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Isabella Innamorati

La drammaturgia capocomicale di Eduardo Scarpetta

Data di pubblicazione su web 09/11/2017
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1. Intorno a un anticipato ritiro dalle scene

La carriera di Eduardo Scarpetta, esemplare paradigma di successo, fama e ricchezza nel mondo teatrale napoletano tra l’ultimo trentennio dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo, s’interruppe nel 1909, per espressa volontà dell’attore.[1] Nell’autobiografia egli giustifica questa scelta in un dialogo immaginario con un amico che gli chiede ragione dell’abbandono. Ed egli risponde di aver così voluto dare spazio al figlio ed erede teatrale, Vincenzo; di aver prevenuto l’ineluttabile allontanamento da parte del pubblico; di essersi liberato, infine, del triplice impegno di autore-attore-capocomico ormai diventato troppo logorante.[2] Motivi certamente tutti attendibili, ma l’interlocutore, insoddisfatto, incalza inducendo Scarpetta a rievocare un triste evento il cui raggio d’ombra vela le pagine conclusive dell’autobiografia:

«Ma tu» ribatté l’amico «non hai conosciuta che una volta – una volta sola! – l’amarezza dell’insuccesso!». Vero! Verissimo! Fino alla malaugurata sera, in cui andò in iscena il mio disgraziatissimo Il figlio di Iorio, io non conoscevo, infatti, che le sole ebbrezze dei miei trionfali successi! Ma, appunto per questo, il ricordo di quella serata, rimarrà incancellabile, eterno nella mia mente e nel mio cuore![3]

Il figlio di Iorio – parodia “presepiale” in due atti in versi napoletani della tragedia “pastorale” in tre atti La Figlia di Iorio, verseggiata in lingua italiana, di Gabriele D’Annunzio –[4] andò in scena al Real Teatro Mercadante di Napoli il 3 dicembre 1904 mentre la compagnia Maggi replicava il testo dannunziano al Teatro Politeama della stessa città. Nonostante la grande attesa, il sipario del Mercadante fu calato precipitosamente all’inizio del secondo atto a causa della bufera di fischi e delle contestazioni violentissime: un vero fallimento. La delusione e il risentimento con cui Scarpetta rievoca l’insuccesso farebbe presumere che egli si fosse subito allontanato dalle scene. E invece no, continuò a recitare per altri cinque o sei anni chiudendo la sua vita teatrale poco dopo la fine della causa intentatagli da Gabriele D’Annunzio e Marco Praga (maggio 1908) con l’accusa di contraffazione e riproduzione abusiva della Figlia.

Dopo vari rinvii, il tribunale scagionò Scarpetta, che infatti se ne compiace ripetutamente nelle memorie, presentandosi come il grande vincitore. Ma allora, davvero, perché abbandonò le scene? E perché Il figlio di Iorio insinuò in lui quel senso di angosciosa inquietudine? L’ipotesi che avanziamo è che Scarpetta, non certo nuovo ad attacchi e polemiche durante tutta la sua carriera, realizzò proprio nelle fasi dibattimentali tutta la fragilità e la gravità della situazione in cui versava il suo teatro. I fondamenti dell’ipotesi qui avanzata affondano nel retroterra artistico di questa eccezionale figura teatrale su cui occorre soffermarsi con qualche sondaggio di verifica.

2. Strategie di sopravvivenza: il binomio autore-attore

Pur avviatosi alla carriera professionale di attore presso il teatro San Carlino, nel 1868, per autentica passione e con singolare intraprendenza, Eduardo Scarpetta colse tuttavia il suo primo successo teatrale in qualità di autore componendo Pulcinella creduto moglie di un finto marito, una farsa coerente al repertorio della tradizione teatrale napoletana, trattata con garbo ed efficacia comica sufficienti da esser messa in scena al Teatro Partenope nel 1870 da Raffaele Marino, il Pulcinella della compagnia diretta da Gaetano Pastena dell’impresa Falanga presso la quale Scarpetta fu scritturato tra il 1869 e il 1872.[5] Nell’autobiografia egli affermò che al termine delle faticose giornate di lavoro teatrale, tornato a casa, dopo cena, cominciava a scrivere: era nata in lui «la fregola del commediografo».[6]

