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Fabio Andreazza

Il realismo documentario di Umberto Barbaro

Data di pubblicazione su web 13/03/2018
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Nel 1936, in una breve storia del documentario in Italia,[1] Umberto Barbaro rievocò la “battaglia” della sua generazione, coagulata attorno alle riviste dirette da Alessandro Blasetti, per il rilancio della produzione cinematografica nazionale. Anche se ne sopravvalutava i meriti, considerandola all’origine della decisione di Stefano Pittaluga di rimettere in attività nel 1930 la casa di produzione Cines, non si può non riconoscere la cesura che tale battaglia segnò con il passato. Per una parte della generazione nata all’inizio del secolo, il cinema non era più solo un gagne-pain: veniva sempre più identificato come una posta culturale in gioco cui dedicare energie e talento. Barbaro accennava alle «vivaci polemiche cinematografiche» tra i «vecchi elementi» emigrati in Germania durante la crisi e richiamati in patria da Pittaluga (da Guido Brignone a Nunzio Malasomma, da Amleto Palermi a Gennaro Righelli) e i «giovani aspiranti alla regia».[2]

Negli anni seguenti questi ultimi si misero alla prova nel genere documentario, entrato nei loro interessi non solo per motivi pratici (offrire ai produttori un saggio del proprio talento), ma anche per ragioni estetiche. Il “genere” soddisfaceva da un lato «il bisogno, sentito ovunque, di rendere sempre più concreta la visione cinematografica», dall’altro «quella tendenza della generazione ad una costante oggettività».[3] Secondo Barbaro quindi nei primi anni Trenta le quotazioni dello stile realistico erano in crescita[4]. In queste pagine vedremo come egli si confrontò con questo nuovo orientamento estetico nella pratica cinematografica (con il documentario Cantieri dell’Adriatico, 1933), ma prima ancora in quella letteraria (nel romanzo Luce fredda, 1931). Egli era allora anzitutto uno scrittore.

1. Nel 1930 Giovanni Titta Rosa sosteneva che se si fosse chiesto a un giovane scrittore cosa stesse facendo in quel momento, avrebbe risposto: «sto scrivendo il romanzo». Perché «scrivere prima o poi un romanzo è cosa d’obbligo per un giovane scrittore italiano».[5] Se negli anni precedenti tale genere non aveva quasi cittadinanza nel campo letterario[6] nazionale – era considerato «una specie, alquanto decaduta, di arte applicata» –,[7] la nuova generazione stava mettendo in discussione la gerarchia dei generi. Elio Vittorini, esponente di «Solaria», riconosceva i suoi modelli nella purezza linguistica della rivista «La Ronda» (1919-1923) e nella letteratura francese contemporanea, soprattutto in Proust.[8] Ma il fronte giovanile non era compatto, come dimostra il romanzo d’esordio di Alberto Moravia, Gli indifferenti (1929). Recensito negativamente su «Solaria» e disprezzato da Vittorini,[9] suscitò un notevole scandalo per l’impietosa descrizione delle convenzioni borghesi e diventò un modello per i giovani letterati antiborghesi riuniti attorno a riviste quali «Il Saggiatore» e «L’Universale». Seguaci di Giuseppe Bottai,[10] questi ultimi erano sprezzanti verso il frammentismo e l’arte per l’arte. Erano assertori del romanzo realistico-moralistico.

A un certo punto si accese una disputa fra costoro e gli eredi della «Ronda» o, per usare le etichette di allora, fra “contenutisti” e “calligrafi”.[11] Quella che Antonio Gramsci liquidò come «una polemica di piccoli e mediocri giornalisti, più che i “dolori del parto” di una nuova civiltà letteraria»,[12] può essere invece letta come l’esplicitazione di una dinamica interna al campo letterario. Ad aprire la polemica, nelle vesti di portavoce dei contenutisti, fu Eurialo De Michelis, che aveva esordito nel 1931 con il romanzo Adamo. Nel maggio 1932 pubblicò un articolo, La Ronda e noi, dove affermava l’esistenza di una nuova generazione di scrittori che si contrapponeva a quanti si rifacevano alla lezione di quel periodico. La contesa non era animata da divergenze politiche: la posta in gioco era tutta interna al campo letterario e la battaglia era condotta da una frazione della nuova generazione che puntava a scalzare l’orientamento estetico più prestigioso e a imporsi in quel microcosmo sociale.

