Nel 1936, in una breve storia del documentario in Italia, Umberto Barbaro rievocò la “battaglia” della sua generazione, coagulata attorno alle riviste dirette da Alessandro Blasetti, per il rilancio della produzione cinematografica nazionale. Anche se ne sopravvalutava i meriti, considerandola allorigine della decisione di Stefano Pittaluga di rimettere in attività nel 1930 la casa di produzione Cines, non si può non riconoscere la cesura che tale battaglia segnò con il passato. Per una parte della generazione nata allinizio del secolo, il cinema non era più solo un gagne-pain: veniva sempre più identificato come una posta culturale in gioco cui dedicare energie e talento. Barbaro accennava alle «vivaci polemiche cinematografiche» tra i «vecchi elementi» emigrati in Germania durante la crisi e richiamati in patria da Pittaluga (da Guido Brignone a Nunzio Malasomma, da Amleto Palermi a Gennaro Righelli) e i «giovani aspiranti alla regia». Negli anni seguenti questi ultimi si misero alla prova nel genere documentario, entrato nei loro interessi non solo per motivi pratici (offrire ai produttori un saggio del proprio talento), ma anche per ragioni estetiche. Il “genere” soddisfaceva da un lato «il bisogno, sentito ovunque, di rendere sempre più concreta la visione cinematografica», dallaltro «quella tendenza della generazione ad una costante oggettività». Secondo Barbaro quindi nei primi anni Trenta le quotazioni dello stile realistico erano in crescita. In queste pagine vedremo come egli si confrontò con questo nuovo orientamento estetico nella pratica cinematografica (con il documentario Cantieri dellAdriatico, 1933), ma prima ancora in quella letteraria (nel romanzo Luce fredda, 1931). Egli era allora anzitutto uno scrittore. 1. Nel 1930 Giovanni Titta Rosa sosteneva che se si fosse chiesto a un giovane scrittore cosa stesse facendo in quel momento, avrebbe risposto: «sto scrivendo il romanzo». Perché «scrivere prima o poi un romanzo è cosa dobbligo per un giovane scrittore italiano». Se negli anni precedenti tale genere non aveva quasi cittadinanza nel campo letterario nazionale – era considerato «una specie, alquanto decaduta, di arte applicata» –, la nuova generazione stava mettendo in discussione la gerarchia dei generi. Elio Vittorini, esponente di «Solaria», riconosceva i suoi modelli nella purezza linguistica della rivista «La Ronda» (1919-1923) e nella letteratura francese contemporanea, soprattutto in Proust. Ma il fronte giovanile non era compatto, come dimostra il romanzo desordio di Alberto Moravia, Gli indifferenti (1929). Recensito negativamente su «Solaria» e disprezzato da Vittorini, suscitò un notevole scandalo per limpietosa descrizione delle convenzioni borghesi e diventò un modello per i giovani letterati antiborghesi riuniti attorno a riviste quali «Il Saggiatore» e «LUniversale». Seguaci di Giuseppe Bottai, questi ultimi erano sprezzanti verso il frammentismo e larte per larte. Erano assertori del romanzo realistico-moralistico. A un certo punto si accese una disputa fra costoro e gli eredi della «Ronda» o, per usare le etichette di allora, fra “contenutisti” e “calligrafi”. Quella che Antonio Gramsci liquidò come «una polemica di piccoli e mediocri giornalisti, più che i “dolori del parto” di una nuova civiltà letteraria», può essere invece letta come lesplicitazione di una dinamica interna al campo letterario. Ad aprire la polemica, nelle vesti di portavoce dei contenutisti, fu Eurialo De Michelis, che aveva esordito nel 1931 con il romanzo Adamo. Nel maggio 1932 pubblicò un articolo, La Ronda e noi, dove affermava lesistenza di una nuova generazione di scrittori che si contrapponeva a quanti si rifacevano alla lezione di quel periodico. La contesa non era animata da divergenze politiche: la posta in gioco era tutta interna al campo letterario e la battaglia era condotta da una frazione della nuova generazione che puntava a scalzare lorientamento estetico più prestigioso e a imporsi in quel microcosmo sociale. In questottica va letta anche la più circoscritta polemica sul realismo documentario, la cui legittimità transnazionale era stata segnalata, pur senza entusiasmo, da Corrado Alvaro nel 1929: «chi confronti la letteratura della Russia, della Germania, dellAmerica, rimarrà sorpreso dalla stessa tendenza realistica e documentaria». Furono però le traduzioni di Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin nel 1931 