Tale “fregola” non si manifestò come ghiribizzo, come sembra voler far credere, né come alternativa al lavoro d’attore, ma germogliò in simbiosi con l’assimilazione quotidiana del mestiere teatrale e sull’impellenza di affermarsi come attore comico. La ragione che spinse Scarpetta a presentare al capocomico quella sua farsa, Pulcinella creduto moglie di un finto marito, non mirava, dunque, a imboccare una via professionale diversa dalla recitazione, ma piuttosto a segnalarsi agli occhi dell’impresa, a emergere dall’oscurità di un ruolo assolutamente marginale e secondario stabilito contrattualmente nella scrittura, intendendo così evidenziare le proprie qualità, la convenienza per la compagnia di mantenerlo entro le proprie fila e in particolare le potenzialità del suo talento comico.

In effetti le regole d’ingaggio delle sue prime scritture – conformi allo standard prevalente fra le compagnie dell’epoca non soltanto napoletane – erano principalmente finalizzate agli interessi dell’impresa, esigendo dallo scritturato nel ruolo di «secondo filo» totale disponibilità di fronte a qualsiasi necessità imposta dal repertorio della compagnia: dal canto alla danza, dalla recitazione di poche battute in un dramma, farsa o commedia, alla pantomima fino a «essere sospeso in aria»[7].

Regole che imponevano di saper far tutto, non permettendo al giovane attore di scegliere e tanto meno di coltivare il genere nel quale si sentiva più versato e in cui sarebbe poi, semmai, diventato bravo. Scarpetta iniziò pertanto a recitare in parti marginali nelle più diverse mansioni. La varietà degli impieghi richiedeva lo sviluppo di una molteplicità di capacità teatrali e la veloce assimilazione delle tecniche.[8] La vita di compagnia trasmise al giovane l’eredità variegata dei linguaggi scenici tradizionali educandolo all’arte mediante esempi e pratica, costringendolo a capire in qual modo stabilire la comunicazione con il pubblico. Nonostante l’evidente intenzione di catturare il lettore delle proprie memorie mediante una narrazione autoironica e leggera, indugiando non poco sulle “papere” giovanili per ingraziarsene la benevolenza, Scarpetta non riesce a nascondere un certo distacco per quei primi incarichi di palcoscenico, l’insofferenza nei confronti di un repertorio drammatico di stampo romantico realizzato con scenografie di cartapesta, con costumi e trucco inadeguati. Il teatro che realizzò successivamente, nel 1880, fu infatti un nuovo San Carlino, restaurato, elegante, con scenografie e costumi decorosi.

Gli anni del duro praticantato di palcoscenico crearono in lui l’istanza della scrittura quale strategia di riscatto e di riconoscimento del proprio talento comico. L’exploit d’autore gli consentì, infatti, di mettersi in luce agli occhi del capocomico: quella nuova farsa, Pulcinella creduto moglie di un finto marito, dopo qualche isolato rodaggio di palcoscenico e con i conseguenti correttivi, venne alla fine inserita stabilmente in repertorio.[9] Nelle memorie Scarpetta racconta di essere stato presentato al pubblico soltanto in qualità di autore di quella farsa, portato in palcoscenico per ben due volte «dai quei bravi comici che erano stati tutt’i migliori collaboratori di quel mio primo successo».[10]  L’azione riequilibratrice della scrittura sulle défaillances della scena produsse infine i frutti desiderati anche sul versante della recitazione: fu proprio dopo questo successo d’autore, stando a Scarpetta, che il suo talento comico di attore fu preso in considerazione all’interno della compagnia.

Fu da quella sera che Gaetano Pastena e Raffaele Marino presero a volermi bene, e mi appiopparono il nomignolo di comicuccio. Per essi, io rappresentavo, fin da allora, una giovane speranza del teatro comico, mentre per Antonio Gagliardi non fui mai altro che la vera negazione dell’arte drammatica.[11]

L’inizio del suo successo teatrale come attore è di poco successivo e si lega, come è noto, alla rappresentazione di una vecchia farsa di repertorio, Pulcinella spaventato da un cadavere di legno, appositamente scelta da Raffaele Marino onde valorizzare Scarpetta nel ruolo di “mamo”, un giovanetto scapestrato, impulsivo, ora sciocco, ora furbetto col nome di Felicello. Nelle memorie del 1922, Scarpetta volle fissare il punto di partenza del processo creativo-professionale che lo portò al successo nel carattere di questo personaggio, come a sottolineare che la sua riforma teatrale affondasse saldamente le proprie radici nella tradizione napoletana. Narrò, infatti, con imprevedibili consonanze pirandelliane, che studiando la parte, Felicello s’incarnò improvvisamente innanzi ai suoi occhi:

