Borbone promosso dallUniversità di Napoli Federico II.
Tra le carte private dellArchivio Riario Sforza custodito presso lArchivio di stato di Napoli compare, senza data ma ascrivibile agli ultimissimi anni Quaranta o ai primi anni Cinquanta del XVIII secolo, un lungo memoriale di Domenico Barone, barone poi marchese di Liveri. Si tratta con tutta probabilità di una delle numerose suppliche che nel corso di vari anni lallora ispettore del Teatro di San Carlo, grazie a un incarico affidatogli nel 1741 proprio in risposta alle sue sollecitazioni per ottenere una posizione migliore nellorganico di corte – dopo i servigi prestati in qualità di metteur-en-scène –, presentò alla Segreteria di Casa Reale chiedendo per sé la livrea di maggiordomo di settimana. Di questa aspirazione mai soddisfatta ha lasciato traccia anche Benedetto Croce nei suoi Teatri di Napoli, attingendo alla documentazione sulla gestione della vita degli spettacoli nella capitale e nel Regno andata distrutta nella seconda guerra mondiale: può darsi che il testo confluito negli incartamenti della prestigiosa famiglia aristocratica, che annoverò reggenti del Consiglio Collaterale e gentiluomini di Camera dei sovrani di Napoli e di Sicilia, sia da identificarsi con «la sua solita domanda», quella del 29 febbraio 1748, ennesimo tentativo di tornare alla carica per assicurarsi un ufficio più alto, tra gli ultimi tasselli di una cronaca personale che si arricchiva di date, circostanze, promesse, senza mai garantirgli il risultato sperato. Lo stesso ispettorato era stato offerto a parziale riconoscimento di uno status in assenza di altre opportunità, come il sovrano e i dignitari avevano precisato, e forse lesonero dallamministrazione finanziaria prima del San Carlo, poi del Teatrino di Corte a partire dallaprile del 1745 era stata unaltra soluzione di compromesso per venire incontro alle richieste di un personaggio che evidentemente vantava qualche benemerenza al cospetto del monarca e si ritrovava, nonostante tutto, in una «curiosa condizione». Perché gli appelli del Liveri rimanessero nella sostanza inascoltati è ormai difficile a spiegarsi, ma le calibrate allusioni a questioni economiche e di dignità individuale sono di non poco interesse per cogliere alcune dinamiche delle politiche culturali dei primi decenni di regno autonomo: Dopo aver avuto io lonore di trasportare dal mio feudo di Liveri in Napoli quattro Teatri, e nella Real Sala piantati in diversi tempi rappresentarvi quattro diverse Commedie, cioè la Contessa nellOttobre 1735, il Cavaliere nel Febraro 1736, il Partenio nellAprile 1737, e lAbbate nel Febraro 1741, e queste tutte a mio costo, col trasporto de Recitanti il mantenimento di essi, e finanche i lumi, con a sommo vanto ascrivermi di presentarle tutte stampate nelle Reali mani de Padroni con coverte se non confacenti alla loro grandezza, almeno di quel valore, che poteasi comportare dal mio stato. La Maestà del Re Nostro Signore, che Dio guardi, volendo dar sempre maggior prova della sua Real clemenza fè comandarmi dal Duca di Salas allora suo Ministro, chavessio dato memoriale per vantaggiarmi; che però niente affidato a mio merito alcuno, ma solo ad ubbidire, e far conto della Real munificenza, mindussi ad esprimermi rispettosamente, che qual ora la Maestà Sua per sua sola bontà volea seguitare ad aggradire le mie commedie per farle a spese del Real Erario, la supplicava ad ascrivermi tra Servidori di sua corte, perché con mio decoro avessio potuto ciò fare, senza passare per istrione, su del quale esposto mi fu dal ministro con dispaccio per Segreteria di Stato in data del 14 marzo 1741 risposto, che bisognava chio avessi individuato limpiego, nel quale voleva io esser collocato, ed a tal dispaccio susseguendone altro in data de 25 di detto mese, ed anno, in esso mi si fece dal Ministro animo a cercare con confidenza, e franchezza; da quali dispacci animato chiesi sol fidato alla clemenza del Re non a mio merito alcuno la livrea