In quest’ottica va letta anche la più circoscritta polemica sul realismo documentario, la cui legittimità transnazionale era stata segnalata, pur senza entusiasmo, da Corrado Alvaro nel 1929: «chi confronti la letteratura della Russia, della Germania, dell’America, rimarrà sorpreso dalla stessa tendenza realistica e documentaria».[13] Furono però le traduzioni di Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin nel 1931 e di Manhattan Transfer di John Don Passos nel 1932[14] a innescare la disputa. Le reazioni furono perlopiù negative, da Titta Rosa a Ugo Ojetti,[15] il massimo rappresentante del volto borghese della cultura fascista. Non mancarono comunque le prese di posizione favorevoli. Si pensi al giovane editore Valentino Bompiani che, nel marzo 1934, prendendo come modelli Döblin e Don Passos, invitò i narratori a strutturare i romanzi come i «libri moderni di sole fotografie intorno ad un unico soggetto, nei quali l’autore non intervenga più per il racconto, che è documentario, ma solo per il taglio e per gli accostamenti, che diventano l’interpretazione dei fatti».[16] A questa audace concezione del romanziere come montatore di documenti replicò disgustato Massimo Bontempelli,[17] l’esponente più autorevole della corrente modernizzante degli scrittori fascisti, inventore della fortunata etichetta “realismo magico”. Riprendendo il discorso nel gennaio successivo, Bontempelli era preoccupato per l’inclinazione sempre più accentuata – sia in ambito letterario che cinematografico – verso il «documentarismo puro».[18] Egli riteneva affascinati da questa opzione estetica soprattutto i giovani, anche se in numero esiguo. Moravia, che gravitava in quell’orbita, prese le distanze da quella tendenza letteraria.[19] Anzi, facendovi rientrare anche Proust, mise nello stesso calderone documentaristi e scrittori solariani, sottolineando la sua autonomia estetica.

2. Barbaro non partecipò a quella polemica, ma aveva già avuto modo di esprimere la sua idea di letteratura. Due anni prima aveva pubblicato un articolo sul settimanale «Quadrivio» (su cui scrivevano Bontempelli e Moravia), dove registrava il suo (unico) romanzo Luce fredda fra «i migliori romanzi moderni» (accanto alle opere dei “neorealisti” russi, di Alvaro, Moravia, ecc.). Non solo, osservava che «veramente edificante è lo sfratto che la vita romanzata vuol dare al romanzo e il “documentario” al film d’inventiva».[20] La «vita romanzata» era l’equivalente letterario del documentario cinematografico? Ma allora perché parlare di vita romanzata anziché documentata? Prosegue Barbaro: «più vita dentro l’arte, finché, tremano i timiduzzi dell’arte pura, le due cose combaceranno e addio belle opere d’arte mie!».[21] Pur riconoscendo subito dopo l’illusorietà della prospettiva («non combaceranno mai»), rimane il fatto che la vita doveva penetrare nella narrazione letteraria al punto da ridurre al minimo l’elemento finzionale. Ci torneremo.

Osserviamo intanto che facendo letteratura egli intendeva «ricostringere nelle angustie della quotidianità il lettore, per dargli l’ansia insopprimibile di uscire, di farsi migliore, di trasformare sé stesso e il mondo, con rinnovata e vigile fiducia nelle proprie forze con un ardore sempre più maschio[22] per la propria opera».[23] La letteratura doveva documentare la vita dell’uomo comune per persuaderlo a desiderare un grande cambiamento sociale. Uno strumento di lotta politica. Barbaro era marxista ma non avrebbe usato parole diverse se fosse stato un fascista di sinistra. Le sue opinioni estetiche e politiche non erano solo delle scelte intellettuali, bensì il prodotto di una specifica traiettoria sociale.

Barbaro nacque nel 1902 ad Aci Trezza, in Sicilia. Perse i genitori (il padre era probabilmente un insegnante di matematica) durante il terremoto di Messina nel 1908 e si trasferì a Roma, con una zia e la sorella Antonietta. Qui frequentò il ginnasio, ma lo dovette abbandonare presto per lavorare all’Azienda Tranviaria di Roma, dove venne a contatto con la classe popolare. Questi poche notizie spiegano la sua inclinazione sovversiva. Un ambiente familiare colto[24] che ha subito un declassamento comporta spesso un senso di malessere sociale, di precarietà che rende gli individui propensi alla rivolta e a prese di posizione arrischiate. Fin dal ginnasio Barbaro si legò ad alcuni coetanei con i quali mantenne una salda amicizia e una stretta collaborazione nelle imprese culturali. Alludo a Paolo Flores, a Bonaventura Grassi e a Vinicio Paladini[25] con in quali condivideva una difficile condizione economica. Insieme a loro e a Dino Terra si avvicinò agli ambienti della sinistra anarchica e comunista romana. Nel 1927 fondò l’Immaginismo, un movimento destinato alla marginalità, dato che la sinistra rivoluzionaria – che in quel periodo vedeva costantemente ridursi i margini di manovra – non mostrava attenzione alle sperimentazioni artistiche rappresentate in Italia dal Futurismo, sempre più vicino al regime fascista.[26]