Un monellaccio lacero, affamato, pallido e tremante, sale a quattro a quattro i gradini. Qualcuno lo insegue, ed egli nasconde sotto la giacca una pizza rubata. Cerca un rifugio, un nascondiglio, non sa più dove cacciarsi, e mi capita in camera all’improvviso, come una palla, come una bomba. Il libro mi cade dalle mani. Io riconosco quel ragazzo. Do un grido: «È lui… È lui!». E così, in quella notte memoranda, io conobbi il mio amico… Feliciello Sciosciammocca.[12]

La farsa, tramandata nelle memorie col titolo Felicello Sciosciammocca mariuolo de ‘na pizza,  andò in scena il 7 giugno 1871 al Teatro Partenope e riscosse un buon successo per effetto dell’interpretazione dello Scarpetta che fece di quel misero scugnizzo della tradizione un personaggio diverso, ben vestito, viziatello, tutto mimica ed energia, sperimentando gli effetti della comicità ora con la connotazione della stoltezza ora con quella della furberia. Gli esiti furono tali da riaprirgli le porte del San Carlino, l’ambìto traguardo cui egli guardava costantemente anche durante la militanza al Partenope, scritturato tra gli attori della compagnia di Giuseppe Maria Luzi, capitanata da Antonio Petito, il più famoso Pulcinella del teatro napoletano.

3. Il praticantato drammaturgico a fianco di Antonio Petito

Gli anni della scrittura al San Carlino (1872-1877), della fuoruscita, del temporaneo rientro e dell’ultimo abbandono girovagando per vari teatri napoletani e italiani (1877-1880) fino alla riconquista del San Carlino in qualità di capocomico (1880) sono stati dettagliatamente ricostruiti e qui intendiamo soffermarci soltanto su alcuni aspetti della formazione dell’autore-attore senza perdere di vista il ruolo determinante della complementarità, cui si è già fatto cenno, tra interpretazione e scrittura.

Diversamente dal Partenope, il San Carlino apprezzò dapprima lo Scarpetta attore e poi scoprì l’autore, facendolo debuttare nella farsa che lo aveva reso celebre: Pulcinella spaventato da un cadavere di legno con Felicello mariuolo de ‘na pizza (quasi certamente con qualche ulteriore aggiustamento nel copione oltre che nel titolo) e impegnandolo, poi, in Pulcinella solachianello arrozzuto (maggio 1872), una vecchia farsa di repertorio, riammodernata dal Petito sulle misure del giovane buffo scarpettiano, Felice Sciosciammocca.[13]

La militanza a fianco del più importante Pulcinella napoletano, Antonio Petito, costituì per il giovane Scarpetta un’esperienza formativa fondamentale sotto tutti i punti di vista e in particolare quello della scrittura.[14] Il quinquennio della formazione scarpettiana sotto Petito comportò in primo luogo l’acquisizione del punto di vista della comicità come parametro esclusivo della composizione. Rispetto ai valori etico-ideologici – e rigidamente livellatori sul piano linguistico – della commedia sociale, veicolati dall’impegno unitario del governo della Destra storica, la drammaturgia sancarliniana aveva risposto con un profluvio di testi comici frutto della esperienza dei suoi attori-autori. Più precisamente:

Quasi sempre, si trattasse di parodia o di satira, di libero istrionismo o di leggera moralità, Petito aveva trasformato l’occasione testuale in un’occasione carnevalesca, la cui fonte ispiratrice e ideologica risiedeva nella stessa tecnica d’attore: gli oggetti, i personaggi, i fatti e le idee, quando entravano in contatto con il suo metamorfismo, risultavano denigrati d’istinto. Al di là della parabola didattica, l’autonomia del mestiere comico garantì a questo ultimo Pulcinella un antidoto sicuro contro l’accettazione passiva della tradizione alta, che pure era stata sempre la naturale matrice del teatro dialettale napoletano: fu la versione laica dell’ambigua resistenza antiborghese di Mastriani.[15]