di Magiordomo di settimana con la chiave; onde doppo esser stato fatto sicuro di tal grazia ed ordinatomisi a ritirarmi in Napoli, come fei, con altro dispaccio del Ministro de 25 luglio 1741 mi si conferì dal medesimo in nome di Sua Maestà lIspettorato del Teatro di San Carlo, e la Livrea di Cavallerizzo di Campo ad onorem (sic) con mille scudi lanno, e due mila docati per le prime spese dovea fare, con dirmisi dal Ministro queste precise parole prendere questo per ora, e di queste liberanze non ve ne mancheranno. Che però ringraziato il Re, ed il Ministro, come dovea, dovetti spiantar la mia casa in tutto dal mio feudo, lasciando colà Aggente [c. 1v] ed altri fattori di campagna ne feudi rustici, ed abbandonar le mie robbe, che al presente si trovano in pessimo stato con applicarmi solo a servir Sua Maestà al meglio, che sapea, con esser stato obligato a prender casa confacente, e capace ne quartieri di Palazzo di molto dispendio, perché atta fusse a i concerti, con la ferma speranza di dover ricevere lajuto di costa, che mera stato dal Ministro promesso, almen dopo tre, o quattranni, ed oltre al già enarrato dispendio essendomi convenuto di real ordine di porre su la scena una commedia ogni carnevale, ed in tre dessi anche due allanno, ed in tutto questo tempo porgere alle Reali mani della Maestà loro sei commedie nuove, ognuna di esse costandomi la fatiga di più mesi nel comporla con svantaggio della mia salute, tanto vero, che la detta fatiga in un anno mi ridusse allultimi periodi di vita; che però nel corso che tali fatighe da me si facevano esposi altre suppliche alla Maestà Sua, cercando con darli conto della mia condizione il desiderato onore della livrea di Maggiordomo di Settimana già chiesta, e con altro Real dispaccio de 5 aprile 1745 mi fu risposto, che per allora la Real clemenza di Sua Maestà ordinava, che mi si fussero gionti sopra i lucri de castelli ducati quaranta cinque il mese, e che in occasione favorevole Sua Maestà era nella maggiore disposizione di aderire al mio desio in quanto alla mia onorevolezza ed avendo il sommo Dio aderito ai miei voti con concedere a questo Regno un Principe ereditario, si fè da me allora altra supplica, quale raccomandai al Signor Marchese Fogliani dando nuovamente in quella conto della mia condizione, e che maggior opportunità favorevole io non potea desiderare; che si servì con Real dispaccio in data de 25 luglio 1747 assicurarmi, che la Maestà sua era ben internata così della mia condizione, come de miei servigj, ma che per allora non concorrevano altre circostanze ad esaudirmi; dallo che per non parer più petolante mi son rimaso ad aspettar dal Cielo e dalla Real Clemenza della Maestà Sua di proprio moto quelle grazie che meritar non ho saputo. Per un uomo come Liveri che a detta di Croce – ma forse possiamo dubitarne – nel suo contado «aveva molti figli; povero di fortuna, vivea in grandi strettezze e difficoltà», linteresse manifestato dal re Carlo per i suoi spettacoli, di cui si rievocano i momenti del debutto (solo per Partenio vè da pensare che faccia riferimento a una delle tante repliche che scandirono il suo lavoro a Palazzo), assume quasi i contorni di un investimento oculato, quello di farsi carico di spese ingenti per unautopromozione che la sua fama di straordinario allestitore gli aveva inopinatamente prospettato. In verità risulta quanto meno controverso il fatto che, al di là dei costi vivi delle produzioni, egli avesse voluto persino pagare di tasca propria le stampe, laddove i suoi paratesti contengono a più riprese i motivi di una “resistenza” a lasciar testimonianza scritta di lavori il cui pregio era tutto da ricercarsi in una raffinata concertazione, cosa raramente vista, e in uno studio sulla recitazione che lo rese celebre tra i contemporanei, ben al di là dei confini del regno. Di sicuro non mancò lassenso e il contributo della stamperia di corte, che accolse le commedie nel suo catalogo immediatamente dopo la loro prima