1. Intorno a un anticipato ritiro dalle scene La carriera di Eduardo Scarpetta, esemplare paradigma di successo, fama e ricchezza nel mondo teatrale napoletano tra lultimo trentennio dellOttocento e i primi anni del secolo successivo, sinterruppe nel 1909, per espressa volontà dellattore. Nellautobiografia egli giustifica questa scelta in un dialogo immaginario con un amico che gli chiede ragione dellabbandono. Ed egli risponde di aver così voluto dare spazio al figlio ed erede teatrale, Vincenzo; di aver prevenuto lineluttabile allontanamento da parte del pubblico; di essersi liberato, infine, del triplice impegno di autore-attore-capocomico ormai diventato troppo logorante. Motivi certamente tutti attendibili, ma linterlocutore, insoddisfatto, incalza inducendo Scarpetta a rievocare un triste evento il cui raggio dombra vela le pagine conclusive dellautobiografia: «Ma tu» ribatté lamico «non hai conosciuta che una volta – una volta sola! – lamarezza dellinsuccesso!». Vero! Verissimo! Fino alla malaugurata sera, in cui andò in iscena il mio disgraziatissimo Il figlio di Iorio, io non conoscevo, infatti, che le sole ebbrezze dei miei trionfali successi! Ma, appunto per questo, il ricordo di quella serata, rimarrà incancellabile, eterno nella mia mente e nel mio cuore! Il figlio di Iorio – parodia “presepiale” in due atti in versi napoletani della tragedia “pastorale” in tre atti La Figlia di Iorio, verseggiata in lingua italiana, di Gabriele DAnnunzio – andò in scena al Real Teatro Mercadante di Napoli il 3 dicembre 1904 mentre la compagnia Maggi replicava il testo dannunziano al Teatro Politeama della stessa città. Nonostante la grande attesa, il sipario del Mercadante fu calato precipitosamente allinizio del secondo atto a causa della bufera di fischi e delle contestazioni violentissime: un vero fallimento. La delusione e il risentimento con cui Scarpetta rievoca linsuccesso farebbe presumere che egli si fosse subito allontanato dalle scene. E invece no, continuò a recitare per altri cinque o sei anni chiudendo la sua vita teatrale poco dopo la fine della causa intentatagli da Gabriele DAnnunzio e Marco Praga (maggio 1908) con laccusa di contraffazione e riproduzione abusiva della Figlia. Dopo vari rinvii, il tribunale scagionò Scarpetta, che infatti se ne compiace ripetutamente nelle memorie, presentandosi come il grande vincitore. Ma allora, davvero, perché abbandonò le scene? E perché Il figlio di Iorio insinuò in lui quel senso di angosciosa inquietudine? Lipotesi che avanziamo è che Scarpetta, non certo nuovo ad attacchi e polemiche durante tutta la sua carriera, realizzò proprio nelle fasi dibattimentali tutta la fragilità e la gravità della situazione in cui versava il suo teatro. I fondamenti dellipotesi qui avanzata affondano nel retroterra artistico di questa eccezionale figura teatrale su cui occorre soffermarsi con qualche sondaggio di verifica. 2. Strategie di sopravvivenza: il binomio autore-attore Pur avviatosi alla carriera professionale di attore presso il teatro San Carlino, nel 1868, per autentica passione e con singolare intraprendenza, Eduardo Scarpetta colse tuttavia il suo primo successo teatrale in qualità di autore componendo Pulcinella creduto moglie di un finto marito, una farsa coerente al repertorio della tradizione teatrale napoletana, trattata con garbo ed efficacia comica sufficienti da esser messa in scena al Teatro Partenope nel 1870 da Raffaele Marino, il Pulcinella della compagnia diretta da Gaetano Pastena dellimpresa Falanga presso la quale Scarpetta fu scritturato tra il 1869 e il 1872. Nellautobiografia egli affermò che al termine delle faticose giornate di lavoro teatrale, tornato a casa, dopo cena, cominciava a scrivere: era nata in lui «la fregola del commediografo». Tale “fregola” non si manifestò come ghiribizzo, come sembra voler far credere, né come alternativa al lavoro dattore, ma germogliò in simbiosi con lassimilazione quotidiana del mestiere teatrale e sullimpellenza di affermarsi come attore comico. La ragione che spinse Scarpetta a presentare al capocomico quella sua farsa, Pulcinella creduto moglie di un finto marito, non mirava, dunque, a imboccare una via professionale diversa dalla recitazione, ma piuttosto a segnalarsi agli occhi dellimpresa, a emergere dalloscurità di un ruolo assolutamente marginale e secondario stabilito contrattualmente nella scrittura, intendendo così evidenziare le proprie qualità, la convenienza per la compagnia di mantenerlo entro le proprie fila e in particolare le potenzialità del suo talento comico. In effetti le regole dingaggio delle sue prime scritture – conformi allo standard prevalente fra le compagnie dellepoca non soltanto napoletane – erano principalmente finalizzate agli interessi dellimpresa, esigendo dallo scritturato nel ruolo di «secondo filo» totale disponibilità di fronte a qualsiasi necessità imposta dal repertorio della compagnia: dal canto alla danza, dalla recitazione di poche battute in un dramma, farsa o commedia, alla pantomima fino a «essere sospeso in aria». Regole che imponevano di saper far tutto, non permettendo al giovane attore di scegliere e tanto meno di coltivare il genere nel quale si sentiva più versato e in cui sarebbe poi, semmai, diventato bravo. Scarpetta iniziò pertanto a recitare in parti marginali nelle più diverse mansioni. La varietà degli impieghi richiedeva lo sviluppo di una molteplicità di capacità teatrali e la veloce assimilazione delle tecniche. La vita di compagnia trasmise al giovane leredità variegata dei linguaggi scenici tradizionali educandolo allarte mediante esempi e pratica, costringendolo a capire in qual modo stabilire la comunicazione con il pubblico. Nonostante levidente intenzione di catturare il lettore delle proprie memorie mediante una narrazione autoironica e leggera, indugiando non poco sulle “papere” giovanili per ingraziarsene la benevolenza, Scarpetta non riesce a nascondere un certo distacco per quei primi incarichi di palcoscenico, linsofferenza nei confronti di un repertorio drammatico di stampo romantico realizzato con scenografie di cartapesta, con costumi e trucco inadeguati. Il teatro che realizzò successivamente, nel 1880, fu infatti un nuovo San Carlino, restaurato, elegante, con scenografie e costumi decorosi. Gli anni del duro praticantato di palcoscenico crearono in lui listanza della scrittura quale strategia di riscatto e di riconoscimento del proprio talento comico. Lexploit dautore gli consentì, infatti, di mettersi in luce agli occhi del capocomico: quella nuova farsa, Pulcinella creduto moglie di un finto marito, dopo qualche isolato rodaggio di palcoscenico e con i conseguenti correttivi, venne alla fine inserita stabilmente in repertorio. Nelle memorie Scarpetta racconta di essere stato presentato al pubblico soltanto in qualità di autore di quella farsa, portato in palcoscenico per ben due volte «dai quei bravi comici che erano stati tutti migliori collaboratori di quel mio primo successo». Lazione riequilibratrice della scrittura sulle défaillances della scena produsse infine i frutti desiderati anche sul versante della recitazione: fu proprio dopo questo successo dautore, stando a Scarpetta, che il suo talento comico di attore fu preso in considerazione allinterno della compagnia. Fu da quella sera che Gaetano Pastena e Raffaele Marino presero a