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Roberto Tessari

Paradisi brumosi e inferni celesti nella drammaturgia di Lenau

Data di pubblicazione su web 27/01/2020
Paradisi brumosi e inferni celesti nella drammaturgia di Lenau

Non si può certo dire che tanto l’insieme della produzione poetica di Lenau (al secolo: Nikolas Niembsch von Strehlenau) quanto il suo versante variamente proiettato verso una drammaturgia “alla Byron” abbiano goduto o continuino a godere di adeguata conoscenza in Italia, se è vero che, nel risvolto di copertina (a firma “Claudio Magris”) della più significativa edizione nostrale del suo Faust,[1] si può leggere: «Come negli altri poemi drammatici – Savonarola, Don Giovanni, Gli Albigesi – e nell’altissima lirica dei Canti dei giunchi – il linguaggio di questo Faust condensa una crisi radicale della cultura europea, aperta, forse, ancora oggi». È sufficiente, in effetti, una rapida scorsa ai testi per verificare che, pur essendo definibili a pieno titolo come “poemi”,[2]SavonarolaGli Albigesi possono vantare una qualche intenzione o una qualche velleità formale di apparire sub specie “drammatica”. D’altro canto, lo stesso Lenau, attentissimo cultore delle teknai specifiche delle diverse arti, preferiva definire “rapsodia” la sapiente mescolanza di epico, di lirico, di “spettacolare” e di dialogato che costituiva l’autentico gioco espressivo sottinteso alla struttura drammaturgica esteriore del Faust (1833-1835), mentre volle riservare la definizione di ein dramatisches Gedicht soltanto al suo Don Juan.[3] Insomma, se è lecito parlare, pur in senso lato, d’una produzione “teatrale” dell’autore austro-ungherese di lingua germanica, essa dovrà considerarsi composta solamente dai due lavori appena menzionati, nonché dall’unico frammento messo per iscritto di quella Helena che il poeta andava progettando tra il 1830 e il 1831.

Proprio come si è verificato nel caso del loro archetipo ideale – il Manfred di Byron – le due prove di Lenau hanno conosciuto una fortuna eminentemente distinta dal loro prestarsi a costituire forti motivi ispiratori per importanti creazioni musicali. Nel caso di Faust, il celebre Mephisto-walzer di Franz Liszt (in realtà, un insieme di quattro walzers composti a larghi intervalli di tempo l’uno dall’altro: 1859-1862, 1880-1881, 1883 e 1885). Nel caso di Don Juan, l’omonimo poema sinfonico (o, meglio, “poema sonoro”, se si vuole rispettare la terminologia prescelta dell’autore) composto tra il 1887 e il 1888 da Richard Strauss, ed eseguito per la prima volta, sotto la direzione dello stesso giovane maestro, al teatro di corte di Weimar l’11 novembre 1889. Tuttavia, se l’exemplum byroniano – quasi sempre in versioni aureolate dalle musiche di Robert Schumann – trova modo di realizzare una sua discontinua ma effettiva vita scenica (segnata perdipiù da almeno due exploits epocali: l’allestimento parigino del 27 marzo 1903 nel teatro privato della contessa Martine de Béarn, a cura di Adolphe Appia, e il carmelobeniano “concerto in forma di oratorio” del 1978 all’Accademia di Santa Cecilia in Roma), né FaustDon Juan hanno sinora conosciuto una qualche forma di inveramento spettacolare tale da corrispondere degnamente alle indubbie potenzialità di phonè e di visio epifanica che costituiscono l’autentica nervatura vibrante del loro tessuto verbale.

Entrambi dedicati a icone mitiche che avevano alle spalle già più di due secoli di tradizioni teatrali ed extra-teatrali, i poemi drammatici di Lenau emergono da un contesto di rifacimenti letterari germanici che, se da un lato sembrano culminare con il monumentale contributo goethiano alla leggenda del mago tedesco, dall’altro, nei primi trent’anni dell’Ottocento, risultano segnati dalla significativa tendenza a combinare entro trame unitarie fatti e misfatti tipici dei due eroi dell’oltranza filosofica e della seduzione senza limiti. Così era avvenuto, già nel 1809, nella seconda parte della trilogia drammatica Rovine del Reno di Nikolas Vogt. E così ancora risultava, con enfasi ben più rilevata, dal caso emblematico del Don Giovanni e Faust (1827) di Christian Dietrich Grabbe. Sul primo versante, il nostro autore sceglie risolutamente di entrare in conflitto con la paradossale “assoluzione” conclusiva offerta da Goethe al suo Faust: «il giovane poeta […] decide di raccogliere la sfida lanciata da Goethe. Nella lettera dell’11 novembre 1833 egli scrive all’amico Georg Reinbeck: «l’idea che Goethe ha già scritto un Faust non può spaventarmi. Faust è un comune possesso dell’umanità, non un monopolio di Goethe. Non si dovrebbe, allora, scrivere più alcuna poesia sulla luna, perché questo o quel grande poeta l’ha già fatto?». Lenau evita, ed eviterà anche in seguito, una esplicita presa di posizione nei confronti del capolavoro goethiano, ma il suo atteggia­mento estremamente cauto, lontano tanto dalla riverenza quanto dalla dissacrazione, è una prova indiretta che egli si mette all’opera con la consapevole intenzione dì confutarlo». [4]

Quanto al secondo, pur manifestando identica intensità di interesse per le due figure, preferisce consacrare a ognuna di esse imprese compositive distinte: ma al fine di porne – proprio così – in flagrante evidenza quei più fondamentali ancorché difficilmente distinguibili fattori di consustanzialità che ne animano dal profondo il diverso modus operandi.