L’ottica autonoma del mestiere comico fu l’acquisizione più importante e costituì la base permanente del profilo d’autore di Scarpetta, il quale poi s’impadronì via via delle tecniche e della velocità di composizione per l’aggiornamento costante del repertorio; divenne esperto nell’attingere al giacimento comune della tradizione teatrale partenopea rimontando intrecci, trovate, situazioni collaudate; imparò a rielaborare originalmente tali materiali basandosi sulle risorse attoriche a disposizione, comprendendo il giusto modo di relazionarsi con le gerarchie interne alla compagnia e accordando le non facili esigenze dei singoli attori. Si persuase, così, che la dinamica del libero scambio di trame, intrecci, motivi comici, rientrasse nella normale prassi teatrale e tale persuasione, assunta poi come una sorta di diritto consuetudinario, lo indusse, più tardi, come si vedrà, a scontrarsi con le posizioni dagli autori-letterati, esigenti difensori dell’esclusiva del diritto d’autore.

Negli anni, invece, in cui operavano Petito e la folta cerchia di autori-attori del teatro dialettale, la paternità di un testo non era percepita come vincolo: ogni testo, soprattutto se di successo, provocava emulazione competitiva, parodia, rielaborazione per nuove e simili messe in scena.[16]

Per Scarpetta Petito creò il nuovo tipo “borghese” di Don Felice Sciosciammocca allo scopo di sfruttare il contrasto comico con la propria maschera, sempre guizzante di invenzioni buffonesche, ma popolarmente saggia e generosa.[17] Sotto questo aspetto, ossia la caratterizzazione sociale del personaggio, Petito sembra aver avuto il merito di aver indirizzato il giovane Scarpetta verso una tipizzazione meno distante dalla realtà storica e sociale contemporanea. Il nuovo protagonismo della classe borghese della drammaturgia scarpettiana troverebbe così già in Petito un modello di riferimento efficace nel corso del lungo e non sempre idilliaco tirocinio teatrale.[18] Un apprendistato che già nel 1872 trasformò il buffo Sciosciammocca in un attore di successo e lo collocò in una posizione di notevole prestigio all’interno della compagnia, alla pari degli altri colleghi più anziani e rodati, suscitando molta invidia e malanimo. Nell’autobiografia Scarpetta narrò con dovizia di particolari la guerra mossagli dai colleghi ma, intanto, nel 1873 recitava nell’Aida dint’a casa ‘e Donna Tolla Pandola, una delle parodie più famose di Petito, assimilando tecniche d’autore e controllo del quadro d’insieme, in virtù di un ruolo relativamente marginale.

Già l’argomento della parodia induce a comprendere la variegata composizione sociale del pubblico sancarliniano di questa epoca: non più univocamente popolare, ma comprensiva di ampie rappresentanze dell’aristocrazia, della buona borghesia e della media e piccola borghesia. Il re stesso, Vittorio Emanule II, si recò ripetutamente al San Carlino, tra il 1874 e il 1876, per assistere alle prodezze di Petito e Sciosciammocca.[19] Scarpetta non si lasciò sfuggire l’evoluzione sociale del pubblico assecondata dal repertorio petitiano e comprese l’importanza della tournée, partecipando ai viaggi della compagnia che esportava oltreconfine i propri successi.

Ancora da Petito Scarpetta apprese a sfruttare le novità del teatro francese. L’interprete di Pulcinella presentò la sua Figlia di Madama Carnacotta del 1874 (parodia della celebre Figlia di Madame Angot di Lecocq, in scena in quei giorni al Teatro Nuovo di Napoli) deviando dal canone sperimentato con l’Aida: qui, infatti, mancava il riferimento diretto al testo originale e inoltre: «l’autore utilizza l’espediente di ribaltare intreccio e personaggi simili sul terreno della cultura popolare»,[20] un espediente che trovò in Scarpetta un alunno molto attento. È probabile che la terza opera scarpettiana rappresentata sia stata anche la sua prima riduzione francese: È buscia o verità ossia Pulcinella mbrugliune p’ammore e Sciosciammocca busciardo per necessità tratto, a quanto pare, da Le menteur veridique di Eugène Scribe (1823); si tratterebbe del suo debutto nella sperimentazione delle fabulae francesi in chiave napoletana destinato a trasformarsi nell’articolata formula drammaturgica degli anni Ottanta.[21] All’inizio del 1874 ottenne la sua prima serata d’onore. Sfruttò l’occasione presentando un nuovo testo di sua composizione, Quindici solde so cchiù assaje de seimila lire con Pulcinella e Sciosciammocca mbrogliati nfra ‘no portafoglio ricco e n’auto pezzente ed ebbe buon esito.