volermi bene, e mi appiopparono il nomignolo di comicuccio. Per essi, io rappresentavo, fin da allora, una giovane speranza del teatro comico, mentre per Antonio Gagliardi non fui mai altro che la vera negazione dellarte drammatica. Linizio del suo successo teatrale come attore è di poco successivo e si lega, come è noto, alla rappresentazione di una vecchia farsa di repertorio, Pulcinella spaventato da un cadavere di legno, appositamente scelta da Raffaele Marino onde valorizzare Scarpetta nel ruolo di “mamo”, un giovanetto scapestrato, impulsivo, ora sciocco, ora furbetto col nome di Felicello. Nelle memorie del 1922, Scarpetta volle fissare il punto di partenza del processo creativo-professionale che lo portò al successo nel carattere di questo personaggio, come a sottolineare che la sua riforma teatrale affondasse saldamente le proprie radici nella tradizione napoletana. Narrò, infatti, con imprevedibili consonanze pirandelliane, che studiando la parte, Felicello sincarnò improvvisamente innanzi ai suoi occhi: Un monellaccio lacero, affamato, pallido e tremante, sale a quattro a quattro i gradini. Qualcuno lo insegue, ed egli nasconde sotto la giacca una pizza rubata. Cerca un rifugio, un nascondiglio, non sa più dove cacciarsi, e mi capita in camera allimprovviso, come una palla, come una bomba. Il libro mi cade dalle mani. Io riconosco quel ragazzo. Do un grido: «È lui… È lui!». E così, in quella notte memoranda, io conobbi il mio amico… Feliciello Sciosciammocca. La farsa, tramandata nelle memorie col titolo Felicello Sciosciammocca mariuolo de ‘na pizza, andò in scena il 7 giugno 1871 al Teatro Partenope e riscosse un buon successo per effetto dellinterpretazione dello Scarpetta che fece di quel misero scugnizzo della tradizione un personaggio diverso, ben vestito, viziatello, tutto mimica ed energia, sperimentando gli effetti della comicità ora con la connotazione della stoltezza ora con quella della furberia. Gli esiti furono tali da riaprirgli le porte del San Carlino, lambìto traguardo cui egli guardava costantemente anche durante la militanza al Partenope, scritturato tra gli attori della compagnia di Giuseppe Maria Luzi, capitanata da Antonio Petito, il più famoso Pulcinella del teatro napoletano. 3. Il praticantato drammaturgico a fianco di Antonio Petito Gli anni della scrittura al San Carlino (1872-1877), della fuoruscita, del temporaneo rientro e dellultimo abbandono girovagando per vari teatri napoletani e italiani (1877-1880) fino alla riconquista del San Carlino in qualità di capocomico (1880) sono stati dettagliatamente ricostruiti e qui intendiamo soffermarci soltanto su alcuni aspetti della formazione dellautore-attore senza perdere di vista il ruolo determinante della complementarità, cui si è già fatto cenno, tra interpretazione e scrittura. Diversamente dal Partenope, il San Carlino apprezzò dapprima lo Scarpetta attore e poi scoprì lautore, facendolo debuttare nella farsa che lo aveva reso celebre: Pulcinella spaventato da un cadavere di legno con Felicello mariuolo de ‘na pizza (quasi certamente con qualche ulteriore aggiustamento nel copione oltre che nel titolo) e impegnandolo, poi, in Pulcinella solachianello arrozzuto (maggio 1872), una vecchia farsa di repertorio, riammodernata dal Petito sulle misure del giovane buffo scarpettiano, Felice Sciosciammocca. La militanza a fianco del più importante Pulcinella napoletano, Antonio Petito, costituì per il giovane Scarpetta unesperienza formativa fondamentale sotto tutti i punti di vista e in particolare quello della scrittura. Il quinquennio della formazione scarpettiana sotto Petito comportò in primo luogo lacquisizione del punto di vista della comicità come parametro esclusivo della composizione. Rispetto ai valori etico-ideologici – e rigidamente livellatori sul piano linguistico – della commedia sociale, veicolati dallimpegno unitario del governo della Destra storica, la drammaturgia sancarliniana aveva risposto con un profluvio di testi comici frutto della esperienza dei suoi attori-autori. Più precisamente: Quasi sempre, si trattasse di parodia o di satira, di libero istrionismo o di leggera moralità, Petito aveva trasformato loccasione testuale in unoccasione carnevalesca, la cui fonte ispiratrice e ideologica risiedeva nella stessa tecnica dattore: gli oggetti, i personaggi, i fatti e le idee, quando entravano in contatto con il suo metamorfismo, risultavano denigrati distinto. Al di là della parabola didattica, lautonomia del mestiere comico garantì a questo ultimo Pulcinella un antidoto sicuro contro laccettazione passiva della tradizione alta, che pure era stata sempre la naturale matrice del teatro dialettale napoletano: fu la versione laica dellambigua resistenza antiborghese di Mastriani. Lottica autonoma del mestiere comico fu lacquisizione più importante e costituì la base permanente del profilo dautore di Scarpetta, il quale poi simpadronì via via delle tecniche e della velocità di composizione per laggiornamento costante del repertorio; divenne esperto nellattingere al giacimento comune della tradizione teatrale partenopea rimontando intrecci, trovate, situazioni collaudate; imparò a rielaborare originalmente tali materiali basandosi sulle risorse attoriche a disposizione, comprendendo il giusto modo di relazionarsi con le gerarchie interne alla compagnia e accordando le non facili esigenze dei singoli attori. Si persuase, così, che la dinamica del libero scambio di trame, intrecci, motivi comici, rientrasse nella normale prassi teatrale e tale persuasione, assunta poi come una sorta di diritto consuetudinario, lo indusse, più tardi, come si vedrà, a scontrarsi con le posizioni dagli autori-letterati, esigenti difensori dellesclusiva del diritto dautore. Negli anni, invece, in cui operavano Petito e la folta cerchia di autori-attori del teatro dialettale, la paternità di un testo non era percepita come vincolo: ogni testo, soprattutto se di successo, provocava emulazione competitiva, parodia, rielaborazione per nuove e simili messe in scena. Per Scarpetta Petito creò il nuovo tipo “borghese” di Don Felice Sciosciammocca allo scopo di sfruttare il contrasto comico con la propria maschera, sempre guizzante di invenzioni buffonesche, ma popolarmente saggia e generosa. Sotto questo aspetto, ossia la caratterizzazione sociale del personaggio, Petito sembra aver avuto il merito di aver indirizzato il giovane Scarpetta verso una tipizzazione meno distante dalla realtà storica e sociale contemporanea. Il nuovo protagonismo della classe borghese della drammaturgia scarpettiana troverebbe così già in Petito un modello di riferimento efficace nel corso del lungo e non sempre idilliaco tirocinio teatrale. Un apprendistato che già nel 1872 trasformò il buffo Sciosciammocca in un attore di successo e lo collocò in una posizione di notevole prestigio allinterno della compagnia, alla pari degli altri colleghi più anziani e rodati, suscitando molta invidia e malanimo. Nellautobiografia Scarpetta narrò con dovizia di particolari la guerra mossagli dai colleghi ma, intanto, nel 1873 recitava nellAida dinta casa ‘e Donna Tolla Pandola, una delle parodie più famose di Petito, assimilando tecniche dautore e controllo del quadro dinsieme, in virtù di un ruolo relativamente marginale. Già largomento della parodia induce a comprendere la variegata composizione