In effetti, tanto il Faust quanto il Don Juan di Lenau si offrono al lettore (nonché, almeno potenzialmente, allo spettatore) innanzitutto posizionandosi con eguale insistenza su vettori tesi a percorrere senza riposo una dimensione spazio-temporale che acquista senso solo nel disegnare la mappa della più irrequieta e sconfinata erranza. L’unico attributo preciso che ben si attagli a entrambi è quello di Wanderer. E il solo archetipo che ne fonda la materia costitutiva è quello ravvisabile in un’immagine-cardine dell’intera poiesis realizzata dall’autore: Ahasver, l’Ebreo Errante. Sin dal suo incipit in chiave “epico-lirica” – che reca l’eloquente titolo In cammino all’alba – il primo testo tratteggia un Faust trascinato a compiere inesauste divagazioni ascensionali che dovrebbero conseguire l’obiettivo d’una estrema ascesi del conoscere: 

Il mattino che sorge ad oriente, sereno e luminoso,
Accende con i suoi raggi i picchi inaccessibili di una montagna;
Lassù, un temerario alpinista si arrampica verso la vetta;
Passa rapido da una roccia all’altra come avesse le ali.
Cosa cerchi, Faust, su quelle cime?
Vuoi sfuggire alle nebbie e ai dubbi?
I vapori dell’inferno ti seguiranno anche lassù
E il dubbio continuerà a tormentarti.
O Faust, impara ad amare la luce del sole che splende […].
Non lasciare che nel tuo cuore arda l’empio desiderio
Di carpire al creato il suo segreto;
Non volerti misurare con Dio
Finché la tua sorte ti costringe ad errare quaggiù.
[…]
È tutto inutile! L’urgente bisogno di una risposta
Lo induce ad inerpicarsi per balze e rupi scoscese.[5] 

E, non diversamente, le primissime parole con cui Don Juan si prova a svelare – nel colloquio d’apertura con suo fratello Diego – il tratto davvero distintivo della propria esistenza giocano con l’immagine metaforica d’una personalissima incessante guerra per il piacere combattuta contro i limiti dello spazio e del tempo concessi all’uomo: 

Questo cerchio magico, immensamente vasto,
di bellezze femminili dalle infinite fascinazioni,
vorrei percorrerlo sempre nel tumulto del piacere,
e morire in un bacio sulle labbra dell’ultima.
Amico mio, amerei traversare a volo
tutti gli spazi dove possa fiorire una bella donna.
Inginocchiarmi davanti a ciascuna e vincerla,
foss’anche solo per un istante.
Eh sì! Mi piace dichiarare guerra anche al tempo.
Appena scorgo una qualche delizia di bambina,
bestemmio contro la sorte, poiché non ha voluto
che lei ed io fossimo coetanei […].
Vorrei confondere spazio e tempo, visto che la passione
deve essere senza freni e senza limiti:
voi la considerate tanto fugace e tanto effimera,
proprio perché è torturata dalla sete d’infinito.[6] 

Il costante errare dei due personaggi è sia tema da essi sempre predicato e agito sia esclusiva dinamica strutturale di entrambe le opere che ne inverano poeticamente la presenza. Tanto in un caso quanto nell’altro, la composizione drammaturgica procede e si qualifica solo come attraversamento di molteplici tappe d’una incoercibile coazione all’erranza: il suo ritmo reale e simbolico è quello dello Stationendrama. E, se può risultare facilmente intuibile che i vagabondaggi di Faust non siano altro, in ultima analisi, se non forma esteriore dell’itinerario spirituale per cui l’individuo si proietta verso il più appassionato opus di conquista della Verità Ultima («Non amare il Signore sarebbe difficile, / ma io amo ancora di più la Verità»,[7] è il motto che dovrebbe campeggiare sotto un ideale stemma araldico del protagonista), non risulta troppo difficile individuare – oltre la maschera dei vagabondaggi erotici cui si concede Don Juan – tracce evidenti d’una quête che punta anch’essa verso il polo del Verum metafisico: 

Il cuore su cui tutti gli esistenti riposano,
la fonte verso cui tutti rifluiscono morendo,
è il dio creatore, demiurgo del pianeta,
che insaziabile cinge la terra tra le sue braccia
Nella sua estenuante luna di miele – la storia universale –
Mai vengono meno né la potenza del dio,
né il fascino della donna […].
Ogni volta che ho colto e sbriciolato il fiore di una fanciulla,
sono stato il respiro del demiurgo e il palpito del suo cuore.[8] 

Se il grande seduttore si realizza in un errare che lo spinge a ripetere senza posa l’esperienza del fascino femminile e del piacere che il Corpo della donna può concedere, colui che si vota alla ricerca della Verità abbraccia altrettanto entusiasticamente un “amore” che guarda al di là del corpo: 

Il mio cuore non si è mai acceso per una donna di questa terra;
è l’amore della Verità il mio tormento,
un amore infelicissimo e senza speranza in eterno.[9] 

Entrambi, tuttavia, pur scegliendo linee di ricerca orientate verso direzioni opposte, condividono una visio metafisica che, se da un lato li spinge a ipotizzare un’unica manifestazione del divino, dall’altro li costringe a confrontarsi con due possibili ipostasi dell’Assoluto. Faust, che vorrebbe rendersi mistico Sponsus di una suprema Verità, non può eludere l’ipotesi che il tutto esista solo a causa d’un potere demiurgico follemente devoto al più vano spreco:

Sì, bisogna chiedersi in tutta serietà,
se il mondo con il suo corso,
si debba definire una caduta o un’ascesa.
E se si trattasse invece di un effondersi,
un fuoriuscire, un traboccare della plenitudine divina
che non ritorna più alla sua fonte?
Se tutta la vita non fosse che uno spreco
Di colui che è ricchezza inesauribile
E non può avvertire la perdita di nulla
E fosse destinata a finire presto come un gioco dimenticato?[10] 

Dal canto suo, Don Juan, che – come abbiamo visto – percorre senza posa il suo “pellegrinaggio” erotico come un rituale destinato a rinnovare di giorno in giorno la sensazione di assimilarsi così al furore genesiaco d’un Demiurgo, è finalmente costretto a intravvedere, attraverso il filtro dello spossante senso di vacuità che da ultimo si impadronisce di lui, almeno l’ombra d’un divino Altro rispetto a quello sempre omaggiato: 

Ogni desiderio, ogni speranza si perde in un torpore letale.
Forse un bagliore, venuto da altezze che ho sempre disprezzato,
ha colpito a morte la forza e il fascino dell’amore.[11] 

In verità, il corpo femminile altro non è – per il seduttore supremo – se non forma sensibile e tangibile dell’Assoluto. E l’atto sessuale che lo congiunge a esso ha senso solo in quanto si rivela Rito Sacrificale per eccellenza: assassinio e consunzione della vittima che solo così diviene dio, mentre permette al sacrificante e al sacrificato di trascendere del tutto i rispettivi limiti egoici, trasfigurandosi e fondendosi entrambi in una sola sostanza divina. Come afferma in termini quanto mai espliciti Don Juan, allorché intende enunciare tutto il valore del rapporto che lo ha legato a Donna Anna (emblema e quintessenza della perfetta femminilità): 

Quando stringo tra le mie braccia quel corpo di grazia
Che comprende in sé il cielo e gli dà confini,
vorrei distruggerlo per renderlo divino
e morire insieme a lui per fondermi con esso.[12] 

Mosso, dunque, dall’identica ricerca di Assoluto che determina e sospinge la quête faustiana, il personaggio di Lenau incarna in sé una specifica modalità di questa ricerca. Non la via dell’introversione intellettuale, bensì il sentiero della prassi estroversa: 

Concentrarmi tutto nella mia interiorità, non mi ha mai sorriso;
piuttosto che scavare nell’intimo dell’io,
ho preferito aprire un buco enorme nel mondo.[13] 

Al contrario, nella dichiarazione d’intenti che meglio caratterizza il personaggio, la specifica modalità d’esistenza dell’individuo faustiano – ancorché segnata esteriormente dalla smania centrifuga del più irrequieto vagabondaggio – si rivela tutta ancorata all’istanza centripeta d’una gnosi tesa sia a rifiutare qualsiasi atto di fede sia a individuare il divino entro “la cerchia fortificata” dell’Io: 

Se noi guardiamo Lui
Che è al tempo stesso occhio e luce,
Vuoi dire che è Lui a vedere se stesso
Tramite la mia dimora terrena, e non io.
La preghiera è solo un atto di sciocca umiltà;
Io voglio affrontarLo di petto;
Io posso sentirmi pago solo di un sapere
Che sia mio e sia indipendente dal Suo.
Voglio sentirmi sempre padrone di me stesso;
Non permetterò che le Sue onde mi trascinino lontano
Dalla cerchia fortificata del mio io,
Come fossi una goccia di rugiada spazzata via dal mare.[14]

Non a caso, a un simile Faust, Mefistofele può offrire ironicamente solo la gelida vacuità di un desolato tempio di pietra dove si celebri il culto esclusivo dell’Ego Assoluto e della sua sterile oltranza intellettuale:

Mio caro Faust, ti costruirò un tempio,
Dove il tuo pensiero occuperà il posto della divinità.
Entrerai in un salone di pietra
Ed eleverai preghiere a te stesso.
Là troverai solitudine, silenzio e frescura;
Sotto di te, a grande distanza, udirai il tumulto del mondo.[15] 

Insomma, se la via seguita da Faust nella sua ricerca di Assoluto è l’algido cammino dell’intelletto che scava nei meandri inferi dell’io, la parallela quête dongiovannesca sceglie di svolgersi nell’“atmosfera tropicale” di quell’opus che vorrebbe fondere entro il crogiolo della voluttà erotica Io ed Altro: un cultore gnostico del Demiurgo, e la metà femminile della creazione. In ogni caso, però, tanto la “via fredda” del mago-intellettuale quanto la “via calda” del seduttore trascinano entrambi verso l’oscura necessità dell’atto criminale. Se la prima impresa del Don Juan di Lenau culmina nel massacro che vede bruciare tutti i monaci d’un convento, l’ultima riflessione da lui espressa verso la fine dell’opera rievoca con ammirata nostalgia stragi di innocenti in onore d’un qualche dio: 

Abitudine quanto mai sensata, quella di sacrificare ogni anno
Sugli altari degli dei i neonati. Come sono deliziosi
Il primo verdeggiare delle foglie, il primo profumo,
il primo canto d’un giorno di primavera!
[…]
Se esiste un cielo nell’aldilà, anch’esso
deve apparire più bello sul suo margine iniziale.[16] 