e di Manhattan Transfer di John Don Passos nel 1932 a innescare la disputa. Le reazioni furono perlopiù negative, da Titta Rosa a Ugo Ojetti, il massimo rappresentante del volto borghese della cultura fascista. Non mancarono comunque le prese di posizione favorevoli. Si pensi al giovane editore Valentino Bompiani che, nel marzo 1934, prendendo come modelli Döblin e Don Passos, invitò i narratori a strutturare i romanzi come i «libri moderni di sole fotografie intorno ad un unico soggetto, nei quali lautore non intervenga più per il racconto, che è documentario, ma solo per il taglio e per gli accostamenti, che diventano linterpretazione dei fatti». A questa audace concezione del romanziere come montatore di documenti replicò disgustato Massimo Bontempelli, lesponente più autorevole della corrente modernizzante degli scrittori fascisti, inventore della fortunata etichetta “realismo magico”. Riprendendo il discorso nel gennaio successivo, Bontempelli era preoccupato per linclinazione sempre più accentuata – sia in ambito letterario che cinematografico – verso il «documentarismo puro». Egli riteneva affascinati da questa opzione estetica soprattutto i giovani, anche se in numero esiguo. Moravia, che gravitava in quellorbita, prese le distanze da quella tendenza letteraria. Anzi, facendovi rientrare anche Proust, mise nello stesso calderone documentaristi e scrittori solariani, sottolineando la sua autonomia estetica. 2. Barbaro non partecipò a quella polemica, ma aveva già avuto modo di esprimere la sua idea di letteratura. Due anni prima aveva pubblicato un articolo sul settimanale «Quadrivio» (su cui scrivevano Bontempelli e Moravia), dove registrava il suo (unico) romanzo Luce fredda fra «i migliori romanzi moderni» (accanto alle opere dei “neorealisti” russi, di Alvaro, Moravia, ecc.). Non solo, osservava che «veramente edificante è lo sfratto che la vita romanzata vuol dare al romanzo e il “documentario” al film dinventiva». La «vita romanzata» era lequivalente letterario del documentario cinematografico? Ma allora perché parlare di vita romanzata anziché documentata? Prosegue Barbaro: «più vita dentro larte, finché, tremano i timiduzzi dellarte pura, le due cose combaceranno e addio belle opere darte mie!». Pur riconoscendo subito dopo lillusorietà della prospettiva («non combaceranno mai»), rimane il fatto che la vita doveva penetrare nella narrazione letteraria al punto da ridurre al minimo lelemento finzionale. Ci torneremo. Osserviamo intanto che facendo letteratura egli intendeva «ricostringere nelle angustie della quotidianità il lettore, per dargli lansia insopprimibile di uscire, di farsi migliore, di trasformare sé stesso e il mondo, con rinnovata e vigile fiducia nelle proprie forze con un ardore sempre più maschio per la propria opera». La letteratura doveva documentare la vita delluomo comune per persuaderlo a desiderare un grande cambiamento sociale. Uno strumento di lotta politica. Barbaro era marxista ma non avrebbe usato parole diverse se fosse stato un fascista di sinistra. Le sue opinioni estetiche e politiche non erano solo delle scelte intellettuali, bensì il prodotto di una specifica traiettoria sociale. Barbaro nacque nel 1902 ad Aci Trezza, in Sicilia. Perse i genitori (il padre era probabilmente un insegnante di matematica) durante il terremoto di Messina nel 1908 e si trasferì a Roma, con una zia e la sorella Antonietta. Qui frequentò il ginnasio, ma lo dovette abbandonare presto per lavorare allAzienda Tranviaria di Roma, dove venne a contatto con la classe popolare. Questi poche notizie spiegano la sua inclinazione sovversiva. Un ambiente familiare colto che ha subito un declassamento comporta spesso un senso di malessere sociale, di precarietà che rende gli individui propensi alla rivolta e a prese di posizione arrischiate. Fin dal ginnasio Barbaro si legò ad alcuni coetanei con i quali mantenne una salda amicizia e una stretta collaborazione nelle imprese culturali. Alludo a Paolo Flores, a Bonaventura Grassi e a Vinicio Paladini con in quali condivideva una difficile condizione economica. Insieme a loro e a Dino Terra si avvicinò agli ambienti della sinistra anarchica e comunista romana. Nel 1927 fondò lImmaginismo, un movimento destinato alla marginalità, dato che la sinistra rivoluzionaria – che in quel periodo vedeva costantemente ridursi i margini di manovra – non mostrava attenzione alle sperimentazioni artistiche