sociale del pubblico sancarliniano di questa epoca: non più univocamente popolare, ma comprensiva di ampie rappresentanze dellaristocrazia, della buona borghesia e della media e piccola borghesia. Il re stesso, Vittorio Emanule II, si recò ripetutamente al San Carlino, tra il 1874 e il 1876, per assistere alle prodezze di Petito e Sciosciammocca. Scarpetta non si lasciò sfuggire levoluzione sociale del pubblico assecondata dal repertorio petitiano e comprese limportanza della tournée, partecipando ai viaggi della compagnia che esportava oltreconfine i propri successi. Ancora da Petito Scarpetta apprese a sfruttare le novità del teatro francese. Linterprete di Pulcinella presentò la sua Figlia di Madama Carnacotta del 1874 (parodia della celebre Figlia di Madame Angot di Lecocq, in scena in quei giorni al Teatro Nuovo di Napoli) deviando dal canone sperimentato con lAida: qui, infatti, mancava il riferimento diretto al testo originale e inoltre: «lautore utilizza lespediente di ribaltare intreccio e personaggi simili sul terreno della cultura popolare», un espediente che trovò in Scarpetta un alunno molto attento. È probabile che la terza opera scarpettiana rappresentata sia stata anche la sua prima riduzione francese: È buscia o verità ossia Pulcinella mbrugliune pammore e Sciosciammocca busciardo per necessità tratto, a quanto pare, da Le menteur veridique di Eugène Scribe (1823); si tratterebbe del suo debutto nella sperimentazione delle fabulae francesi in chiave napoletana destinato a trasformarsi nellarticolata formula drammaturgica degli anni Ottanta. Allinizio del 1874 ottenne la sua prima serata donore. Sfruttò loccasione presentando un nuovo testo di sua composizione, Quindici solde so cchiù assaje de seimila lire con Pulcinella e Sciosciammocca mbrogliati nfra ‘no portafoglio ricco e nauto pezzente ed ebbe buon esito. 4. Il successore di Petito Era una sorta di autocandidatura che di lì a poco tempo si sarebbe trasformata, per effetto di angosciose necessità, in un ingaggio permanente: se infatti il 1875 si svolse felicemente allinsegna della produzione petitiana, il 24 marzo 1876 il grande Totonno morì dinfarto in scena, lasciando il San Carlino improvvisamente privo del suo primo attore, del suo prolifico autore, dellago della bilancia dellensemble. Il rischio della dissoluzione della compagnia suggerì allimpresario Luzi di tamponare lemergenza cercando un nuovo interprete per la maschera di Pulcinella (Giuseppe De Martino) e investendo Eduardo Scarpetta della responsabilità di diventare il nuovo autore del San Carlino senza interrompere le sue esibizioni in palcoscenico come Sciosciammocca. Dapprima compose commedie prive della maschera di Pulcinella e centrate sul proprio personaggio, onde lasciare al Luzi il tempo di reperire il nuovo Pulcinella, successivamente restaurò il contrasto farsesco della maschera partenopea con Sciosciammocca. Lintensità dello sforzo rivelò il dominio tecnico frattanto acquisito. Scarpetta fu buon esecutore di opere a intreccio complesso, con sorprese, colpi di scena e caratterizzazioni in un vorticoso costruire e scomporre le strutture tradizionali, cogliendo i maggiori successi nelle commedie più fedeli al magistero petitiano (La gran festa popolare de li gigli de Nola con Pulcinella e Sciosciammocca mbrogliate pe ‘na soppressata de settemila lire; Ovè mammà? Con Pulcinella venditore di Crì-Crìe ammoinato co lo buffo Barilotto lo Guappo Napoletano, la vecchia caratterista e Sciosciammocca pe la Gran Cavalcata dellEmiro a la festa de Piedigrotta, 1876); nella parodia dattualità (Li tranways de Napole, 1876; Luomo cannone, 1877) e nella commedia fantastica ‘No bastone di fuoco ossia Pulcinella e Sciosciammocca protetti da la statua de zi Giacomo e creduti stregoni da buffo Barilotto (1877) con diciotto personaggi e sorprendenti cambi di scena. Ormai la stampa cittadina aveva preso a identificarlo come il successore di Petito, ufficializzando il suo ruolo di autore. Nonostante tale riconoscimento, limpegno profuso da Scarpetta in tal genere di composizioni avvenne in una forma di professionale distacco, obbedendo senza autentica adesione alla strategia impresariale del Luzi, preoccupato soprattutto di recuperare la fetta di pubblico perduta dopo la scomparsa di Petito. Nelle memorie, infatti, sia pure con tendenziosità, Scarpetta condannò senza appello proprio quei generi spettacolari di cui egli stesso era lautore in quel periodo: Da allora non si rappresentarono più che fiabe ed operette. Intanto il pubblico disertava sempre più il teatro, e Giuseppe Luzi si vide a un tratto perduto. In effetti la crisi del San Carlino non fu ripianata e lo stesso impresario finì per soccombere sotto il peso dei debiti e delle preoccupazioni morendo a sua volta dinfarto il 22 luglio del 1877. Con la nuova impresa, ereditata dalla vedova del Luzi, Scarpetta lavorò ancora per poco tempo, a causa del mancato rispetto degli accordi pattuiti. Se il biennio 1876-1877 aveva, dunque, accertato la capacità scarpettiana di padroneggiare la variegata tipologia degli stilemi tradizionali, il triennio successivo rivelò la sua disponibilità a intercettare le preferenze del pubblico di varie città italiane con cui entrò in contatto. Al Teatro Metastasio di Roma notò, ad esempio, la persistente fortuna di Madame Angot e qui reincontrò Amalia de Crescenzo, destinata a diventare, di lì a poco, la prima donna della compagnia da lui diretta al Teatro delle Varietà di Napoli nel 1879. Fu qui, infatti, che esordì come capocomico, in un teatrino di terzordine dotato però di uno scenario «sfarzosissimo» e di costumi ammirevoli. Esordì con un testo di sua invenzione, dal titolo metateatrale e autobiografico: Na Compagnia comica diretta dal Cav. Felice Sciosciammocca contando evidentemente sulla buona disposizione del pubblico napoletano nei confronti del proprio personaggio comico, ormai saldamente radicato nella memoria collettiva. E aveva ragione: la stampa accolse con favore il suo repertorio, composto di commedie, fiabe, operette e farse con la intramontabile coppia Pulcinella-Sciosciammocca, senza molto allontanarsi dal modello sancarliniano. Lanno comico 1879-1880 segnò, però, una tappa importante anche per la tournée della compagnia del Teatro delle Varietà attraverso importanti piazze teatrali nazionali: Milano, Torino, Livorno. Fu la fase dellallargamento degli orizzonti di Scarpetta e quello delle alleanze con alcuni comici settentrionali, segnatamente Ferravilla, affini al suo modo di lavorare, verificando insieme prospettive e potenzialità. Linizio del nuovo decennio fu allinsegna della vittoria della Sinistra (1876) che allentò il dirigismo centralizzatore del precedente governo consentendo una più libera aggregazione delle iniziative imprenditoriali a livello locale. La reazione allassolutismo linguistico favorì la riscoperta delle potenzialità del dialetto soprattutto sul versante della commedia rivitalizzando realtà teatrali avvilite o scomparse. Le tournées diventarono un momento importante nella vita delle compagnie dialettali che ebbero modo di collaudarsi affrontando le differenze delle nuove piazze teatrali. In questo nuovo clima la tappa milanese di Scarpetta presenta vari motivi di interesse alla luce delle scelte che egli compì di lì a pochi mesi. La compagnia del Teatro delle Varietà iniziò la tournée