Nonostante le difficoltà, Barbaro, leader del movimento, attaccò le figure dominanti della riflessione estetica (Croce) e dell’avanguardia (i futuristi) considerandole fautrici, assieme all’ormai “antiquato” D’Annunzio, di un’estetica sorpassata: «i punti di contatto tra crocianesimo, dannunzianesimo e futurismo sono il disinteresse contenutistico ed il frammentismo».[27]

Quella di Barbaro era una battaglia estetica per il contenutismo. Contro il formalismo. Contro il frammento. A favore del romanzo. Una battaglia in cui gli avversari non erano solo quelli già convocati ma comprendevano anche gli eredi della «Ronda». Come si è visto, però, di lì a qualche anno i sostenitori del romanzo lo fecero divenire un genere molto apprezzato dai giovani letterati. In una congiuntura così favorevole, Barbaro tentò di affermarsi come romanziere: nel 1931 pubblicò Luce fredda.

3. Roma, 1928. Sergio è un intellettuale sui trent’anni anni dalla «vita riflessiva e triste».[28] Campa di una magra rendita e abita in squallide camere d’affitto: prima presso un’infelice famiglia piccolo-borghese, poi da un vecchio che vive con una figlia squinternata e un figlio destinato al suicidio. È insofferente verso la morale borghese, ma nonostante i buoni propositi non riesce a liberarsene. I suoi atteggiamenti da «riformatore del mondo» non si risolvono in azioni, nemmeno quando, alla fine del romanzo, sembra essere cambiato. «Ed ecco, – pensa Sergio – io mi getterò nell’azione; costi quel che costi, anche se illogica, anche se incomprensibile, vedremo chi arriverà prima, se io o la realtà… Dubitò ancora di sbagliare e un fiotto di ironia amara gli venne alle labbra».[29] Sergio è un “inetto”, personaggio-chiave dei più importanti romanzi italiani del decennio precedente: da Rubè (1921) di Giuseppe Antonio Borgese alla Coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, fino, soprattutto, a Gli indifferenti di Moravia. Il romanzo tuttavia non è incentrato sul protagonista: i capitoli ruotano attorno alle vicende di diversi personaggi, dagli amici agli affittacamere, impedendo al lettore di affezionarsi a Sergio.

Non solo. In Luce fredda il processo di identificazione non è favorito dalla presenza di un narratore che guarda da fuori i personaggi, giudicandoli e offendendoli, facendo illazioni su ciò che pensano, riassumendo quello che dicono; oppure penetra nella loro soggettività dando voce ai loro pensieri o, ancora, si assenta, lasciando spazio a lettere o pagine di diario senza commenti. Un dispositivo narrativo che ostacola l’identificazione con il racconto, inducendo a guardare alla vita dei personaggi in modo “defamiliarizzato”. Tale sensazione è rafforzata dall’uso di una lingua “grigia”, antitetica a quella aulica allora dominante nella letteratura italiana. Una lingua priva di risvolti connotativi, che presenta brutalmente dei contenuti a un lettore spinto ad affrontare questo testo con occhi straniati. Difficile non pensare allo Šklovskij del saggio L’arte come artificio (1917): all’arte come via d’uscita dall’automatizzazione prodotta dalle abitudini, all’arte che esiste «per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra», e che per ottenere questi effetti «si serve di due artifici: lo straniamento delle cose e la complicazione della forma».[30] Se l’idea di arte come artificio non poteva piacere a Barbaro (aveva liquidato in una riga il formalismo russo),[31] si ha l’impressione che fosse convinto che complicando la forma (non sul piano della sintassi, ma su quello della focalizzazione e della struttura dell’opera) si riuscisse a ottenere un effetto di straniamento in grado di rivelare al lettore con occhi nuovi la vita che scorre nell’opera.

Il procedimento dello straniamento non è un fenomeno solo novecentescCorso, R. Mugellesi, G. Rosati, Torino, Einaudi, 1988, pp. 130-133. Come ha mostrato Carlo Ginzburg, se ne possono rintracciare esempi già nella tarda antichità, a partire da Marco Aurelio.[32] Nel periodo storico che qui interessa troviamo tale procedimento in Döblin. Barbaro non lo annoverava fra i migliori romanzieri moderni, tuttavia mostrava di apprezzarlo apparentandolo ai neorealisti russi,[33] dei quali amava la «lirica evocazione di stati d’animo» e la «moralità efficiente».[34] Inoltre, essendo traduttore dal tedesco (oltre che dal russo), negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Luce fredda avrebbe volto in italiano Glückliche Menschen e Der Scharlatan di Hermann Kesten,[35] scrittore che in Italia veniva assimilato sul piano stilistico a Döblin. Tali opere, pur essendo considerate esponenti della famigerata Neue Sachlichkeit, erano capaci, come scriveva Bonaventura Tecchi, di far nascere dalla «realtà più brutale […] “evocazioni poetiche” strane, modernissime».[36]

Come il Döblin di Berlin Alexanderplatz, Barbaro ambienta la sua storia in quegli anni. Pone in conflitto dimensione individuale (protagonista) e collettiva (amici e conoscenti). Assembla i capitoli con una tecnica riconducibile al montaggio cinematografico. Alterna narrazione e documenti e si serve di un narratore ingombrante che interviene nel racconto. Pur senza l’audacia dello scrittore tedesco, con questi espedienti egli produce un effetto di straniamento nel lettore. Quest’ultimo non si trova tra le mani un congegno narrativo “digestivo”, mirato all’intrattenimento, ma una distaccata rappresentazione della vita.