Quanto all’altro versante, andrà subito notato come l’iniziazione alla conoscenza che Mefistofele offre a Faust – preludio del canonico patto di sangue – prenda inizio dal postulato d’una condizione umana sempre ruotante sui due cardini della copula sessuale e del gesto omicida: 

In genere, il più grande piacere di un uomo,
Quando è innamorato, è di mettere al mondo dei figli
E, quando è preso dall’odio, è di vendicarsi
Piantando il pugnale nel petto del nemico.
Proprio questo, procreare per amore e assassinare per odio,
È il nord e il sud del cuore umano;
Le cose che si trovano tra questi due poli
Non sono altro che germi intimiditi,
Germogli incompleti e senza forza,
Dell’omicidio e dell’accoppiamento.
Finora sei stato un povero sciocco;
Ascolta quindi la mia proposta:
II vecchio tiranno tiene la terra
In uno stato di servilismo bigotto;
Ma, pur essendo il mio maggior nemico, non mi ha negato
II diritto di caccia nel suo mondo.
Mettiti al mio servizio
E aiutami a organizzare la mia caccia.[17] 

Tanto nella rapsodia faustiana quanto nel poema drammatico dedicato al seduttore, la condizione dell’uomo (al pari della latitudine esistenziale entro cui può svariare l’erranza dei protagonisti) è inchiodata all’eterna ripetizione d’un percorso che collega due sole “stazioni”: Eros e Thanatos. Se cerca di spingersi verso altre mete, se – soprattutto – decide di protendersi, sia pure seguendo diverse direttrici, verso la conoscenza sperimentale dell’Assoluto, la quête sembra comunque destinata a naufragare contro la compiuta chiusura d’un dio che è sempre e soltanto «ostinata volontà di rifiutarsi in eterno»: 

Io non riesco a liberarmi dalla brama
Di conoscere lo spirito creatore dell’universo;
Nell’intimo della mia natura qualcosa mi spinge
A cercare di cogliere la radice eterna del mio io;
Ma ogni sforzo è inutile e la mia brama si tramuta in odio
Nel sentirmi prigioniero della finitezza del mondo.
Che terribile lacerazione, che angoscia mortale,
Sentire nell’animo questa tempesta dì domande
E non trovare, fuori, altro che un muto silenzio di morte
E una ostinata volontà di rifiutarsi in eterno.[18] 

E, nel «deserto silenzio di morte» entro cui il dio si fa assenza, all’angoscia dell’uomo non resta che tentare la via d’una individuale imitatio dei, che il singolo è sempre condannato a disegnare lungo linee dettate dal proprio clinamen fati: Faust, ricalcando il rigido profilo del Puro Intelletto; Don Juan, provandosi a far suo il torrido furore erotico-genesiaco d’un Demiurgo. Altra via – per eludere il «rifiuto» di dio – non esiste: se non quella, disperata, delle provocazioni estreme. Il ripudio di ogni chiesa reale o potenziale, ad esempio, che Faust formula (in un blasfemo dialogo con il Monaco) attraverso la derisione e il disprezzo tanto della civitas dei quanto della «comunità dei credenti»:

IL MONACO

Torna alla chiesa, figlio depravato […];
Torna alla comunità dei credenti,
Lascia che essa curi il tuo cuore malato!
In questa lega consacrata, lo spirito del Signore,
Testimonianza vivente d’amore, ti redimerà. 

FAUST

Anche un gruppo numeroso è inadeguato e impotente
Se il singolo individuo è privo di ogni sapere.
Forse che, in compagnia d’altri, riuscirei a percepire
Quel messaggio che non ha voluto manifestarsi a me solo?
Nella chiesa dovrei rifugiarmi, tu dici? Ma senti,
Dio non sarà mica un cantore ambulante
Che aspetta che il locale sia pieno prima di cominciare?[19] 

Oppure il radicale rifiuto di qualsivoglia – religioso o civile, poco importa – istituto del matrimonio, che Don Juan manifesta, sull’onda d’una oltranza polemica pronta a negare, insieme, le forme canoniche della paternità e della famiglia,[20] equiparando senza mezzi termini (nel colloquio con Donna Isabella: una delle sue molte vittime) nozze legali e adulterio: 

Calmati donna, e non aver rimpianti.
Qui in basso, sulla terra, non esiste fedeltà.
Quanto a te è successo, ciò che ti addolora tanto,
si compie inevitabilmente per ogni donna
che voglia unirsi in forma compiuta con un uomo.
Ella, in realtà, ama un’immagine di sogno,
e chiunque sia colui che stringe tra le braccia,
è comunque diverso da quello che lei ama.
Così vuole la maledizione dei sensi ingannevoli:
trasfigurare, beffare, abbellire.
Dunque, persino le delizie del matrimonio legittimo
Non sono altro che: adulterio.[21] 

E andrà ascritto ancora al versante più radicalmente provocatorio del poema drammatico il clamoroso espediente escogitato da Don Juan per mettere alla berlina e vanificare il voto di castità cui si sono vincolati tutti i monaci d’un convento. Presentatosi alla comunità con un seguito di dodici fanciulle travestite da paggi (blasfema parodia del Cristo accompagnato dai dodici apostoli), il seduttore aduna i frati nel refettorio per un convito – “ultima cena” di rinunzia all’ascesi cattolica – dove ognuno di essi si ritrova al fianco l’immagine più seducente della malìa femminile, e reagisce di conseguenza, al grido «Addio, aridi dogmi! Addio paradisi brumosi! / Voglio godermi questa donna affascinante».[22] Unico esempio – nell’ideale curriculum plurisecolare del personaggio – in cui la “filantropia” dongiovannesca (già tratteggiata da un Molière) si spinge sino al dono d’una moltitudine di donne-amanti a un’intera orda di maschi... 