esibendosi al Teatro Milanese, fondato nel 1870 da Cletto Arrighi, dotato di una compagnia stabile (Gaetano Sbodio, Edoardo Giraud, Edoardo Ferravilla e Emma Ivon) e con un repertorio comico e drammatico in dialetto composto di opere originali (arricchito anche dal contributo di altri autori) ma soprattutto da molte riduzioni dal francese in lingua meneghina. Nel 1876 non ottemperando agli obblighi donorario nei confronti degli attori, Arrighi venne espulso dalla compagnia del Teatro Milanese la quale passò sotto la guida di Edoardo Ferravilla. Il celebre attore si era rivelato nel Barchet de Buffalora, riduzione del vaudeville La Cagnotte di Labiche; dopo il 76 compose esili intelaiature drammaturgiche, desunte per lo più da testi stranieri o italiani, al fine di dare risalto alle sue celebri tipizzazioni caricaturali del ceto popolare o piccolo borghese (Massinelli, El Sur Pànera, El Tecoppa) che conquistarono il favore cittadino e una eco nazionale. Nelle sue memorie Scarpetta rievoca la permanenza nel capoluogo lombardo con vivo piacere ed evidenzia il suo personale contributo di autore al Teatro Milanese, per il quale compose ‘Nu milanese a Napole in cui Emma Ivon, nel ruolo di servetta, parlò napoletano, mentre Ferravilla e Scarpetta recitarono con tale brio da dover calare la tela per nascondere al pubblico il loro stesso divertimento. Per Scarpetta la tappa milanese costituì la prova evidente delle potenzialità di un radicale aggiornamento del teatro regionale utilizzando le strutture drammaturgiche doltralpe tematicamente più interessanti per la classe borghese in ascesa, desiderosa di vedersi ritratta nella sua particolarità locale. Milano fu anche il luogo dincontro con altri autori, come il livornese Giovanni Salvestri, che avrebbe offerto spontaneamente a Scarpetta la sua commedia Fatemi la corte per una riduzione in napoletano, come poi avvenne. Lasciata Milano, la compagnia sostò a Torino e poi raggiunse Livorno in giugno, dove, nonostante lottima accoglienza del pubblico del Teatro Goldoni, fu costretta a sciogliersi a causa della cattiva amministrazione dellimpresa. 5. Il repertorio riformato Prima di arrivare allaperta manifestazione delle proprie intenzioni “riformatrici”, Scarpetta attese con ogni cura ad accreditarsi in città come lerede della tradizione sancarliniana (tra gli altri temibili competitori cera in primo luogo Davide Petito). Se voleva riscuotere il consenso del pubblico napoletano, il suo nuovo teatro si sarebbe dovuto presentare come evoluzione e non come soluzione di continuità, specialmente nella prima fase. Rivelatrice, proprio sotto questo aspetto, fu la scelta delledificio: lo storico San Carlino, gloriosa scaturigine della commedia napoletana, fu voluto a ogni costo benché finanziariamente inadatto a un investimento, poiché era a tutti noto lanno ineluttabile della sua demolizione, il 1884, quando le ruspe avrebbero abbattuto gli edifici dellantico Largo di Castello per attuare i progetti del nuovo piano urbanistico denominato Risanamento. Ma evidentemente Scarpetta giudicava sufficiente quel periodo (1880-1884) per radicare saldamente la sua nuova identità. E così provvide al nuovo decoro “borghese” della sala, ornandola con stucchi e ori, provvedendola di poltroncine di platea e nuova illuminazione al fine di innalzare quel vecchio teatrino alla dignità delle maggiori sale cittadine. Sotto legida della continuità si colloca anche la scelta di scritturare il vecchio Pasquale de Angelis, celeberrima gloria del San Carlino ai tempi di Petito: idea rivelatasi tristemente inutile, per quanto simbolicamente intensa, poiché il vecchio attore morì proprio il giorno dellinaugurazione. Ad ogni modo la nuova compagnia fu composta da attori professionalmente solidi, ma «docili», a detta di Scarpetta, alle sue direttive nellimpersonare figure e tipi differenti da quelli della tradizione. Il difficile consisteva nella scelta; e scegliendoli io mi lasciai guidare non solo dallesperienza del teatro ma dalle esigenze di quel nuovo repertorio, che vagheggiavo, il solo, lunico, che reputavo adatto ai tempi mutati, e che mi proponevo di far accettare al pubblico, a poco a poco, senza urtarlo soverchiamente. “Gradualità” fu la parola dordine riguardo allabolizione delle maschere. Pulcinella (Cesare Teodoro, lultimo Pulcinella del vecchio San Carlino) venne progressivamente marginalizzato, rifluendo dapprima nelle farse finali, per poi sparire definitivamente con lattribuzione allattore del ruolo di caratterista. Analogo destino era riservato anche alle altre maschere del Guappo (Gennaro Pantalena) e di Tartaglia (Michele Berardinelli), via via ritradotte nei ruoli di caratteristi e personaggi tipici. Sciosciammocca, lui stesso «mezza maschera» di buffo sancarliniano, si frantumò in una variegata gamma di personaggi come altrettanti modelli controfattuali della borghesia guardata «dal basso» ma in modo deformante: Il suo status varierà da opera a opera, ma il cui modello creaturale sarà sostanzialmente lo stesso: il piccolo-borghese “investito”, sì, “dal basso” ma con unottica grottesca disumanizzante. Quanto al repertorio, è noto, Scarpetta si proponeva di aggiornare lofferta del teatro dialettale sui modelli del teatro comico contemporaneo, con particolare riguardo ai generi francesi del vaudeville, della commedia e delloperetta. Chi era solito frequentare il teatro di prosa, e aveva sentito le commedie del Labiche e dellHalevy e le pochades del Gondinet, dellHennequin e del Njac doveva necessariamente sbadigliare assistendo alla rappresentazione duna commedia del Cammarano, dellAltavilla e del Petito. I lazzi del Pulcinella non potevano non parere insipidi a chi aveva assaggiato le salaci arguzie dei dialoghi francesi; e chi si era abituato a vedere sulle scene attori ben pettinati e ben vestiti sopportava malvolentieri la sciatteria dei comici dialettali, dai quali cominciava a pretendere il medesimo affiatamento, cui dedicavano tanto studio e tanta cura i comici delle compagnie italiane di prosa. Anche qui, tuttavia, egli inoculò il nuovo goccia a goccia: inaugurò il nuovo San Carlino il 1° settembre 1880 con un proprio testo già rappresentato lanno precedente al Teatro delle Varietà, modificandone il titolo: Il Cav. D. Felice Sciosciammocca direttore di una compagnia comica, seguito dalla farsa Gli amori di D. Felice. Solo successivamente Scarpetta presentò, il 7 settembre 1880, la prima commedia del repertorio “riformato”: Tetillo, traduzione e riduzione del vaudeville Bebé di Émile de Najac e Alfred-Néoclès Hennequin, andato in scena per la prima volta a Parigi, al Théatre Gymnase, il 10 marzo 1877. Proprio in questa circostanza Scarpetta fu attento a stabilire con il pubblico il giusto canale di comunicazione, sintonizzandosi con le consuetudini della fruizione napoletana. Solo a questa condizione la novità poteva essere recepita e apprezzata: Scarpetta puntò sullabitudine del pubblico del San Carlino al rovesciamento parodistico verso il “basso” dialettale dei melodrammi del San Carlo o della prosa del Teatro dei Fiorentini. Bebé era già stato rappresentato a Napoli in lingua italiana al Teatro dei Fiorentini il 25 maggio 1877. La riproposizione sul palcoscenico del San Carlino di una pièce già vista in un teatro dordine maggiore costituiva una sicura base dintesa col pubblico, garantita storicamente