Qualche anno prima Barbaro plaudeva all’opera dello scrittore espressionista e comunista Ernst Toller quale «specchio vivo e fedele dei moti di tutta una generazione, documento della sua attività e soprattutto mezzo delle sue conquiste».[37] Grazie al procedimento di defamiliarizzazione, Luce fredda sembra voler essere lo “specchio vivo e fedele” della stasi di una generazione, il documento della sua inattività. Un romanzo in funzione dell’azione, nonostante il clima politico.

Questo “documento” non doveva configurarsi come un romanzo “documentario” al pari di quelli sovietici di cui più avanti Barbaro avrebbe parlato in modo tiepido,[38] né come qualcosa di simile al già menzionato Manhattan Transfer, edito l’anno dopo in italiano ma già noto tra gli addetti ai lavori:[39] un’opera che, come ha scritto Mario Vargas Llosa, intende «comunicare al lettore la sensazione di stare direttamente davanti alla vita, al mondo oggettivo di quanto narrato senza la mediazione della letteratura e dell’autore».[40] Per Barbaro non era un uso radicale della narrazione oggettiva a dare «al lettore la sensazione di stare direttamente davanti alla vita»: quel compito spettava al cinema.

4. Barbaro aveva iniziato a occuparsi di cinema nel 1928, pubblicando su riviste specializzate collegate a Bontempelli e Anton Giulio Bragaglia,[41] un altro leader dell’avanguardia filofascista, come è noto. Il marxista Barbaro e questi intellettuali di regime pensavano che l’arte dovesse occupare un ruolo centrale nella società di massa e che il cinema soddisfacesse appieno queste esigenze[42].

Nel 1932 l’autore di Luce fredda trovò impiego nell’ufficio soggetti della Cines,[43] diretta dall’aprile di quell’anno sino al novembre successivo da Emilio Cecchi. Fra le varie iniziative di Cecchi ci fu la produzione di una serie di cortometraggi documentari[44] affidati a giovani registi, anche esordienti. È il caso di Barbaro. Affiancato dal navigato direttore della fotografia Ubaldo Arata, egli nel 1933 diresse Cantieri dell’Adriatico, ambientato negli stabilimenti navali di Monfalcone e nelle officine delle fonderie Sant’Andrea di Trieste.

Il “corto” inizia con panoramiche in campo lungo di una dolina del Carso, poi di un muro bombardato durante la prima guerra mondiale e infine del borgo operaio di Monfalcone. I movimenti di macchina poco fluidi sono spie di uno stile disadorno che caratterizza il documentario. Si prosegue mostrando il lavoro degli operai nei cantieri, lasciando che siano i rumori delle macchine a dare forma al paesaggio sonoro in cui si fa spazio la voce over di uno speaker. La composizione delle inquadrature, a parte un paio di casi,[45] non è estetizzante ma funzionale alla descrizione degli oggetti, e il montaggio, tutto a stacchi, è pressoché privo di raccordi.

Tre anni dopo, Barbaro pubblicava su «Quadrivio» la già citata breve storia del documentario in Italia. L’articolo è dedicato in larga misura alla serie di cortometraggi promossa da Cecchi suddivisa in due gruppi: da un lato i documentari «prevalentemente tesi a una ricerca stilistica»; dall’altro quelli in cui «la preoccupazione formale fu subordinata ad una ideazione del contenuto».[46] Questa convenzionale classificazione acquista significato se viene considerata alla luce di quanto si è detto a proposito del dibattito letterario di quegli anni. Barbaro applica al campo cinematografico delle categorie diffuse in quello della letteratura, cercando di dimostrare la sincronizzazione tra i due ambiti e la coerenza della sua poetica.

Per chiarire la sua appartenenza al fronte contenutista, spiega che in Cantieri dell’Adriatico «la preoccupazione costante fu che i mezzi tecnici impiegati fossero evidenti il meno possibile. Inquadratura piana, fotografia semplice, a luce naturale, montaggio quasi elementare».[47] La sobrietà delle inquadrature e la noncuranza per i raccordi danno allo spettatore la sensazione, straniante, di avere a che fare con dei frammenti di bruta realtà, di vita documentata.