Peraltro, più che alla categoria del filantropico, tanto l’impresa “anti-conventuale” quanto la filosofia implicita nel testamento di Don Juan andrebbero ascritti a quel substrato teosofico della drammaturgia di Lenau che, se nell’opera del grande seduttore tende a occultarsi in larga misura sotto il velame della quête erotica quasi maniacale, vuole invece accamparsi in primo piano assoluto entro la struttura di Faust. Tanto da sfociare sovente in un andamento discorsivo non indegno – per i suoi contenuti – d’un trattato di storia delle religioni. Così avviene, ad esempio, nell’amplissimo brano (anch’esso percorso da venature amaramente blasfeme) in cui Mefistofele illustra al protagonista un ragionato confronto tra l’istanza “naturalista” e mitopoietica dei politeismi indiano e greco, e l’astratta e “prosastica” oltranza ultraterrena del monoteismo giudeo-cristiano: 

Lo spirito benefico dell’India e della Grecia è scivolato via
Su di voi senza che ne abbiate tratto alcun profitto;
Ora, per la vostra stupidità, viviamo in un mondo di noia.
Sono stati gli ebrei, quei maniaci del Messia,
A cacciare il vostro carro in un pantano senza uscita.
Hanno preso quel loro Messia e l’hanno incastrato, a mo’ di cuneo,
Nel punto in cui l’uomo e la natura si toccavano;
Ora sono separati: lei di qua, lui di là, da quando
Certi sciocchi pastori si sono messi a cantare per le campagne.
In quella notte, che fu la peggiore di tutte le notti,
Apparve il bambinello tanto atteso […]
Ma ormai in voi si sono spente le forze di un tempo,
Sono appassiti i grandi sentimenti che sgorgavano dal cuore,
Sono svaniti i canti eroici, i miti pieni d’incanto,
È scomparso l’amore possente che genera gli dei.
La natura è stata tradita e la sua fiducia
Voi l’avete calpestata e perduta per sempre;
[…]
Chi non la elegge a suo bene supremo,
Chi cerca un Dio nell’Aldilà, la perde per sempre.[23] 

In verità, il Mefistofele di Lenau – qui avvicinandosi (almeno per questa scelta) al suo omonimo goethiano – non risulta dotato di nessun tratto esplicitamente e inequivocabilmente satanico. Di sicuro, la sua figura e le sue funzioni non appartengono a un gioco di polarità dove egli debba figurare il Male Assoluto a fronte d’un altrettanto assoluto Bene. Stando alle parole del poeta stesso, si tratterebbe piuttosto d’una sorta di «cacciatore»: di certo animato da insanabili motivi di dissidio nei confronti del «vecchio tiranno» celeste, ma comunque titolare – e proprio nell’ambito del “mondo” creato da quest’ultimo – d’un regolarissimo «diritto di caccia». Sulla scorta dell’ultima citazione, verrebbe da pensare che, tra le ragioni del metafisico contendere di Mefistofele e di Dio, ci sia soprattutto il valore da attribuirsi a certe religioni storiche che furono a loro tempo in conflitto: in primis politeismo greco e cristianesimo. Se possiamo immaginarci che il «vecchio tiranno» stia senza riserve dalla parte del «bambinello» e delle sue liturgie, è affatto certo che il demone iniziatore di Faust sia un accorato ed entusiasta partigiano delle antiche divinità elleniche e del loro rapporto con la natura: dei «grandi sentimenti», dei «canti eroici», dei «miti», dell’«amore possente». Non a caso, in una ulteriore scena dell’opera, egli – coinvolgendo nel suo discorrere i tre grandi profeti delle “religioni del libro” – offre a Faust, mentre lo invita a bestemmiare, un bicchiere di vino in forma ironicamente ritualizzata, quasi a disegnare e sottolineare in tutto il suo valore una ineludibile necessità di ri-conversione dell’atto liturgico cristiano in sacrificio dionisiacamente inteso:           

In tempi lontani, come ci narrano
Certe leggende, l’uomo andò
Da Maometto, Cristo e Zoroastro,
Per farsi dare un balsamo miracoloso
Capace di curare i mali che lo affliggono quaggiù:
II dubbio e la morte.
Ma più dei profeti e del Messia
Lo aiutò la misericordia del caso
Che gli insegnò a spremere dall’uva
Un dolce oblìo per la sua angoscia.
[…]
Sapessi quante persone il vino
Ha liberato dalle loro vecchie chimere.
Quante volte il tintinnio allegro dei bicchieri
Ha costretto Cristo ad abbandonare il campo!
[…]
Amico, tu hai bisogno di nuovo slancio;
Prendi e bevi, questo è il mio sangue!
[…]
Prova un po’ a gridare una bella bestemmia.[24] 