dal genere della parodia; se poi Scarpetta compose raramente parodie di propria invenzione, ciò non impedì che egli si servisse costantemente dellazione mediatrice di questo genere tradizionale per veicolare i testi del suo repertorio riformato. La parodia in Scarpetta fu medium e, più in profondità, fu la forma mentis della sua invenzione comica. Tale prospettiva, unita allaffiatamento della compagnia, alla recitazione spontanea, allappropriatezza dei costumi e della scena, fece sì che Tetillo, pur contravvenendo allantica convenzione del saluto finale, fosse replicato per ben ottanta giorni, dice Scarpetta (recitando allepoca due volte al giorno, lo spettacolo sarebbe stato ripetuto per centosessanta volte consecutive). È probabile che Tetillo sia stato anteposto in programma a Mettiteve a fa lammore co mme, ossia al salvestriano Fatemi la corte già ridotto in napoletano ai tempi del Teatro delle Varietà, proprio perché non era mai stato rappresentato a Napoli, rischiando, così, linsuccesso. Non potendo certo qui ricostruire con completezza lintero calendario teatrale scarpettiano ci limitiamo a ricordare soltanto pochi titoli emblematici. Dopo Mettiteve a fa lammore co mme (18 marzo 1880) vi fu alternanza di commedie originali e di altre riduzioni dal francese: Duje marite ‘mbrugliune (23 ottobre 1880 tratto da Le dominos roses di Delacour e Hennequin, già presentato al Fiorentini nel 1876) e, il 15 gennaio 1881, ‘O Scarfalietto, da La Boule di H. Meilhac e L. Halévy, che fu un franco e clamoroso successo (già presentato a Napoli, sempre al Fiorentini, nel 1877). Passando in rassegna la preziosa schedatura delle riduzioni scarpettiane dal 1880 al 1907 compilata da Ivana Guidi, si può notare come Scarpetta, giunto al pieno successo nella seconda metà degli anni Ottanta, rovesciasse il rapporto temporale giocando danticipo, vale a dire presentando le proprie riduzioni prima delle rappresentazioni napoletane, anzi creando, in alcuni casi, il presupposto per il loro debutto sulla piazza partenopea. Numericamente le riduzioni ricoprono il 43,6% del totale delle opere scarpettiane (sessantadue riduzioni su centoquarantadue opere) e nei loro confronti lautore si mise in gioco tanto quanto nelle sue commedie originali. A esse Scarpetta dedicò pagine specifiche dellautobiografia (capitolo XVII) illustrando motivazioni e metodi con esempi puntuali ai quali per brevità possiamo soltanto rinviare evidenziando gli aspetti salienti del modus operandi poiché «tradurre è un conto, ridurre è un altro». Scarpetta si sentì in diritto di tagliare, spostare, aggiungere, creare “macchiette” e soprattutto rivivere tutto il testo «nellambiente del teatro pel quale si scrive». Il punto darrivo del percorso della traduzione/adattamento era, infatti, lindividuazione delle giuste equivalenze per la scena, per gli attori e per il pubblico napoletano. Sarebbe un errore limitare la cosiddetta riforma scarpettiana alla sostituzione del modello della commedia borghese in luogo della farsesca, allintroduzione delle pièces francesi ridotte in dialetto e alla progressiva abolizione delle maschere. In realtà egli rielaborò in profondità ed estensione il linguaggio drammaturgico del comico riutilizzando in termini di tecnica tutto lo zibaldone farsesco introiettato fin dai tempi dellapprendistato presso Petito e ponendo i materiali borghesi o farseschi, dinvenzione o dimportazione, sotto la lente deformante dellelaborazione au second degrée, creando “macchiette”, tipizzazioni familiari al gusto napoletano, parodiando i modelli francesi: il vero punto di forza del rinnovamento scarpettiano si situa più al livello dei linguaggi e delle forme che non a quello dei contenuti. Come osserva Ferrone: In ogni caso esisteva un dispositivo di sicurezza che permetteva al comico di accedere ai gusti più esigenti del pubblico decoro, ed era, insieme al fine edificante e satirico, lapplicazione del registro buffo e del rovesciamento irridente non più alle cose, ai personaggi e ai comportamenti, ma al linguaggio e alla struttura dello stesso organismo teatrale. A sospingere il suo operare entro la dimensione del significante concorrevano del resto vari fattori: il trasferimento delle fabulae da una lingua allaltra (francese-italiano-napoletano), lalterità della fruizione e della cultura teatrale locale rispetto a quella francese (di ironico rispecchiamento), italiana (di imitazione), napoletana (di parodia). Se ne alimentava il processo di riaffioramento di una coerenza testuale omogenea dalla molteplicità delle stratificazioni drammaturgiche dorigine, di transito e darrivo. Si veda ad esempio cosa racconta Scarpetta a proposito della sua riduzione ‘E nepute d ‘o sinneco (1885). La condizione che gli era più congeniale per scegliere un testo era quella dello spettatore, poiché si recava spesso a teatro per aggiornarsi e per ricevere suggestioni. Si trovava dunque in un teatro napoletano, nel 1882, per assistere alloperetta La notte fatale, rappresentata dalla compagnia Franceschini. Lo spettacolo venne sonoramente fischiato, come era accaduto anche in altre piazze italiane, ma Scarpetta vi intravide la possibilità di trarre vantaggio dagli errori altrui. Messosi in caccia del libretto originale, scoprì essere Le droit dun aîné di Paul Burani. Dal francese, passò a una traduzione italiana e di lì alla riduzione in dialetto la quale, diversamente dallopera del Franceschini, raccolse molto successo sia a Napoli che a Roma, a riprova delle sue doti di autore più che di riduttore. Ma le modalità della scelta furono differenti, a volte casuali. Si pensi a ‘Na santarella, epocale successo scarpettiano del 1889. Si trovava solo a Milano nel 1888 perché tutta la sua compagnia, capeggiata da Pantalena e De Crescenzo, lo aveva abbandonato per formare compagnia autonoma, dedita al nuovo repertorio del teatro dArte. Gli furono recapitate da un amico due traduzioni italiane di cui la più interessante per lui fu Mamzelle Nitouche di H. Meilhac e A. Millaud. Su quella imbastitura ricompose la sua ‘Na Santarella con cui debuttò al Teatro Sannazaro di Napoli con una nuova compagnia di cui faceva parte Marietta Gaudiosi che nel ruolo della giovane protagonista ammaliò le platee. In queste operazioni di artigianato metalinguistico è da riconoscere laspetto più interessante del lavoro drammaturgico scarpettiano, dello scrittore che si serve di materiali teatrali altrui pensando ai propri attori, al proprio teatro, al pubblico. Con ciò, ovviamente, nulla va sottratto allautore di Miseria e nobiltà, ma evidenziare le modalità delle rielaborazioni consente di meglio comprendere le ragioni che indussero Scarpetta a promuoversi come autore di teatro. 