4. Il successore di Petito

Era una sorta di autocandidatura che di lì a poco tempo si sarebbe trasformata, per effetto di angosciose necessità, in un ingaggio permanente: se infatti il 1875 si svolse felicemente all’insegna della produzione petitiana, il 24 marzo 1876 il grande Totonno morì d’infarto in scena, lasciando il San Carlino improvvisamente privo del suo primo attore, del suo prolifico autore, dell’ago della bilancia dell’ensemble. Il rischio della dissoluzione della compagnia suggerì all’impresario Luzi di tamponare l’emergenza cercando un nuovo interprete per la maschera di Pulcinella (Giuseppe De Martino) e investendo Eduardo Scarpetta della responsabilità di diventare il nuovo autore del San Carlino senza interrompere le sue esibizioni in palcoscenico come Sciosciammocca. Dapprima compose commedie prive della maschera di Pulcinella e centrate sul proprio personaggio, onde lasciare al Luzi il tempo di reperire il nuovo Pulcinella, successivamente restaurò il contrasto farsesco della maschera partenopea con Sciosciammocca.

L’intensità dello sforzo rivelò il dominio tecnico frattanto acquisito. Scarpetta fu buon esecutore di opere a intreccio complesso, con sorprese, colpi di scena e caratterizzazioni in un vorticoso costruire e scomporre le strutture tradizionali, cogliendo i maggiori successi nelle commedie più fedeli al magistero petitiano (La gran festa popolare de li gigli de Nola con Pulcinella e Sciosciammocca mbrogliate pe ‘na soppressata de settemila lire; Ovè mammà? Con Pulcinella venditore di Crì-Crìe ammoinato co lo buffo Barilotto lo Guappo Napoletano, la vecchia caratterista e Sciosciammocca pe’ la Gran Cavalcata dell’Emiro a la festa de Piedigrotta, 1876); nella parodia d’attualità (Li tranways de Napole, 1876; L’uomo cannone, 1877) e nella commedia fantastica ‘No bastone di fuoco ossia Pulcinella e Sciosciammocca protetti da la statua de zi’ Giacomo e creduti stregoni da buffo Barilotto (1877) con diciotto personaggi e sorprendenti cambi di scena.

Ormai la stampa cittadina aveva preso a identificarlo come il successore di Petito, ufficializzando il suo ruolo di autore. Nonostante tale riconoscimento, l’impegno profuso da Scarpetta in tal genere di composizioni avvenne in una forma di professionale distacco, obbedendo senza autentica adesione  alla strategia impresariale del Luzi, preoccupato soprattutto di recuperare la fetta di pubblico perduta dopo la scomparsa di Petito. Nelle memorie, infatti, sia pure con tendenziosità, Scarpetta condannò senza appello proprio quei generi spettacolari di cui egli stesso era l’autore in quel periodo:

Da allora non si rappresentarono più che fiabe ed operette. Intanto il pubblico disertava sempre più il teatro, e Giuseppe Luzi si vide a un tratto perduto.[22]

In effetti la crisi del San Carlino non fu ripianata e lo stesso impresario finì per soccombere sotto il peso dei debiti e delle preoccupazioni morendo a sua volta d’infarto il 22 luglio del 1877. Con la nuova impresa, ereditata dalla vedova del Luzi, Scarpetta lavorò ancora per poco tempo, a causa del mancato rispetto degli accordi pattuiti.