Di sicuro, questo Mefistofele condividerebbe, oltre alle scelte di vita e alle trovate provocatorie, sia il rimpianto per i sacrifici umani sia la devozione a un demiurgo «insaziabile» (capace, appunto, di stringere senza posa «la terra tra le sue braccia»), che contraddistinguono la forma mentis religiosa di Don Juan. Insomma, se il grande seduttore fa della sua vita un instancabile errare alla caccia di tanto concrete quanto voluttuose prede femminili spinto dalla intrepida scelta di identificarsi con una divinità del piacere genesiaco “mefistofelicamente” intesa, Faust – per  abbandonarsi senza riserve a un pellegrinaggio tutto teso verso la conquista della più pura e astratta Verità Ultima – si trova obbligato a rendersi riluttante discepolo dell’unico “maestro divino” disponibile a interloquire con la sua ansia di ricerca: Mefistofele. Ovvero: proprio il sinistro, nonché presumibilmente demiurgico, “collega-suddito” del vecchio deus absconditus, «tiranno» autentico dei cieli e della terra. Ma tanto a Faust quanto a Don Juan, pur situandosi essi a diversi livelli di coscienza riflessa, non dovrebbe sfuggire che né un “dio di voluttà” né un demone tentatore possono essere confusi con l’ente concepito nella sua assolutezza. Ed è da qui, dall’oscuro eppure ineludibile presentimento d’un simile verum, che nascono i paralleli stati “atrabiliari” che, sul finire delle due opere, invadono mortalmente i loro protagonisti. L’uno, abbacinato dall’inatteso baluginio d’un Trascendentale sino ad allora eluso, finisce col sentirsi «un cadavere ormai in fase di putrefazione» e perde – insieme – l’energia per amare e uccidere, e la sua stessa vita: 

Il nemico mortale è ormai alla mia mercè.
Persino questo mi è indifferente, come la vita intera.

(Don Juan getta la spada, Don Pedro lo trafigge).[25] 

L’altro, accecato dalla luce artificiale d’una Verità che può consistere solo nell’astrazione, finisce col convincersi che amare e uccidere siano meri sogni di una Coscienza Assoluta dove Dio e Io si identificano in perfetta interscambiabilità, e si suicida: 

È così! Io sono intimamente legato
A Dio, e questo da sempre;
Io sono una cosa sola con lui
E Faust non è il mio vero io.
[…]
Sono un sogno di Dio, un sogno confuso, come la labile
Schiuma colorata che nasce dalle profondità del mare.
E quando un uomo, come Faust, genera un figlio,
Non è che un sogno che si dipana da un altro […];
E quando un uomo, come Faust, uccide un altro uomo,
Vuoi dire che un sogno ne cancella un altro.
E quando l’impulso incoercibile della ricerca
Si impadronisce di un essere umano con tanta forza
Che egli, in tutte le ore del giorno e della notte,
Non fa che corteggiare la Verità e si strugge per lei,
Ecco che allora, forse, Dio si rende conto di sognare
E sente che l’ora ormai prossima del risveglio
Sta mettendo in fuga i fantasmi del sonno;
Ma sarà poi vero che si sveglierà?
[…]
Troppo oscuro e pieno di angoscia, per avere un’essenza,
Io sono un sogno che vola via dalla tua prigione!
Io sono un sogno fatto di piacere, di colpa e di dolore,
E sogno di immergermi il coltello nel petto!

                         Si pugnala.[26] 

L’atto auto-sacrificale con cui Don Juan si consegna alla spada del Convitato di Pietra e la pugnalata suicida attraverso la quale Faust spera di costringere il suo astratto alter ego divino a risvegliarsi da quel sogno che lo rendeva “ostinatamente” muto a ogni domanda sulla Verità costituiscono il pressoché identico termine simbolico contro cui culminano e si infrangono le parallele quêtes del Seduttore e dello Gnostico “Oscuro”. Ma, se l’elegantemente spossata nonchalance distintiva della resa dongiovannesca alla vacuità essenziale della dimensione estetico-erotica dell’esistere può volere come sua clausola davvero conclusiva ed esplicativa solo il più compiuto silenzio, le pretese deliranti di “beatificazione” che pretendono di sostanziare il febbrile sfogo suicida di Faust sembrano esigere un cartiglio di risposta, che si realizza in luce di amaro sarcasmo attraverso le ultime battute di Mefistofele: 

Non tu ed io e la catena che ci lega,
Solo la tua fuga e la tua salvezza sono un sogno!
Te ne accorgerai ben presto e con quale spavento!
Aspetta solo che si spengano i battiti del tuo cuore.
Appena il tuo sangue sarà colato via, quel sangue
Che ha irrorato il mistero e l’ha coperto con il suo brusìo,
Potrai scorgere l’abisso;
Allora ti renderai conto della tua essenza e della mia.
Non ci si libera di me cosi a buon mercato.
Povero bambino sciocco, ti credi salvo,
Perché adesso, tutto ad un tratto, pensi di infilare
La tua testa spaventata in grembo al Vecchio,
E di fargli scivolare in tasca la matassa
Che con la tua insolenza hai aggrovigliato, senza poi saperla districare.
Lui non confonderà per causa tua ciò che è suo e ciò che è mio;
Non ti renderà la tua felicità; essa è morta per sempre.
Non sei mai stato così lontano dalla conciliazione con Dio,
Come quando, nella tua ansia febbrile e disperata,
Volevi cancellare ogni contrasto
E fondere in una sola cosa te, il mondo e Dio.
In quel momento mi sei saltato tra le braccia;
Ora sei mio e io ti tengo ben stretto![27] 