rappresentate in Italia dal Futurismo, sempre più vicino al regime fascista. Nonostante le difficoltà, Barbaro, leader del movimento, attaccò le figure dominanti della riflessione estetica (Croce) e dellavanguardia (i futuristi) considerandole fautrici, assieme allormai “antiquato” DAnnunzio, di unestetica sorpassata: «i punti di contatto tra crocianesimo, dannunzianesimo e futurismo sono il disinteresse contenutistico ed il frammentismo». Quella di Barbaro era una battaglia estetica per il contenutismo. Contro il formalismo. Contro il frammento. A favore del romanzo. Una battaglia in cui gli avversari non erano solo quelli già convocati ma comprendevano anche gli eredi della «Ronda». Come si è visto, però, di lì a qualche anno i sostenitori del romanzo lo fecero divenire un genere molto apprezzato dai giovani letterati. In una congiuntura così favorevole, Barbaro tentò di affermarsi come romanziere: nel 1931 pubblicò Luce fredda. 3. Roma, 1928. Sergio è un intellettuale sui trentanni anni dalla «vita riflessiva e triste». Campa di una magra rendita e abita in squallide camere daffitto: prima presso uninfelice famiglia piccolo-borghese, poi da un vecchio che vive con una figlia squinternata e un figlio destinato al suicidio. È insofferente verso la morale borghese, ma nonostante i buoni propositi non riesce a liberarsene. I suoi atteggiamenti da «riformatore del mondo» non si risolvono in azioni, nemmeno quando, alla fine del romanzo, sembra essere cambiato. «Ed ecco, – pensa Sergio – io mi getterò nellazione; costi quel che costi, anche se illogica, anche se incomprensibile, vedremo chi arriverà prima, se io o la realtà… Dubitò ancora di sbagliare e un fiotto di ironia amara gli venne alle labbra». Sergio è un “inetto”, personaggio-chiave dei più importanti romanzi italiani del decennio precedente: da Rubè (1921) di Giuseppe Antonio Borgese alla Coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, fino, soprattutto, a Gli indifferenti di Moravia. Il romanzo tuttavia non è incentrato sul protagonista: i capitoli ruotano attorno alle vicende di diversi personaggi, dagli amici agli affittacamere, impedendo al lettore di affezionarsi a Sergio. Non solo. In Luce fredda il processo di identificazione non è favorito dalla presenza di un narratore che guarda da fuori i personaggi, giudicandoli e offendendoli, facendo illazioni su ciò che pensano, riassumendo quello che dicono; oppure penetra nella loro soggettività dando voce ai loro pensieri o, ancora, si assenta, lasciando spazio a lettere o pagine di diario senza commenti. Un dispositivo narrativo che ostacola lidentificazione con il racconto, inducendo a guardare alla vita dei personaggi in modo “defamiliarizzato”. Tale sensazione è rafforzata dalluso di una lingua “grigia”, antitetica a quella aulica allora dominante nella letteratura italiana. Una lingua priva di risvolti connotativi, che presenta brutalmente dei contenuti a un lettore spinto ad affrontare questo testo con occhi straniati. Difficile non pensare allo Šklovskij del saggio Larte come artificio (1917): allarte come via duscita dallautomatizzazione prodotta dalle abitudini, allarte che esiste «per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra», e che per ottenere questi effetti «si serve di due artifici: lo straniamento delle cose e la complicazione della forma». Se lidea di arte come artificio non poteva piacere a Barbaro (aveva liquidato in una riga il formalismo russo), si ha limpressione che fosse convinto che complicando la forma (non sul piano della sintassi, ma su quello della focalizzazione e della struttura dellopera) si riuscisse a ottenere un effetto di straniamento in grado di rivelare al lettore con occhi nuovi la vita che scorre nellopera. Il procedimento dello straniamento non è un fenomeno solo novecentescCorso, R. Mugellesi, G. Rosati, Torino, Einaudi, 1988, pp. 130-133. Come ha mostrato Carlo Ginzburg, se ne possono rintracciare esempi già nella tarda antichità, a partire da Marco Aurelio. Nel periodo storico che qui interessa troviamo tale procedimento in Döblin. Barbaro non lo annoverava fra i migliori romanzieri moderni, tuttavia mostrava di apprezzarlo apparentandolo ai neorealisti russi, dei quali amava la «lirica evocazione di stati danimo» e la «moralità efficiente». Inoltre, essendo traduttore dal tedesco (oltre che dal russo), negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Luce fredda