5. La scelta di adottare uno stile oggettivistico in Cantieri dell’Adriatico (e non in Luce fredda) si potrebbe spiegare con l’alto grado di indessicalità dell’immagine cinematografica, con lo stretto rapporto che, a differenza delle parole, essa instaura con la realtà rappresentata. Ma è inadeguata questa interpretazione “essenzialista”, legata alle diverse proprietà dei media.

Per comprendere le scelte di Barbaro occorre rifarsi ai campi letterario e cinematografico, considerando lo spazio dei “possibili” che nei primi anni Trenta si presentava a un esordiente sia romanziere sia cineasta.

Nel campo letterario, nonostante le preoccupazioni di Bontempelli, il realismo documentario occupava una posizione marginale. In Italia questo dipendeva dal consolidato sospetto verso l’imitazione impersonale del visibile e dalla scarsa influenza culturale esercitata da Germania, Russia e Stati Uniti (rispetto, ad esempio, alla Francia).[48] Le parole di Ojetti su Dos Passos restituiscono il clima dell’epoca: definendo tale realismo «solo una perfetta macchina di presa», egli afferma che i suoi romanzi sono «l’opposto di quello che si scrive e che s’è scritto e che, oso dire, si scriverà mai da noi italiani».[49] Anche se avesse voluto pubblicare un romanzo documentario, Barbaro non godeva di un’autorevolezza tale da consentirgli un’efficace opposizione a questo status quo.

Diverso il caso del cinema: un campo culturale allo stato nascente, più sensibile alle influenze straniere. Se alla metà degli anni Venti il rapporto con la Francia si era rivelato decisivo per la sua legittimazione artistica da parte dei letterati,[50] la cinematografia francese non godeva del prestigio di quelle russa, tedesca e statunitense. Che in quegli anni, se si considera la produzione più apprezzata dalla critica, propendevano per il realismo documentario.

Una testimonianza si trova negli scritti di Ettore Maria Margadonna: critico aggiornato sul dibattito internazionale, autore nel 1932 della prima storia del nuovo medium pubblicata in Italia. In un articolo di quell’anno sulle tendenze del cinema americano, Margadonna le riconduceva al “nuovo realismo”, indirizzo mondiale di tutte le arti narrative,[51] particolarmente accentuato, quantomeno in ambito cinematografico, in Europa: «Che il realismo cinematografico sia la tendenza più vitale del cinema europeo sembra un fatto assodato: tutte le volte che il cinema, sdegnando la cartapesta, le corazze, gli elmi e le durlindane, ha preso contatto con la vita difficilmente ha fallito al suo scopo. La storia del cinema tedesco, e del cinema russo, cioè delle due nazioni che hanno dato i maggiori contributi e le decisive esperienze, è una perentoria dimostrazione.»[52]

La dimostrazione per il cinema russo era data da Tempeste sull’Asia (1928) di Vsevolod Pudovkin, Il vecchio e il nuovo (1929) di Sergej M. Ejzenštejn, La terra di Aleksandr P. Dovženko (1930), Il cammino della vita (1931) di Nikolai Ekk; nonché dalle teorie e dai film di Dziga Vertov, che «ha portato fino all’estreme conseguenze il realismo cinematografico».[53] Per la Germania, che aveva anticipato questo orientamento, Margadonna citava La strada (1923) di Karl Grune, Varieté (1925) di Ewald A. Dupont, L’ultima risata (1924) di Friedrich W. Murnau e i film di Georg W. Pabst: dalla Via senza gioia (1925) alla Tragedia della miniera (1931). Quest’ultimo, secondo il critico, influenzato dai registi russi perché come loro era partito «dal documento per arrivare alla narrazione».[54]

Naturale che la tendenza oggettivistica della generazione di Barbaro fosse più legittimamente esprimibile attraverso il cinema, cui si dedicò con crescente interesse negli anni seguenti, a scapito dell’attività letteraria,[55] diventando, come è noto, un acceso sostenitore dello stile realistico, principalmente nelle vesti di critico, teorico e docente del Centro Sperimentale di Cinematografia.



[1] U. BARBARO, Piccola storia del film documentario in Italia, in «Quadrivio», IV, 1936, 45; poi in ID., Neorealismo e realismo, a cura di G.P. BRUNETTA, Roma, Editori Riuniti, 1976, vol. II, pp. 471-476.

[2] Ivi, p. 474.

[3] Ivi, p. 472.

[4] In Italia l’interesse per lo stile realistico continuò ad aumentare negli anni seguenti. Commentando un dibattito sul documentario avvenuto intorno al 1930, scrive Vito Zagarrio: «Dalla discussione sul carattere “documentario” del film […] emerge uno dei leitmotiv del cinema durante il fascismo: il problema del realismo» (V. ZAGARRIO, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Venezia, Marsilio, 2004, p. 118).

[5] G. TITTA ROSA, Invito al romanzo, Milano, Crippa, 1930, p. 65.