Le parole dell’arcidemone incidono in termini di sentenza sapienziale il senso nascosto del grande fallimento faustiano. L’errare gnostico del protagonista svela da ultimo la sua sostanza di errore, solo perché egli si è dimostrato tanto proclive al con-fondere quanto incapace di distinguere: tanto (per dirla in termini alchemici) pratico del coagula quanto sprovveduto nel solvere. È andato a caccia d’una Verità sognata come monade bella, pura e astratta. E, appunto per questo, non ha saputo realizzare in sé quel processo di autentica Conoscenza che consiste nel far proprio il vero più ostico: quello relativo alla necessità e all’ineludibilità del «contrasto». Contrasto tra Io e Altro, tra «mondo» e «cielo», tra Mefistofele e Dio… A fronte d’una simile conclusione, non ci sentiremmo in dovere di postillare: «con l’entrata in scena finale di Mefistofele che pronuncia la senten­za di condanna, Lenau sembra voler ricondurre l’opera alla sua origina­ria matrice luterana, la stessa che presiede al Volksbucb e alla Tragicall History dì Marlowe. Come il protagonista della antica leggenda, il Faust di Lenau fallirebbe nella sua rivolta contro Dio e sarebbe con­dannato per la sua incapacità di pentirsi. Ma anche se subito dopo la prima pubblicazione Martensen individuerà nel poema un carattere di “moralità”, di “demonstratio per exemplum” rigorosamente ortodos­so, è evidente che la chiusa edificante non regge l’urto della sostanza nichilistica. L’adesione di Lenau all’interpretazione dogmatica è senz’altro dovuta all’esigenza di corrispondere, almeno formalmente, alle aspettative dell’amico teologo e di un pubblico di lettori non ancora “emancipato” dall’etica tradizionale».[28] 

In verità – comunque vadano delucidati i complessi rapporti tra il poco convenzionale teologo Martensen e Lenau, comunque possano venir ricostruiti i tormentatissimi risvolti assunti dalla spiritualità del poeta durante l’ultima straziata fase della sua vita – ci sembra innegabile il fatto che, dalle parole conclusive di Mefistofele, torni ad affacciarsi in chiara evidenza non già l’impronta d’una pretesa «originaria matrice luterana», bensì il marchio distintivo di quella gnosi böhmiana  che l’autore di Faust e di Don Juan aveva conosciuto, subendone in forte misura la fascinazione, attraverso Gotthilf Heinrich von Schubert e, soprattutto, Benedict Franz Xaver von Baader. 

Se riteniamo poco probabile che il poeta di Csatàd abbia mai condiviso la prospettiva cristiana entro cui si inscrive la visione mistica di Jacob Böhme, siamo invece certi che le strutture compositive del suo Faust e del suo Don Juan si incardinino e articolino le proprie giunture su di una tanto personale quanto consapevole adesione a uno dei principi-guida della teosofia böhmiana. Ovvero quella “necessaria compresenza relazionale” – fisica e metafisica – degli opposti, che il calzolaio veggente tedesco (come già a suo tempo il Platone delle lectiones esoteriche aveva fatto con l’Uno e il Molteplice) poneva al centro delle proprie considerazioni sulla Verità Ultima: «L’Uno, il “Sì”, è puro potere e la vita e la verità di Dio, o Dio stesso; ma Dio sarebbe inconoscibile a Se stesso […], se non fosse per la presenza del “No”. Quest’ultimo è l’antitesi o opposto del posi­tivo o verità; esso fa sì che questa divenga manifesta e ciò è possibile solo perché è l’opposto in cui l’amore eterno può dive­nire attivo e percettibile» (Questioni teosofiche, III, 2). «Se si vuole avere una luce, deve esserci un fuoco. Il fuoco produce la luce e la luce rende manifesto il fuoco» (Mysterium, XL, 2). «La luce e il buio sono opposti fra loro, ma esiste fra di essi un legame, così che nessuno di essi può esistere senza l’altro» (Triplice vita, II, 86). «In Dio vi sono due stati, eternamente e senza fine: la luce eterna e l’oscurità eterna. La luce è Dio e nell’oscurità non vi sarebbe alcun dolore se non fosse per la presenza della luce. La luce fa sì che l’oscurità aneli alla luce e ne soffra di conse­guenza» (Tre principi, IX, 30).[29] 

L’erranza di Faust tra gli epifenomeni che dovrebbero condurlo alla perfezione della gnosi fallisce perché egli – dandosi tutto alla “via fredda” del distacco intellettuale – non riesce a realizzare la vera consistenza e le autentiche inter-relazioni né del suo io né del demiurgico “dionisismo” di Mefistofele (il Negatore, il Cacciatore, la buia materia) né, tantomeno, dell’Essere Assoluto. Il vagabondaggio di Don Juan tra le forme estetico-erotiche il cui possesso dovrebbe garantirgli l’identificazione con il demiurgo creatore implode nella resa alla morte, in quanto il seduttore vorrebbe eludere l’inquietante ma imprescindibile compresenza sia d’una Luce che lo raggela sia di quel fuoco “tropicale” che tanto lo seduce. Ed è proprio dalla frizione e dal conflitto tra l’inchiesta gnostica intorno alle due polarità dell’Essere, e la condanna dell’uomo ad agitare il proprio esistere tra erranza ed errore, che scaturiscono le scintille poetiche di cui vivono, in particolare, i poemi drammatici; e, più in generale, l’intera grande poiesis – amante degli eretici, e degli intrepidi “cercatori di gnosi” senza fortuna – di Lenau. Come ben può esemplificare – immagine-simbolo degli Albigesi – la follia del sarto Jacques, che percorre tutti i campi di battaglia della crociata anti-provenzale tagliando brandelli di stoffa a disegni cruciformi dai cadaveri dei caduti cattolici, per poter cucire con essi l’enorme abito “arlecchinesco” necessario a concludere una volta per tutte l’epifania escatologica dell’Anticristo, messa in moto dalle imprese inique della Chiesa: 

Chi è quest’uomo, che, nel silenzio del campo di battaglia,
Solo, cerca per ogni canto, sotto il chiarore lunare,
e si china su di un corpo, e si china su di un altro,
tastando con modi strambi quelle membra irrigidite,
e di tanto in tanto asciuga una lacrima?
 