Se il biennio 1876-1877 aveva, dunque, accertato la capacità scarpettiana di padroneggiare la variegata tipologia degli stilemi tradizionali, il triennio successivo rivelò la sua disponibilità a intercettare le preferenze del pubblico di varie città italiane con cui entrò in contatto. Al Teatro Metastasio di Roma notò, ad esempio, la persistente fortuna di Madame Angot e qui reincontrò Amalia de Crescenzo, destinata a diventare, di lì a poco, la prima donna della compagnia da lui diretta al Teatro delle Varietà di Napoli nel 1879. Fu qui, infatti, che esordì come capocomico, in un teatrino di terz’ordine dotato però di uno scenario «sfarzosissimo» e di costumi ammirevoli.[23]

Esordì con un testo di sua invenzione, dal titolo metateatrale e autobiografico: ’Na Compagnia comica diretta dal Cav. Felice Sciosciammocca contando evidentemente sulla buona disposizione del pubblico napoletano nei confronti del proprio personaggio comico, ormai saldamente radicato nella memoria collettiva.[24] E aveva ragione: la stampa accolse con favore il suo repertorio, composto di commedie, fiabe, operette e farse con la intramontabile coppia Pulcinella-Sciosciammocca, senza molto allontanarsi dal modello sancarliniano.[25]

L’anno comico 1879-1880 segnò, però, una tappa importante anche per la tournée della compagnia del Teatro delle Varietà attraverso importanti piazze teatrali nazionali: Milano, Torino, Livorno. Fu la fase dell’allargamento degli orizzonti di Scarpetta e quello delle alleanze con alcuni comici settentrionali, segnatamente Ferravilla, affini al suo modo di lavorare, verificando insieme prospettive e potenzialità. L’inizio del nuovo decennio fu all’insegna della vittoria della Sinistra (1876) che allentò il dirigismo centralizzatore del precedente governo consentendo una più libera aggregazione delle iniziative imprenditoriali a livello locale. La reazione all’assolutismo linguistico favorì la riscoperta delle potenzialità del dialetto soprattutto sul versante della commedia rivitalizzando realtà teatrali avvilite o scomparse.[26] Le tournées diventarono un momento importante nella vita delle compagnie dialettali che ebbero modo di collaudarsi affrontando le differenze delle nuove piazze teatrali.

In questo nuovo clima la tappa milanese di Scarpetta presenta vari motivi di interesse alla luce delle scelte che egli compì di lì a pochi mesi. La compagnia del Teatro delle Varietà iniziò la tournée esibendosi al Teatro Milanese, fondato nel 1870 da Cletto Arrighi, dotato di una compagnia stabile (Gaetano Sbodio, Edoardo Giraud, Edoardo Ferravilla e Emma Ivon) e con un repertorio comico e drammatico in dialetto composto di opere originali (arricchito anche dal contributo di altri autori) ma soprattutto da molte riduzioni dal francese in lingua meneghina.[27] Nel 1876 non ottemperando agli obblighi d’onorario nei confronti degli attori, Arrighi venne espulso dalla compagnia del Teatro Milanese la quale passò sotto la guida di Edoardo Ferravilla. Il celebre attore si era rivelato nel Barchet de Buffalora, riduzione del vaudeville La Cagnotte di Labiche; dopo il ’76 compose esili intelaiature drammaturgiche, desunte per lo più da testi stranieri o italiani, al fine di dare risalto alle sue celebri tipizzazioni caricaturali del ceto popolare o piccolo borghese (Massinelli, El Sur Pànera, El Tecoppa) che conquistarono il favore cittadino e una eco nazionale. Nelle sue memorie Scarpetta rievoca la permanenza nel capoluogo lombardo con vivo piacere ed evidenzia il suo personale contributo di autore al Teatro Milanese, per il quale compose ‘Nu milanese a Napole in cui Emma Ivon, nel ruolo di servetta, parlò napoletano, mentre Ferravilla e Scarpetta recitarono con tale brio da dover calare la tela per nascondere al pubblico il loro stesso divertimento.[28]

Per Scarpetta la tappa milanese costituì la prova evidente delle potenzialità di un radicale aggiornamento del teatro regionale utilizzando le strutture drammaturgiche d’oltralpe tematicamente più interessanti per la classe borghese in ascesa, desiderosa di vedersi ritratta nella sua particolarità locale. Milano fu anche il luogo d’incontro con altri autori, come il livornese Giovanni Salvestri, che avrebbe offerto spontaneamente a Scarpetta la sua commedia Fatemi la corte per una riduzione in napoletano, come poi avvenne.[29] Lasciata Milano, la compagnia sostò a Torino e poi raggiunse Livorno in giugno, dove, nonostante l’ottima accoglienza del pubblico del Teatro Goldoni, fu costretta a sciogliersi a causa della cattiva amministrazione dell’impresa.