avrebbe volto in italiano Glückliche Menschen e Der Scharlatan di Hermann Kesten, scrittore che in Italia veniva assimilato sul piano stilistico a Döblin. Tali opere, pur essendo considerate esponenti della famigerata Neue Sachlichkeit, erano capaci, come scriveva Bonaventura Tecchi, di far nascere dalla «realtà più brutale […] “evocazioni poetiche” strane, modernissime». Come il Döblin di Berlin Alexanderplatz, Barbaro ambienta la sua storia in quegli anni. Pone in conflitto dimensione individuale (protagonista) e collettiva (amici e conoscenti). Assembla i capitoli con una tecnica riconducibile al montaggio cinematografico. Alterna narrazione e documenti e si serve di un narratore ingombrante che interviene nel racconto. Pur senza laudacia dello scrittore tedesco, con questi espedienti egli produce un effetto di straniamento nel lettore. Questultimo non si trova tra le mani un congegno narrativo “digestivo”, mirato allintrattenimento, ma una distaccata rappresentazione della vita. Qualche anno prima Barbaro plaudeva allopera dello scrittore espressionista e comunista Ernst Toller quale «specchio vivo e fedele dei moti di tutta una generazione, documento della sua attività e soprattutto mezzo delle sue conquiste». Grazie al procedimento di defamiliarizzazione, Luce fredda sembra voler essere lo “specchio vivo e fedele” della stasi di una generazione, il documento della sua inattività. Un romanzo in funzione dellazione, nonostante il clima politico. Questo “documento” non doveva configurarsi come un romanzo “documentario” al pari di quelli sovietici di cui più avanti Barbaro avrebbe parlato in modo tiepido, né come qualcosa di simile al già menzionato Manhattan Transfer, edito lanno dopo in italiano ma già noto tra gli addetti ai lavori: unopera che, come ha scritto Mario Vargas Llosa, intende «comunicare al lettore la sensazione di stare direttamente davanti alla vita, al mondo oggettivo di quanto narrato senza la mediazione della letteratura e dellautore». Per Barbaro non era un uso radicale della narrazione oggettiva a dare «al lettore la sensazione di stare direttamente davanti alla vita»: quel compito spettava al cinema. 4. Barbaro aveva iniziato a occuparsi di cinema nel 1928, pubblicando su riviste specializzate collegate a Bontempelli e Anton Giulio Bragaglia, un altro leader dellavanguardia filofascista, come è noto. Il marxista Barbaro e questi intellettuali di regime pensavano che larte dovesse occupare un ruolo centrale nella società di massa e che il cinema soddisfacesse appieno queste esigenze. Nel 1932 lautore di Luce fredda trovò impiego nellufficio soggetti della Cines, diretta dallaprile di quellanno sino al novembre successivo da Emilio Cecchi. Fra le varie iniziative di Cecchi ci fu la produzione di una serie di cortometraggi documentari affidati a giovani registi, anche esordienti. È il caso di Barbaro. Affiancato dal navigato direttore della fotografia Ubaldo Arata, egli nel 1933 diresse Cantieri dellAdriatico, ambientato negli stabilimenti navali di Monfalcone e nelle officine delle fonderie SantAndrea di Trieste. Il “corto” inizia con panoramiche in campo lungo di una dolina del Carso, poi di un muro bombardato durante la prima guerra mondiale e infine del borgo operaio di Monfalcone. I movimenti di macchina poco fluidi sono spie di uno stile disadorno che caratterizza il documentario. Si prosegue mostrando il lavoro degli operai nei cantieri, lasciando che siano i rumori delle macchine a dare forma al paesaggio sonoro in cui si fa spazio la voce over di uno speaker. La composizione delle inquadrature, a parte un paio di casi, non è estetizzante ma funzionale alla descrizione degli oggetti, e il montaggio, tutto a stacchi, è pressoché privo di raccordi. Tre anni dopo, Barbaro pubblicava su «Quadrivio» la già citata breve storia del documentario in Italia. Larticolo è dedicato in larga misura alla serie di cortometraggi promossa da Cecchi suddivisa in due gruppi: da un lato i documentari «prevalentemente tesi a una ricerca stilistica»; dallaltro quelli in cui «la preoccupazione formale fu subordinata ad una ideazione del contenuto». Questa convenzionale classificazione acquista significato se viene considerata alla luce di quanto si è detto a proposito del dibattito letterario di quegli anni. Barbaro applica al campo cinematografico delle categorie diffuse in quello della letteratura, cercando di dimostrare la sincronizzazione tra i due ambiti e la coerenza della sua poetica. Per chiarire la sua appartenenza al fronte contenutista, spiega che in Cantieri dellAdriatico «la preoccupazione costante fu che i mezzi tecnici impiegati fossero evidenti il meno possibile. Inquadratura piana, fotografia semplice, a luce naturale, montaggio quasi elementare». La sobrietà delle inquadrature e la noncuranza per i raccordi danno allo spettatore la sensazione, straniante, di avere a che fare con dei frammenti di bruta realtà, di vita documentata. 