6. Le polemiche sul Teatro dialettale dArte e lantiscarpettismo I più importanti spettacoli scarpettiani nei decenni a cavallo fra vecchio e nuovo secolo si configurarono come punti cospicui nellorizzonte teatrale napoletano suscitando sempre vivaci polemiche in cui si condensarono i nuclei tematici discriminanti tra vecchio e nuovo teatro dialettale. Tutto ciò avvenne in una città in cui laccostamento al naturalismo si era imposto allattenzione per il tramite illustre di Francesco de Sanctis, con lo Studio sopra Zola (1877) e la conferenza Zola e lAssommoir (1879), mentre al teatro dei Fiorentini aveva trionfato Teresa Raquin di Giacinta Pezzana (1879): una sincronia indicativa della acuìta sensibilità della cultura partenopea rispetto alla rappresentazione del mondo popolare e alluso del dialetto, tematiche rilanciate dal dibattito nazionale e internazionale dallaffermazione del verismo a teatro. La prima, breve, fase polemica si colloca dopo il successo dello Scarfalietto, nel 1881, e nasce sulle scene del Teatro Partenope, nel popolare quartiere di Foria, diretto dal già menzionato Davide Petito, fratello del compianto Antonio e quindi degno avversario di Scarpetta nella rivendicazione delleredità sancarliniana. Il Petito pose in scena una farsa dal titolo emblematico Na mazziata morale fatta da Pulecenella Cetrulo a Don Felice Sciosciammocca ovvero lapoteosi della maschera napoletana (24 gennaio 1881) scritta da Domenico Jaccarino con levidente intenzione di colpire Scarpetta nella sua riforma. Scarpetta dichiarò, nellautobiografia, che la rappresentazione cadde: non fu così; venne invece applaudita dal pubblico di Foria, amante delle sue tradizioni. Quella farsa venne però condannata senza appello da due importanti firme del giornalismo napoletano, Michele Uda («Il Pungolo») e Francesco Verdinois («Il Corriere del mattino»), i quali si schierarono su fronti contrapposti in relazione al teatro di Scarpetta. Uda fu sostenitore del repertorio riformato, considerando Pulcinella e le maschere un ostacolo allo sviluppo del nuovo teatro napoletano di cui Scarpetta era «una preparazione». Federico Verdinois, pur concordando sullesaurimento della vitalità del filone tradizionale delle maschere, negò che la via imboccata da Scarpetta conducesse a una nuova rappresentazione del mondo popolare, perché egli traduceva in napoletano figure e comportamenti attinti dallestero; per costruire il teatro popolare, sosteneva Verdinois, occorreva ispirarsi alle migliori commedie napoletane del passato, come quelle del Cammarano, oppure ai modelli veneziani di Angelo Moro Lin, ma non certo al vaudeville francese. Uda e Verdinois, pur anticipando alcuni temi dei dibattiti futuri, non furono tuttavia in grado di uscire da certe formule (far risorgere il teatro “popolare”) ambiguamente riecheggianti le istanze risorgimentali e la polemica si concluse di nuovo a teatro, ma questa volta al San Carlino, dove il 2 febbraio 1881 Scarpetta rappresentò Nu surdato mbriaco a lo vascio de la Sie Stella di Filippo Cammarano, e subito dopo Duje marite ‘mbrugliune. Il confronto tra vecchio e nuovo fu tutto a favore di Scarpetta il quale, grazie alla notorietà dei due giornalisti, colse lopportunità di rilanciare limportanza del suo teatro anche a livello nazionale. La seconda fase polemica si avviò in sordina verso la fine degli anni Ottanta prolungandosi però per il resto della vita di Scarpetta, anche dopo il suo abbandono delle scene. Se Cavalleria rusticana (1884) aveva aperto la stagione del verismo a livello nazionale, a Napoli ‘O buono marito fa ‘a bona mugliera (1886) svolse ufficio equivalente, ma non nel senso del verismo; il testo era, infatti, la traduzione in dialetto napoletano dei Mariti di Achille Torelli di venti anni precedente, curata dallautore stesso, affiancato da Salvatore Di Giacomo. Fu rappresentata nel 1886 da un importante attore di Scarpetta, Gennaro Pantalena, resosi indipendente e postosi alla guida di una autonoma formazione al Teatro La Fenice. Miseria e nobiltà, il capolavoro originale di Scarpetta, rappresentato dalla compagnia scarpettiana al Teatro del Fondo nel 1888, nacque già nel clima della contrapposizione che si era profilata. Su di un fronte si collocava, dunque, Scarpetta, da solo, con il suo modello teatrale orientato esclusivamente verso la comicità, animato da figure, ambienti e situazioni borghesi, espresso in un dialetto sintonizzato sulla risonanza del quotidiano; sullaltro fronte si arroccava una schiera (in verità fittamente variegata al suo interno) di artisti e intellettuali accomunati dallinteresse per una rinnovata rappresentazione del mondo popolare e dalla netta condanna del teatro scarpettiano. Una galassia di sperimentazioni linguistiche cangianti produsse innumerevoli soluzioni: la lingua napoletana poetica, elevata e non popolare di Salvatore Di Giacomo, la miscela sperimentale di dialetto e italiano di Roberto Bracco, la tagliente verità espressiva di Ferdinando Russo. È arduo accertare lorigine della formula di “Teatro dialettale dArte” nella specifica accezione antiscarpettiana poi diventata diffusissima. Forse fu anche questa di conio digiacomiano; funzionò da massimo comune denominatore per una drammaturgia dautore distillata troppo lentamente per le esigenze teatrali del tempo. Venne tuttavia rappresentata volenterosamente dal Pantalena nonostante gli scarsi guadagni e i conseguenti scioglimenti della compagnia. Fu recitata Gnesella, di Francesco Starace (1895) e ‘A trummetta ‘a Vicaria, riduzione dalla goldonina Bottega del caffè a cura di Vincenzo Di Napoli. Nel 1900 Pantalena tentò la rinascita del repertorio sancarliniano con il Pulcinella Giuseppe De Martino al Teatro Nuovo; ma anche questa fu uniniziativa di breve respiro. E infine, dopo lennesimo andirivieni con Scarpetta, Pantalena recitò con successo Monsignor Perrelli, sempre dello Starace (1904). Nel 1905 presentò al Teatro Nuovo un più nutrito repertorio del Teatro dialettale dArte riscuotendo successi con: Casa antica di Libero Bovio (1906); Ognuno ‘o stato suio di Eduardo Minichini; ‘O quatte ‘e Maggio di Domenico Petriccione (1907). Nel 1909 la compagnia presentò Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo con Adelina Magnetti nel ruolo della protagonista e poi Addio mia bella Napoli di Ernesto Murolo e Malia di Luigi Capuana nella riduzione napoletana a cura di Libero Bovio. Lirrobustirsi delle polemiche sul teatro dialettale si registrò nei primi anni del secolo quando uninnumerevole schiera di giornalisti, autori e studiosi animarono le pagine dei maggiori periodici italiani e napoletani: Diego Petriccione, Saverio Procida, Rocco Pagliara, Riccardo Forster, Stanislao Manca ma anche Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao. Lacuirsi della polemica si registrò nel 1904, lanno fatidico della caduta del Figlio di Iorio. Daltra parte Scarpetta, come dichiarò apertamente nellautobiografia, non arretrò di fronte ai reiterati attacchi dei suoi nemici e anzi, dopo il ritiro dalle scene, ebbe lagio di intensificare i suoi interventi. Il Teatro dialettale dArte era soprattutto un teatro dautore, letterario, in molti casi con notevoli risultati. I drammaturghi di questo teatro condannarono Scarpetta perché traduceva dal francese e non creava nulla di suo. Per tutti costoro egli non ebbe altro merito artistico se non quello dellattore, accomunandolo in tale giudizio a tutta la genia di autori-attori sancarliniani che lavevano preceduto. Tra Scarpetta e i drammaturghi del Teatro dialettale dArte vi fu totale contrapposizione e assoluto dissenso riguardo alla categoria del popolare a teatro: popolare per Scarpetta era il teatro dialettale comico, con le sue situazioni, i suoi equivoci, i travestimenti, i suoi personaggi borghesi. Egli non riteneva che la plebe napoletana potesse essere soggetto teatrabile dal punto di vista della comicità. Viceversa per Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Ernesto Murolo, Libero Bovio e molti altri autori e letterati, il “popolare”, coniugandosi con le istanze di innovazione stilistica e ideale del vero, significava ambientazione e personaggi tratti dalla viva immagine del popolo caratterizzato dalla fede, dalla dolorosa condizione del bisogno e dalla violenza. Nel teatro dArte la popolarità non implicava affatto comicità. A parte la palese tendenziosità del mancato riconoscimento dautore di opere originali da parte degli autori del Teatro dArte, è lecito chiedersi perché Scarpetta aprisse tanto spesso le porte dei suoi teatri alla drammaturgia francese volendo in realtà rappresentare in termini propri e patri la dimensione comica del vivere napoletano. Il paradosso è stato rilevato da Vicentini valutando la portata complessiva del fenomeno della traduzione in dialetto e non soltanto relativamente a Scarpetta. Vicentini spiega questa apparente contraddizione come segnale della consapevolezza maturata dagli autori-attori della propria diversità rispetto al teatro ufficiale in lingua, ossia come sviluppo di una recitazione commisurata alla specifica fruizione locale e in tal senso differente dalla norma. In effetti la inarrestabile battaglia ingaggiata da Scarpetta contro gli autori del Teatro dialettale dArte mirava a difendere unidea di teatro fondata sulla specifica consapevolezza del proprio linguaggio. Sotto questo aspetto Scarpetta era ben più moderno dei nuovi autori-letterati venendo così a costituire il solido tramite dellarte scenica della “differenza” che fece di Napoli un centro di rigenerazione del teatro nazionale a partire dalla tradizione dialettale. 7. Unopera sbagliata: il processo DAnnunzio-Scarpetta Forse non sorprenderà che nella contingenza meno favorevole degli ultimi anni, agli esperimenti del nuovo, cui si è già accennato, Scarpetta affiancasse anche la ripresa del vecchio genere sancarliniano della parodia. La serie era iniziata con la Francesca da Rimini (1893) ed era proseguita con la Bohème di Puccini (1896), vera riproposizione del paradigma del testo petitiano Aida dinta casa ‘e Donna Tolla Pandola (1873) esplicitamente evocato nel sottotitolo. Lelogio reiterato di Puccini, come di Verdi nel modello tradizionale, giunse alle orecchie del compositore lucchese che infatti venne ad applaudire Scarpetta. Dal confronto tra la Bohème e Il Figlio di Jorio emergono notevoli differenze. Sotto il comune titolo di parodie si celano, in realtà, due operazioni drammaturgiche completamente diverse. La Bohème si basava su un intreccio indipendente da quello dellopera originale e, mediante il gioco del teatro nel teatro, attingeva a effetti di comicità e allelogio dellautore. Il figlio di Iorio era, invece, una puntuale parafrasi caricaturale della trama. Nessun effetto di teatro nel teatro, come nella Bohème, e, quanto allautore, invece di elogiarlo se ne intaccava laura demiurgica, demistificando lintangibilità del testo poetico a teatro. Parodia affatto diversa si rivelò essere, dunque, Il figlio di Iorio, rispecchiamento comico strutturato sulla conservazione dellimpianto narrativo originale, caratterizzata dal rovesciamento del maschile con il femminile (per il suo personaggio, Cornelio, ossia lOrnella dannunziana, Scarpetta si era riservato anche un ulteriore travestimento in abiti femminili allinizio del secondo atto), dal trasferimento dellambiente silvano in quello marino della cittadina di Pozzuoli e dalla traduzione in napoletano. Il gioco delle equivalenze carnevalesche non risparmiava, però, laura sacrale del primitivismo abruzzese: la visione dellangelo, le preghiere, la ripetizione delle formule, la deformazione dei nomi, i doppi sensi, i personaggi stessi (i mietitori violenti e temibili trasformati in uno schiamazzante assembramento di lavandaie, la fascinosa Mila tramutata nel ladruncolo Torillo, figlio superstite di Iorio dopo il rogo della sorella strega cui si fa esplicito riferimento) tutto veniva sottoposto al ridicolo. Il depotenziamento tragico non si arrestava davanti alla trasformazione dellomicidio in un semplice pugno, riscrivendo tutto il testo in chiave burlesca. Eppure, con tutto ciò, come ha osservato Emma Giammattei, la parodia di Scarpetta sembra a momenti aspirare a un innalzamento espressivo dei versi dialettali come lingua poetica: «è significativo che nel riprendere i passi dotati di intrinseca liricità, Scarpetta non esitasse a ricorrere ai ritmi e alle atmosfere tipiche della poesia degiacomiana». Le ragioni della deviazione del Figlio di Iorio dalla norma della parodia tradizionale si riconducono, allora, alla primaria necessità di Scarpetta di reagire allinvasione di campo della letteratura nei confronti del teatro e dei suoi linguaggi specifici. Oltretutto a esacerbare lanimo di Scarpetta nei confronti del poeta-vate concorreva il clima fortemente intimidatorio instauratosi nei rapporti fra letterati e attori per effetto del rigoroso efficientismo dalla Società Italiana degli Autori diretta, dal 1896, da Marco Parga. In questa nuova fase la S.I.A. si era dimostrata sempre più vigile e rigorosa nellesigere che gli attori pagassero le dovute percentuali agli autori e per tal via nel reimpostare i rapporti fra le due categorie a tutto vantaggio degli autori. Già a partire dalla fine degli anni Ottanta Scarpetta aveva sperimentato personalmente lonere del nuovo mercato dei testi e delle privative: per Girolino e Pirolè (1889) aveva dovuto pagare i diritti dautore a Bersezio che deteneva lesclusiva della traduzione di Cocard et Bicoquet, da cui era tratta la riduzione scarpettiana. Alla S.I.A., alla quale non si era mai iscritto, aveva dovuto pagare i diritti per Nu cane bastardo (1898) da Il viaggio dei Berluron di Ordonneau, Keroul, Grenet-Dancourt; Duje chiapparelle (1899) da Il controllore dei vagoni letto di Bisson; Cane e gatte (1901), riduzione da La gelosa di Bisson e Leclerc. Il sistema di controllo della S.I.A., al di là delle cifre pagate, metteva in discussione le antiche modalità di costituzione del repertorio, basate in gran parte sulle riduzioni e le parodie al punto che dopo ‘O Miedeco d ‘e pazze ultima riduzione del 1908, Scarpetta tornò a scrivere (raramente) testi originali da solo o in collaborazione. Ma tornando più specificamente a DAnnunzio, la stampa riportava con grande evidenza lesito delle sue iniziative – mediate dalla S.I.A. – nei confronti degli attori. Limitiamo lesemplificazione soltanto agli episodi più prossimi a quello scarpettiano: Giovanni Grasso (i cui spettacoli avevano suggestionato DAnnunzio al punto da spingerlo a sperimentare il suo modello di tragedia agreste) si vide costretto a intavolare con Marco Praga una trattativa di quietanza per non dover subire le conseguenze penali a seguito della sua messinscena della Figlia di Iorio in siciliano, tradotta da Giuseppe Antonio Borgese. La prima di DAnnunzio era andata in scena il 2 marzo 1904 al Lirico di Milano; la versione siciliana di Grasso si tenne al Costanzi di Roma il 17 settembre dello stesso anno grazie al cospicuo esborso di seimila lire, pagate dal grande attore come concessione del permesso di uso. Nello stesso periodo DAnnunzio era in causa anche contro Ermete Zacconi per farsi riconoscere i diritti sulla rappresentazione delle sue opere messe in repertorio dal grande attore durante la sua tournée americana. Con questa parodia Scarpetta silluse, forse, di far valere i diritti dellautore-attore contro