[6] Si utilizza qui la nozione di “campo” elaborata da Pierre Bourdieu a partire dai suoi studi sociologici sulla letteratura francese dell’Ottocento. Per sottrarsi all’alternativa tra il riduzionismo oggettivista e la celebrazione soggettivista del genio creatore, tra l’analisi esterna che mette direttamente in relazione le creazioni artistiche con le funzioni sociali e l’analisi interna che si occupa solo della forma, e che spesso si riduce a formalismo, Bourdieu ha proposto il concetto di campo. A suo parere, entrambe le prospettive ignorano l’universo particolare della letteratura come spazio di creazione autonoma e il fatto che esistono delle determinazioni specifiche che pesano sull’attività degli scrittori e sulla forma dell’opera. La nozione di campo permette invece di pensare il microcosmo letterario come uno spazio parzialmente autonomo, dotato di proprie regole e poste in gioco. Per capire un’opera d’arte bisogna descrivere le sfide che l’artista ha dovuto affrontare, ricostruire il quadro di possibilità estetiche, cioè tentare di rendere conto dello stato del campo nel quale l’artista ha realizzato la sua opera. Le scelte formali acquistano senso se vengono inserite in un sistema di relazioni tra posizioni estetiche. In questo modo si passa dall’opus operatum al modus operandi, alle disposizioni e alle condizioni che determinano l’attività degli scrittori e più in generale degli artisti. Per un’ampia trattazione della teoria dei campi artistici, cfr. P. BOURDIEU, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario (1992; nuova ed. 1998), Milano, Il Saggiatore, 2005.

[7] TITTA ROSA, Invito al romanzo, cit., p. 15.

[8] Cfr. E. VITTORINI, Scarico di coscienza, in «L’Italia letteraria», I, 1929, 28, p. 1; ora in ID., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di R. ROTONDI, Torino, Einaudi, 1997, pp. 121-125.

[9] Cfr. G. ALBERTI, Alberto Moravia. “Gli indifferenti”, in «Solaria», IV, 1929, 9-10, pp. 44-47. Vittorini spiegava così l’inserimento degli Indifferenti a Enrico Falqui, co-curatore dell’antologia Scrittori nuovi (Lanciano, Carabba, 1930): «È necessario! ha avuto un bel successo». E poi: «Non ho mai stimato Moravia. Mi ripugna come Zola te l’ho detto…». Lettere scritte rispettivamente il 6 agosto e il 30 settembre 1929; Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Enrico Falqui, cit. in VITTORINI, Letteratura arte società, cit., pp. 161 n. e 146.

[10] Bottai stesso, allora ministro delle Corporazioni, recensì Gli indifferenti: «Moravia si scopre allora il più commestibile scrittore della Penisola. Si capisce, che Moravia è un artista». CRITICA FASCISTA [G. BOTTAI], La tessera e l’ingegno, in «Critica Fascista», IX, 1931, 8, p. 142.

[11] Cfr. G. LANGELLA, Il secolo delle riviste. Lo statuto letterario dal «Baretti» a «Primato», Milano, Vita e Pensiero, 1982, pp. 328-383.

[12] A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, a cura di V. GERRATANA, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, p. 1779. La citazione è tratta da una nota scritta su un quaderno iniziato nel 1933.

[13] C. ALVARO, Senso della vita tedesca, oggi, in «L’Ambrosiano», 10 maggio 1929; poi in ID., Scritti dispersi 1921-1956, a cura di M. STRATI, Milano, Bompiani, 1995, pp. 226-227.

[14] A. DÖBLIN, Berlin-Alexanderplatz (Storia di Franz Biberkopf) (1929), Milano, Modernissima, 1931; J. DON PASSOS, Nuova York [Manhattan Transfer] (1925), Milano, Corbaccio, 1932.

[15] Alvaro riteneva questo orientamento estetico inconciliabile con la cultura italiana. «In arte e letteratura: realismo, concretezza, documentarismo, arte come specchio della realtà immediata, ma in fondo di contenuto polemico e critico, lo stesso revisionismo del vecchio mondo che si sta compiendo nel costume; e questo è all’antitesi con l’arte dei paesi latini dove essa è un’evasione dal mondo di oggi» (Senso della vita tedesca, oggi, cit., p. 225). Su questi aspetti si veda L.M. RUBINO, I mille demoni della modernità. L’immagine della Germania e la ricezione della narrativa tedesca contemporanea in Italia fra le due guerre, Palermo, Flaccovio, 2002, pp. 16-20. Ojetti definì il Dos Passos di Manhattan Transfer solo «una perfetta macchina di presa», mentre Titta Rosa, a proposito della Neue Sachlichkeit, parlò di «pseudo-letteratura» in quanto «documento, contenuto crudo». U. OJETTI, Lettera aperta a John Dos Passos, sulla povera America, in «Pègaso», IV, 1932, 8, p. 210; G. TITTA ROSA, recensione cit. in Notiziario, «Occidente», II, 1933, 2; entrambi citati in R. BEN-GHIAT, La cultura fascista (2001), Bologna, il Mulino, 2004, pp. 75 e 77.