esecuzione, secondo una logica da instant book, estremamente significativa sul piano del riconoscimento formale ed estetico che il pubblico elitario aveva dato alle lunghissime e sofisticate messinscene nellarco di oltre cinque anni. Sia che la qualità memorialistica di Liveri sia ineccepibile, e quindi i suoi cimenti teatrali vadano considerati come tributi alla maestà di Carlo, che tuttavia non seppe né volle disdegnarli, sia che la rievocazione dei fatti si sbilanci a vantaggio della descrizione di una dedizione incondizionata e senza risparmio (di alcun genere), tale da reclamare lintervento del Real Erario, è un altro il dettaglio saliente del racconto: la possibilità di continuare nel servizio di uomo di spettacolo con decoro, «senza passare per istrione». A colpire, in altri termini, è la percezione che il personaggio avrebbe di sé: né linvito ripetuto a esibirsi a corte, né il successo, né le pubblicazioni, né le singolari pratiche operative di un ensemble che si concentra su pochi titoli e lavora con prove infinite sono in grado di riscattare dal rango di istrione, di artista mercenario, ma solo essere ufficialmente ascritto «tra Servidori di […] corte». Forse Goldoni era ancora più sornione di quanto si pensi, allorché, nella celebre prefazione a Il filosofo inglese del 1755, parlando di Liveri partiva proprio dalla composizione «per divertimento di quel sovrano», enfatizzando così, ancor prima dellassenza di tutte quelle pressioni che condizionavano fortemente la mercatura del teatro, il privilegio di una “dipendenza” che era ancora prospettiva allettante per ogni poeta, drammaturgo, o musico. Concorrere ai destini del Teatrino di Corte, sia pure in una posizione più defilata rispetto a quella dellArlecchino Gabrielli e della sua troupe, non equivaleva certo a essere parte integrante del sistema della corte, ma non era bastato – secondo questa ricostruzione – neppure a marcare una differenza fra la propria dimensione artistica e quella che tra alterne vicende si affermava nelle sale cittadine, al Nuovo, ai Fiorentini, alla Pace, nelle «case di particolari» o nei palcoscenici temporanei. Sembrerebbe che, nel cuore del Settecento, cercare una propria collocazione sociale nel teatro sia ancora, nella migliore delle ipotesi, una fase, un trampolino di lancio, laddove, in assenza di qualsiasi ipotesi di mobilità, equivale a una forma di marginalità, se non proprio a una condanna, per sé stessi e per gli altri. Ed erano questi gli anni in cui prendeva corpo il mito di Liveri gran concertatore, istruttore di attori e virtuoso di soluzioni prossemico-scenografiche dalla spiccata originalità. Ma era evidentemente troppo poco, o non era questo il problema. Nel 1741, al nobile di provincia desideroso di uno spazio a corte fu offerto quindi lispettorato del San Carlo. La rievocazione – segnata da una citazione – non lascia dubbi: «prendere questo per ora», una frase che parrebbe alimentare speranze in decisioni future più favorevoli, ammettendo che quanto si concede non è quanto richiesto. Ma affidare al Barone di Liveri le sorti artistiche di una sala regia inaugurata da appena quattro anni, e in fondo concepita come monumento ed emblema tangibile di una rinnovata sovranità, non è “liberanza” di poco conto: se il San Carlo è espressione di una cultura melodrammatica che si ricollega alle dinamiche del potere ancien régime, vè da definire tutta una linea artistico-ideologica partecipe di una fitta rete transnazionale, e per questo le tante messinscene allestite si sono rivelate un viatico essenziale e indiscusso. Nellottica del re e dei funzionari chiamati a pronunciarsi sulla richiesta dellinfaticabile e generoso metteur-en-scène collocarlo ai vertici di un esplicito instrumentum regni è non solo un palese riconoscimento dei servizi resi, ma in un certo senso anche la valorizzazione del suo talento in una posizione di responsabilità assai limitrofa alle funzioni di un dignitario di corte. Tanto più che nel 1744 