quelli dellautore-letterato e sperava di trascinarsi dietro lopinione pubblica con un grande successo teatrale. Scelse, perciò, di parodiare il poeta più in auge del momento e il suo maggior successo: Dannunzio e La figlia di Iorio. Se la manipolazione degradante dellopera originale mirava a mettere alla berlina lautore letterato, scimmiottandone le pose stilistiche, questo significava linizio di una battaglia vera e propria e la reazione dei sostenitori di DAnnunzio non si fece attendere ponendo in atto ogni strategia per boicottare Il figlio di Iorio e impartire al suo autore una lezione esemplare, querelandolo e dando avvio a una causa restata negli annali della storia del diritto dautore. Si giunse a questo nellarco di pochi mesi: nel giugno del 1904 Scarpetta assistette al Teatro Valle di Roma alle repliche della Figlia di Iorio, celebrata sulla stampa nazionale. Impadronitosi rapidamente del testo a stampa, iniziò subito a lavorare alla sua parodia giungendo, ad agosto, a una stesura pressoché definitiva. Benché la legge non lo costringesse giudicò prudente recarsi a Marina di Pisa per farsi dare il nulla osta da DAnnunzio. Nonostante lamichevole accoglienza, egli non ottenne altro che promesse verbali tali, tuttavia, da incoraggiarlo a iniziare la preparazione della messa in scena. La pubblicistica, frattanto, registrò una notevole frequenza di interventi pro e contro: dalle anticipazioni scarpettiane di alcuni passi della sua parodia, alla secca smentita di DAnnunzio di aver concesso la licenza, dallo scambio di lettere tra Scarpetta e Ferdinando Russo, fervente dannunziano, fino allintervento di Croce dedicato alla critica drammatica fino allannunzio della première per il 3 dicembre al Real Teatro Mercadante (ex teatro del Fondo). Il fronte antiscarpettiano costituito dagli autori del Teatro dialettale dArte e coordinato dalla immancabile S.I.A. allertò la Prefettura affinché impedisse la rappresentazione, ma senza effetto. Così Il figlio di Iorio andò in scena. Il primo atto si chiuse fra risate e battimani, ma quando iniziò il secondo, per unesitazione di unattrice, si scatenò il finimondo. La parodia cadde rovinosamente, ma, come osservò con buoni argomenti il difensore di Scarpetta, lavvocato Fiorante, cadde sol perché un manipolo di ammiratori fervidi, di patuti e di servitori contrappose prevalendo, i suoi fischi e le sue violenze alla tranquillità elegante di quel pubblico magnifico che non seppe reagire con pari efficacia. Tenuto conto delle aspettative, linsuccesso era già una notevole sconfitta, ma pochi giorni dopo Scarpetta fu querelato da Marco Praga, in rappresentanza della S.I.A. e di DAnnunzio per aver contraffatto e riprodotto abusivamente La figlia di Iorio. I passaggi legali successivi comportarono la convocazione da parte del giudice istruttore di periti pro e contro per stabilire se Il figlio di Iorio fosse parodia o contraffazione. Roberto Bracco, Giulio Massimo Scalinger e Salvatore Di Giacomo, di parte dannunziana, sostennero che lopera di Scarpetta non era parodia giacché deviava dal modello affermatosi sulle scene del San Carlino e pertanto si trattava di contraffazione. Viceversa nella perizia firmata da Benedetto Croce e Giorgio Arcoleo si affermò che parodie come Il figlio di Iorio erano esistite anche in tempi anteriori e che in ogni caso «sarebbe sempre arbitrario, il restringere il concetto di parodia a un tipo determinato, senza tener conto delle diverse situazioni e necessità in cui si può trovare il parodista di unopera». Si dava avviso, infine, che i periti avversari e lo stesso giudice istruttore avevano confuso la questione giuridica con quella letteraria e si concludeva: Lo Scarpetta dovrebbe essere condannato, se avesse commesso una contraffazione; il che non è. Ma non può essere condannato per aver dato al pubblico unopera letteraria sbagliata. Da questo momento in poi la formula dell“opera sbagliata” si trasformò in una sorta di sinistro mantra continuamente ripetuto dagli avvocati pro Scarpetta al fine di agevolare la vittoria del proprio assistito. Ma se per un verso essa poteva costituire unefficace tattica dibattimentale, dallaltro sconfessava ferocemente la credibilità dellautore. Scarpetta non poteva esserne soddisfatto, tantè che nel corso del suo interrogatorio non mancò di puntualizzarlo: «Mi preme poi far rilevare ai signori periti pro e contro che la mia parodia non è da ritenersi opera sbagliata. Se essa cadde, fu perché la si volle far cadere». Eppure quella formula restò e gli fece vincere la causa. Il processo fece perciò comprendere a Scarpetta che il suo teatro era divenuto un organismo fragile, condizionato dai vincoli degli organismi di controllo e da normative inattingibili. A questultimo proposito venne a sapere dal proprio avvocato, Francesco Spirito, che nelliter legislativo del Testo Unico del 1882 il divieto di parodia previsto nellarticolo 4 era stato abolito solo allultimo istante. Le antiche pratiche del teatro comico dialettale erano chiaramente minacciate se non destinate a sparire. Intanto lattacco più doloroso era venuto proprio dalla parte amica: la perizia di Croce e Arcoleo. Giudicando sbagliata la parodia, essa aveva salvato lattore sacrificando lautore, concordando implicitamente col fronte antiscarpettiano del Teatro dialettale dArte. Non stupirà, allora, laccanimento con cui egli continuò la sua battaglia contro i vari rappresentanti di tale fronte proseguendo la polemica sui giornali anche negli anni successivi al suo ritiro dalle scene. Anni dopo Eduardo ebbe modo di tornare a interpellare Croce a questo riguardo e il filosofo gli rispose che le dispute attorno ai “teatri” – come ad esempio il Teatro dialettale dArte – erano inutili poiché non esistevano “teatri” ma solo “individui” dotati di genialità artistica e concludeva: «Quando gli artisti veri spariscono, decade il relativo “teatro”. Ecco tutto». Nellautobiografia, lultimo grande impegno della sua carriera artistica, Scarpetta mirò a esorcizzare la sentenza crociana rinarrando la sua lunga esperienza con due evidenti finalità: presentarsi come il riformatore della scena comica napoletana e avvalorarsi come autore di «settanta lavori teatrali fra commedie originali e riduzioni» ricomponendo, così, la complementarietà dellautore con lattore. Lautobiografia costituì lultima mossa strategica attuata da Scarpetta per rivendicare il ruolo che gli era stato negato dal mondo della cultura. In lui scrittura e recitazione erano sempre state attitudini solidali in modo che la prima sviluppasse le potenzialità della seconda e che la recitazione di ascendenza sancarliniana garantisse la realizzazione del nuovo repertorio. Sulla base di tale sinergia Scarpetta acquisì una precisa visione della comicità, fondata sulla mediazione della parodia e sulla finalità primaria del comico esaltando in tal modo la vitalità della tradizione attorica partenopea. Del resto non si era proposto di riformare il mondo né di sconfinare dai termini della sua arte. Ma di quei confini fu custode geloso e combatté con estrema decisione per difenderli. La riforma del teatro napoletano rappresentò, forse, laspetto più reclamizzato della sua avventura, ma la battaglia più importante fu quella di riconsegnare alla generazione successiva lidea unitaria della propria arte.
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