[16] V. BOMPIANI, Invito editoriale al romanzo “collettivo”, in «Gazzetta del Popolo», 14 marzo 1934.

[17] M. BONTEMPELLI, Verismo è disfattismo, in «La Gazzetta del Popolo», 28 marzo 1934; poi in ID, L’avventura novecentista. Selva polemica (1926-1938) (1938), a cura di R. JACOBBI, Firenze, Vallecchi, 1974 (versione ridotta), pp. 171-173.

[18] Ivi, p. 180.

[19] Cfr. A. MORAVIA, Il parere di un romanziere, in «Gazzetta del Popolo», 25 aprile 1934.

[20] U. BARBARO, Considerazioni sul romanzo, in «Quadrivio», I, 1932, 1; poi in ID., Neorealismo e realismo, cit., vol. II, p. 136.

[21] Ibid.

[22] Nel senso di “forte”.

[23] Ivi, p. 138.

[24] Nonostante le ristrettezze economiche lo studio era considerato una priorità. Se, come ha affermato Luigi Chiarini (compagno di ginnasio), Barbaro abbandonò presto la scuola per ragioni economiche, la sorella Antonietta si laureò in Lettere. Ringrazio Maria Barbaro per le informazioni biografiche. Per la dichiarazione di Chiarini si veda Profilo di Barbaro, in U. BARBARO, Il film e il risarcimento marxista dell’arte, a cura di L. QUAGLIETTI, Roma, Editori Riuniti, 1960, p. X.

[25] «Nato nel 1902 a Mosca da padre italiano e da madre russa, Paladini aderì fin da adolescente al movimento socialista». U. CARPI, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni venti, Napoli, Liguori, 1981, p. 35.

[26] Cfr. ivi, pp. 29-30.

[27] U. BARBARO, Noi, l’espressionismo e Toller, in «Lo Spettacolo d’Italia», I, 1927, 5, p. 3.

[28] U. BARBARO, Luce fredda (1931), Montepulciano, Edizioni del Grifo, 1990, p. 9.

[29] Ivi, p. 224.

[30] V. ŠKLOVSKIJ, L’arte come artificio (1917), in ID., Una teoria della prosa (1925), Milano, Garzanti, 1974, p. 16.

[31] Cfr. U. BARBARO, Letteratura russa a volo d’uccello, in «L’Italia Letteraria», II, 1930, 45; poi in ID., Neorealismo e realismo, cit., vol. I, p. 108.

[32] Cfr. C. GINZBURG, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 15-39.

[33] «[Le tendenze letterarie in Russia] sono il Simbolismo, il Futurismo, e il Neorealismo che pur rifacendosi alla letteratura dell’ottocento, non può dirsi un vero e proprio ritorno ma invece ha caratteri di novità, se non di avanguardia, con qualche analogia col neo-realismo tedesco di Döblin in letteratura e dei Dix in pittura» (BARBARO, Letteratura russa a volo d’uccello, cit., p. 108).

[34] U. BARBARO, Lidija Sejfullina, in «Rivista di letterature slave», III, 1928, 4-6; poi in ID., Neorealismo e realismo, cit., vol. I, p. 88.

[35] Cfr. H. KESTEN, Gente felice (1931), Lanciano, Carabba, 1933; e ID., Il ciarlatano (1932), Milano, Corbaccio, 1934.

[36] C.A. LENZI, Inchiesta sul romanzo: ciò che ne pensa Bonaventura Tecchi, in «Corriere Padano», 27 ottobre 1932; poi in Vent’anni di cultura ferrarese. Antologia del “Corriere Padano”, a cura di A. FOLLI, Bologna, Pàtron, 1978, vol. I, p. 171.

[37] BARBARO, Noi, l’espressionismo e Toller, cit., p. 3.

[38] Cfr. U. BARBARO, Il piano quinquennale romanzato, in «Oggi», I, 1933, 5; poi in ID., Neorealismo e realismo, cit., vol. II, p. 146.

[39] «Non credo di essere stato il solo in Italia a cercare il mio primo Dos Passos per la scossa provata alla visione della Folla. Girava allora la voce che King Vidor avesse cavato il film da Manhattan Transfer» (C. PAVESE, John Dos Passos e il romanzo americano, in «La Cultura», I, 1933, 1; poi, con il titolo John Dos Passos, in Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1968, p. 105). La folla, film diretto da King Vidor, è stato distribuito in Italia, (come negli Stati Uniti), nel 1928.

[40] M. VARGAS LLOSA, La verità delle menzogne. Saggi sulla letteratura (1990), Milano, Scheiwiller, 2010, p. 47.