si licenziò anche la compagnia de los Trufaldines del Gabrielli, e lintrattenimento a Palazzo rimase appannaggio esclusivo del Barone fino alla sua scomparsa, con una dovizia di mezzi attestata dalle polizze bancarie con cui venivano pagati interpreti, tecnici e maestranze. Lanno successivo lesonero dalle responsabilità finanziarie fu unindiretta misura di contenimento delle spese ingenti sui due fronti, il San Carlo e il teatrino, o un ulteriore sostegno a una vena poetica cui era data facoltà di verificare con attenzione i suoi sontuosi progetti scenici. Il quadro che si prospetta è quello di una netta contrapposizione: da un lato figure dellestablishment che continuano a rilanciare la figura di un intellettuale sui generis nellorizzonte che gli compete, mostrando di apprezzare la sua crescita e la sua professionalità; dallaltro un uomo che si prodiga in “fatighe” dalle conseguenze fisiche anche estreme, ma che continua a guardare altrove, a considerare la sua realizzazione in un diverso ruolo e in un diverso rapporto gerarchico. Che cosa racconti questo documento degli indirizzi teatrali e musicali voluti da Carlo e dal suo entourage in poco meno di venti anni di regno è davvero difficile a dirsi. La reazione sempre insoddisfacente a queste suppliche reiterate nel corso del tempo suggerirebbe lidea che, ad onta del plauso crescente e della vasta risonanza che la maniera teatrale del Liveri comincia ad avere a ogni latitudine, per il governo borbonico non possa darsi altra gratificazione allinfuori di quella che prevede una singolare convergenza fra la gestione dellintrattenimento privato e la pubblica ribalta del potere. Daltro canto, non è da escludere che la supplica nasca da un sentimento individuale, che cresce fino a rasentare una sottile frustrazione, sulla permanente “inadeguatezza” sociale delluomo di teatro ancora nel cuore di un secolo in cui lemancipazione da vecchi pregiudizi e la vitalità del mercato sembrerebbero avere assicurato ad attori e drammaturghi una piena e autorevole identità professionale. Certo, potrebbe trattarsi di una magnifica ossessione, declinata a più riprese e non esente forse da un marchio di provincialismo irredento, ma limpressione è che latteggiamento del Liveri, tra insistenze, memorie, investimenti personali, sia molto più rappresentativo di tendenze complesse in una cultura settecentesca che ha una visione aristocratica dello spettacolo, delle sue funzioni e dei suoi esponenti molto più radicata di quanto non si sia disposti ad ammettere, dove poesia, musica, actio – tra circuiti organizzativi e relazioni diplomatiche – sono spesso intesi come prestazioni preliminari ad altre occupazioni o diventano luoghi della propria realizzazione umana solo allombra di influenti potentati, sottratti alle insidie del mestiere militante e allinconfessata “infamia” della pratica scenica. Nel gioco di azione e reazione fra il Barone e la Corte che queste pagine, insieme con le informazioni crociane, lasciano intuire, si cela un ulteriore tratto di ambiguità della politica di Carlo in materia di arti performative. Vè da chiedersi se lelegante insofferenza con cui vengono sistematicamente messe a tacere le pretensioni del Liveri sia un gesto di chiusura verso un personaggio talentuoso sì, ma che ha esaurito le sue potenzialità allinterno del clima socio-culturale di un regno agli albori, o, al contrario, costituisca – nello slittamento sul teatro-istituzione e sulle modalità operative con cui garantirne il funzionamento – lunica possibilità di rilanciare unautentica “invenzione” della scena contemporanea, estendendo un modello di stile e di decoro alla massima ribalta della capitale, che è a tutti gli effetti parte di Casa Reale. Daltronde, il San Carlo era stato un grandioso progetto-tributo a unidea di regalità e a una specifica tradizione cittadina, crocevia di un passato glorioso quanto travagliato e di un futuro tutto da scrivere, intuizione geniale di un sovrano che attribuiva