5. La scelta di adottare uno stile oggettivistico in Cantieri dellAdriatico (e non in Luce fredda) si potrebbe spiegare con lalto grado di indessicalità dellimmagine cinematografica, con lo stretto rapporto che, a differenza delle parole, essa instaura con la realtà rappresentata. Ma è inadeguata questa interpretazione “essenzialista”, legata alle diverse proprietà dei media. Per comprendere le scelte di Barbaro occorre rifarsi ai campi letterario e cinematografico, considerando lo spazio dei “possibili” che nei primi anni Trenta si presentava a un esordiente sia romanziere sia cineasta. Nel campo letterario, nonostante le preoccupazioni di Bontempelli, il realismo documentario occupava una posizione marginale. In Italia questo dipendeva dal consolidato sospetto verso limitazione impersonale del visibile e dalla scarsa influenza culturale esercitata da Germania, Russia e Stati Uniti (rispetto, ad esempio, alla Francia). Le parole di Ojetti su Dos Passos restituiscono il clima dellepoca: definendo tale realismo «solo una perfetta macchina di presa», egli afferma che i suoi romanzi sono «lopposto di quello che si scrive e che sè scritto e che, oso dire, si scriverà mai da noi italiani». Anche se avesse voluto pubblicare un romanzo documentario, Barbaro non godeva di unautorevolezza tale da consentirgli unefficace opposizione a questo status quo. Diverso il caso del cinema: un campo culturale allo stato nascente, più sensibile alle influenze straniere. Se alla metà degli anni Venti il rapporto con la Francia si era rivelato decisivo per la sua legittimazione artistica da parte dei letterati, la cinematografia francese non godeva del prestigio di quelle russa, tedesca e statunitense. Che in quegli anni, se si considera la produzione più apprezzata dalla critica, propendevano per il realismo documentario. Una testimonianza si trova negli scritti di Ettore Maria Margadonna: critico aggiornato sul dibattito internazionale, autore nel 1932 della prima storia del nuovo medium pubblicata in Italia. In un articolo di quellanno sulle tendenze del cinema americano, Margadonna le riconduceva al “nuovo realismo”, indirizzo mondiale di tutte le arti narrative, particolarmente accentuato, quantomeno in ambito cinematografico, in Europa: «Che il realismo cinematografico sia la tendenza più vitale del cinema europeo sembra un fatto assodato: tutte le volte che il cinema, sdegnando la cartapesta, le corazze, gli elmi e le durlindane, ha preso contatto con la vita difficilmente ha fallito al suo scopo. La storia del cinema tedesco, e del cinema russo, cioè delle due nazioni che hanno dato i maggiori contributi e le decisive esperienze, è una perentoria dimostrazione.» La dimostrazione per il cinema russo era data da Tempeste sullAsia (1928) di Vsevolod Pudovkin, Il vecchio e il nuovo (1929) di Sergej M. Ejzenštejn, La terra di Aleksandr P. Dovženko (1930), Il cammino della vita (1931) di Nikolai Ekk; nonché dalle teorie e dai film di Dziga Vertov, che «ha portato fino allestreme conseguenze il realismo cinematografico». Per la Germania, che aveva anticipato questo orientamento, Margadonna citava La strada (1923) di Karl Grune, Varieté (1925) di Ewald A. Dupont, Lultima risata (1924) di Friedrich W. Murnau e i film di Georg W. Pabst: dalla Via senza gioia (1925) alla Tragedia della miniera (1931). Questultimo, secondo il critico, influenzato dai registi russi perché come loro era partito «dal documento per arrivare alla narrazione». Naturale che la tendenza oggettivistica della generazione di Barbaro fosse più legittimamente esprimibile attraverso il cinema, cui si dedicò con crescente interesse negli anni seguenti, a scapito dellattività letteraria, diventando, come è noto, un acceso sostenitore dello stile realistico, principalmente nelle vesti di critico, teorico e docente del Centro Sperimentale di Cinematografia.
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