[41] Barbaro era vicino al Partito comunista già nella prima metà degli anni Venti. Ed «era Bragaglia a favorire (anche se non sempre con successo) l’accettazione di articoli di Paladini e Barbaro sulla stampa del regime» (CARPI, Bolscevico immaginista, cit., rispettivamente pp. 25, 98).

[42] «L’arte cinematografica si trova nelle migliori condizioni per poter dominare il più grande e il più vario e compiuto pubblico: per imporre se stessa come arte centrale di un’epoca, e rinnovare le altre; per diventare il fuoco centrale dell’espressione di un tempo, e la più efficace educazione di una razza» (M. B. [BONTEMPELLI], Nous et le Théâtre, in «900», I, 1926-1927, 2; trad. it. in ID., L’avventura novecentista, cit., p. 272).

[43] Cfr. L. SOLAROLI, Ricordo di Barbaro alla vecchia Cines, in «Filmcritica», XIII, 1962, 118, pp. 81-84.

[44] Cfr. A. BALDI, I documentari della Cines, in «Immagine», 1983, 3, pp. 5-9; ID., Cines “in corto”, ivi n.s., 1992, 20, pp. 18-24; L. VICHI, I documentari della Cines e gli esordi di Raffaele Matarazzo, in Storia del cinema italiano, a cura di L. QUARESIMA, IV. 1924-1933, Roma-Venezia, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Marsilio, pp. 456-457.

[45] Nel primo caso la macchina da presa è collocata in un sommergibile, nel quale un operaio vi entra e lo percorre in lungo. Oltre a sfruttare la profondità di campo, Barbaro e Arata valorizzano il contrasto cromatico fra lo scuro delle pareti e il chiaro della scala, delle tute degli operai e delle assi che fungono da temporaneo pavimento. Nel secondo caso, durante il varo di una nave, la macchina da presa inquadra in contre-plongée la punta della prua, che disegna un triangolo scuro sullo sfondo chiaro del cielo.

[46] BARBARO, Piccola storia del film documentario in Italia, cit., p. 474.

[47] Ibid.

[48] Questa condizione di subalternità è attestata dallo stesso Barbaro che, introducendo la sua traduzione del volume Il soggetto cinematografico del regista e teorico sovietico Vsevolod Pudovkin, scriveva nel 1932: «c’è purtroppo da deplorare che all’Ennerreffe [Nouvelle Revue Française] abbiano idee così poco chiare in fatto di estetica e che, di conseguenza, anche quelle dei nostri intellettuali siano ancora un po’ confuse» (U. BARBARO, Prefazione, in V. PUDOVKIN, Il soggetto cinematografico, Roma, Le Edizioni d’Italia, 1932; poi, con il titolo Pudovkin e la teoria cinematografica, in BARBARO, Il film e il risarcimento marxista dell’arte, cit., p. 4).

[49] OJETTI, Lettera aperta a John Dos Passos, sulla povera America, cit., p. 210.

[50] Cfr. F. ANDREAZZA, Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 140-182.

[51] «Coincide questo “nuovo realismo” con una tendenza di tutta la letteratura? Lascio ai più competenti di me ricercare i fatti significativi del nuovo indirizzo che, secondo il mio modesto avviso, va delineandosi nell’arte narrativa mondiale» (E.M. MARGADONNA, Nuove tendenze del cinema americano, in «Comoedia», XIV, 1932, 4; poi in ID., Il cinema negli anni Trenta, cit., p. 161).

[52] E.M. MARGADONNA, Il realismo nel cinema europeo, in «Comoedia», XIV, 1932, 6; poi in ID., Il cinema negli anni Trenta, cit., p. 165.

[53] Ivi, p. 166.

[54] Ivi, p. 168.

[55] Barbaro scrisse che si sentiva «una specie di perdigiorno» nelle vesti di scrittore, mentre avvertiva il desiderio «di un lavoro vero, come tutti gli altri». Inoltre lamentava il fatto che l’attività letteraria non si rivolgesse che a «un pubblico limitatissimo». «E, siccome esisteva, già da parecchi decenni un’arte che, per sua natura, necessita di un pubblico immenso, smisi di colpo e quasi del tutto, la mia precedente attività e presi ad occuparmi di quest’arte affascinante, che è il film». Barbaro dichiara insomma di aver abbandonato lo stile di vita tradizionale dello scrittore per adottarne uno adatto alla società di massa, a contatto con un medium che ha un maggiore impatto sociale (U. BARBARO, Per diventare critici cinematografici, in «Vie nuove», V, 1958, 13, pp. 38-39). Per un approfondimento: F. ANDREAZZA, Prima della specializzazione. La traiettoria di Umberto Barbaro dalla letteratura al cinema, in Figure della modernità nel cinema italiano (1900-1940), a cura di R. DE BERTI e M. LOCATELLI, Pisa, ETS, 2008, pp. 315-331. 



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