allopera e alla musica un rilievo ben più incisivo di quello che una resistente aneddotica continua a tramandare: Liveri non può rifiutarsi alla sfida e al prestigio, ma verosimilmente introduce nel suo rapporto con la corte una nota di prudente attaccamento a usi più collaudati e a ruoli meno innovativi. Perché è innegabile che dietro il mito dellartista-concertatore – riecheggiato da Goldoni, si è visto, ma anche da Diderot, Cerlone, Napoli Signorelli – vi sia il “divertimento” di quel sovrano, nonché lampia disponibilità a sperimentare assicurata dalla sua protezione, e che Liveri non possa non esserne stato consapevole. Ed è parimenti innegabile che il consenso assegnato alle sue produzioni comiche abbia avuto qualcosa in più dellammirato compiacimento, e sia stato invece un tentativo di imprimere un corso alle vicende teatrali della capitale quasi ex cathedra, con dubbio riscontro, e forse anche con poca convinzione da parte dello stesso autore-concertatore. Lispettorato fu una risposta non revocata per anni, un compromesso dietro cui si nascondevano investimenti a vari livelli e da entrambe le parti: se a Liveri sortì una promozione nobiliare ma non unintegrazione nei quadri della corte, al Re non rimase che constatare nel tempo che la congiunzione del teatrino privato con il Teatro della capitale era unopzione rischiosa, e forse senza futuro. Se pure esiste una linea di continuità fra lo spettacolo di Palazzo e lo spirito con cui si allestiscono le stagioni del melodramma serio in uno spazio altamente simbolico e non lontano dal cuore del potere, resta la contrapposizione fra i ritmi di una programmazione soggetta ai gusti, a scelte di propaganda e di orientamento ideologico-culturale, e unantica ritualità di cui le grandiose, perfette messinscene del Barone furono lultima fiammata, come ebbe a testimoniare anni dopo il prefatore delle opere di Giovanni Battista Lorenzi, accorto cronista delle metamorfosi tardo-settecentesche. Nelle decisioni sovrane si intrecciano come sempre visioni tradizionali e sguardi lungimiranti: succede per il San Carlo, uniniziativa pionieristica che deve tuttavia misurarsi con quanto di vetusto lorganizzazione teatrale a Napoli ancora prevedeva in termini di amministrazione e gestione delle pubbliche sale, o per tutte le disposizioni sulla moralità di attrici e “canterine”, in bilico fra la resistenza di un pregiudizio anti-teatrale di lunga durata – ovviamente non del tutto infondato, ma insopprimibile – e il desiderio di indurre i professionisti a una sorta di autoregolamentazione sulla propria dignità artistica e lavorativa, o ancora per lintervento normativo del 1739 sui conservatori, che sembrerebbe far trapelare un ulteriore motivo di insofferenza per la musica: Haviendo el Rey considerado que son muy superfluos, y no necesarios al bien publico los quatro Conservatorios de Muchachos que hay en esta Cividad en los quales solamente se enseña la Música [...] seria muy provechoso et decoro dela Nacion, y al bien publico, el que se introdusieren poco, a poco en los referidos Conservatorios [...] las escuelas de las Artes Mecanicas [...]; proponendo così una drastica riconversione di quella fucina di maestranze per le quali la città sarebbe stata ancora a lungo famosa presso ogni corte, presso ogni paese straniero. Ma Carlo aveva ampiamente dimostrato che se linsegnamento esclusivo della musica poteva esser considerato superfluo per il bene pubblico, musica e teatro non erano affatto irrilevanti per il “decoro della nazione”: quanto la crescita tumultuosa del settore, i destini individuali, gli orizzonti poetici e materiali potessero e sapessero farsi carico di questambiziosa missione, è il vivo problema di quegli anni, di un Teatro agli inizi della sua storia e già investito di una rappresentatività interna ed esterna allo stato, di istituzioni plurisecolari complesse, e di un artista come Liveri, privilegiato e inquieto.
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