È un sarto, con i suoi strumenti di lavoro: forbici e filo.
Povero Jacques! È schiavo d’una fissazione.
[…]
È convinto che l’Anticristo non possa morire
senza che lui gli abbia cucito l’abito mortuario.
 
Cercando quanto gli serve, tagliuzza qua e là
Un frammento di veste a un cavaliere, a un prete.
Si dà da fare con rasporto feroce
Pur di avere tutte le pezze indispensabili per quell’abito enorme.[30] 



[1]  N. LENAU, Faust, trad. it. e Introduzione di A. CATTOI, Casale Monferrato, Marietti, 1985.

[2]  Ai tre citati, in ogni caso, andrebbe aggiunto – per essere esaustivi – l’incompiuto Ziska: prima parte di un trittico mai realizzato che Lenau aveva deciso di dedicare alla rivolta hussita.

[3]  Anche nei confronti di questo secondo exemplum drammaturgico realizzato da Lenau, non mancano – pur negli ultimi tempi – sorprendenti segni di una “disinvoltura” esegetica tesa a sorvolare con assorta disattenzione sull’effettiva realtà del testo. Ad esempio, in un saggio divulgato via web (Matematica in Letteratura, web.math.unifi.it/users/casolo/ML/dongiovanni.pdf), Carlo Casolo scrive che il Don Juan di Lenau «è un lungo frammento poetico iniziato nel 1844, in cui Don Giovanni si lascia ammazzare in un duello conclusivo» (p. 16, n. 50). In verità, il testo non è affatto «un lungo frammento poetico», ma un’opera compiuta che l’autore aveva composto nel 1844 (anno del suo primo internamento in un ospedale psichiatrico), e consegnata manoscritta poco prima della morte all’amico editore Atanasius Grün, che la pubblicò nel 1851. Al più, si può dire che fu quest’ultimo a rendere «un po’ meno integrale» il poema drammatico, espungendone di propria iniziativa alcuni versi dedicati alla notte e due brevi brani (di cui sarà sufficiente riferire un passaggio – «suicidarsi è come eiaculare su se stessi» – per comprendere le ragioni di “opportunità’” che ispirarono simili censure).

[4]  A. CATTOI, Introduzione a LENAU, Faust, cit., p. X.

[5]  LENAU, Faust, cit., p. 3.

[6]  N. LENAU, Don Juan, in Sämtliche Werke und Briefe, a cura di VON E. CASTLE, Leipzig, Insel, 1921, vol. II, pp. 291-292. La traduzione, qui come nelle altre citazioni tratte da Don Juan, è di chi scrive.

[7]  LENAU, Faust, cit., p. 29. Si noti che queste parole risuonano dalla sua bocca immediatamente prima che Faust getti la Bibbia tra le fiamme.

[8]  LENAU, Don Juan, cit., p. 294.

[9]  LENAU, Faust, cit., p. 23.

[10]  Ibid.

[11]  LENAU, Don Juan, cit., p. 314.

[12]  Ivi, p. 304.

[13]  Ivi, p. 313.

[14]  LENAU, Faust, cit., p. 19.

[15]  Ivi, p. 143.

[16]  LENAU, Don Juan, p. 317.

[17]  N. LENAU, Faust, cit., p. 31.

[18]  Ivi, p. 19.

[19]  Ivi, p. 21.

[20]  Ricordiamo che la struttura del Don Juan di Lenau contempla – prima del duello finale in cui il protagonista si lascia uccidere dal Commendatore – una scena che non ha precedenti nelle molte versioni della leggenda: tutte le donne amate dal seduttore (alcune ancora pronte ad ammirare il fascino dell’uomo) fanno ressa per entrare nella sua dimora, accompagnate dai molti figli nati dalle loro unioni. Di fronte a ciò, imperturbabile, Don Giovanni ordina al servo Catalinone di esibire un testamento che il padrone ha predisposto da tempo, e dove ha provveduto a lasciare in eredità a ogni donna amata una somma sufficiente a mantenere lei e gli eventuali figli nati dal rapporto.

[21]  LENAU, Don Juan, cit., p. 307.

[22]  Ivi, p. 295.

[23]  LENAU, Faust, cit., pp. 141-142.

[24]  LENAU, Don Juan, cit., pp. 132-133.

[25]  Ivi, p. 318.

[26]  LENAU, Faust, cit., pp. 203-205.

[27]  Ivi, pp. 205-207.

[28]  CATTOI, Introduzione, cit., p. XV.

[29]  Cit. in F. HARTMANN, Il mondo magico di Jacob Böhme, trad. it. di M. MONTI, Roma, Edizioni Mediterranee, 2005, p. 75.

[30]  N. LENAU, Die Albigenser, in Sämtliche Werke und Briefe, cit., vol. II, p. 249.




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