5. Il repertorio riformato

Prima di arrivare all’aperta manifestazione delle proprie intenzioni “riformatrici”, Scarpetta attese con ogni cura ad accreditarsi in città come l’erede della tradizione sancarliniana (tra gli altri temibili competitori c’era in primo luogo Davide Petito).[30] Se voleva riscuotere il consenso del pubblico napoletano, il suo nuovo teatro si sarebbe dovuto presentare come evoluzione e non come soluzione di continuità, specialmente nella prima fase. Rivelatrice, proprio sotto questo aspetto, fu la scelta dell’edificio: lo storico San Carlino, gloriosa scaturigine della commedia napoletana, fu voluto a ogni costo benché finanziariamente inadatto a un investimento, poiché era a tutti noto l’anno ineluttabile della sua demolizione, il 1884, quando le ruspe avrebbero abbattuto gli edifici dell’antico Largo di Castello per attuare i progetti del nuovo piano urbanistico denominato Risanamento. Ma evidentemente Scarpetta giudicava sufficiente quel periodo (1880-1884) per radicare saldamente la sua nuova identità. E così provvide al nuovo decoro “borghese” della sala, ornandola con stucchi e ori, provvedendola di poltroncine di platea e nuova illuminazione al fine di innalzare quel vecchio teatrino alla dignità delle maggiori sale cittadine. Sotto l’egida della continuità si colloca anche la scelta di scritturare il vecchio Pasquale de Angelis, celeberrima gloria del San Carlino ai tempi di Petito: idea rivelatasi tristemente inutile, per quanto simbolicamente intensa, poiché il vecchio attore morì proprio il giorno dell’inaugurazione. Ad ogni modo la nuova compagnia fu composta da attori professionalmente solidi, ma «docili», a detta di Scarpetta, alle sue direttive nell’impersonare figure e tipi differenti da quelli della tradizione.

Il difficile consisteva nella scelta; e scegliendoli io mi lasciai guidare non solo dall’esperienza del teatro ma dalle esigenze di quel nuovo repertorio, che vagheggiavo, il solo, l’unico, che reputavo adatto ai tempi mutati, e che mi proponevo di far accettare al pubblico, a poco a poco, senza urtarlo soverchiamente.[31]

“Gradualità” fu la parola d’ordine riguardo all’abolizione delle maschere. Pulcinella (Cesare Teodoro, l’ultimo Pulcinella del vecchio San Carlino) venne progressivamente marginalizzato, rifluendo dapprima nelle farse finali, per poi sparire definitivamente con l’attribuzione all’attore del ruolo di caratterista. Analogo destino era riservato anche alle altre maschere del Guappo (Gennaro Pantalena) e di Tartaglia (Michele Berardinelli), via via ritradotte nei ruoli di caratteristi e personaggi tipici.[32] Sciosciammocca, lui stesso «mezza maschera» di buffo sancarliniano, si frantumò in una variegata gamma di personaggi come altrettanti modelli controfattuali della borghesia guardata «dal basso»[33] ma in modo deformante:

Il suo status varierà da opera a opera, ma il cui modello creaturale sarà sostanzialmente lo stesso: il piccolo-borghese “investito”, sì, “dal basso” ma con un’ottica grottesca disumanizzante.[34]

Quanto al repertorio, è noto, Scarpetta si proponeva di aggiornare l’offerta del teatro dialettale sui modelli del teatro comico contemporaneo, con particolare riguardo ai generi francesi del vaudeville, della commedia e dell’operetta.

Chi era solito frequentare il teatro di prosa, e aveva sentito le commedie del Labiche e dell’Halevy e le pochades del Gondinet, dell’Hennequin e del Njac doveva necessariamente sbadigliare assistendo alla rappresentazione d’una commedia del Cammarano, dell’Altavilla e del Petito. I lazzi del Pulcinella non potevano non parere insipidi a chi aveva assaggiato le salaci arguzie dei dialoghi francesi; e chi si era abituato a vedere sulle scene attori ben pettinati e ben vestiti sopportava malvolentieri la sciatteria dei comici dialettali, dai quali cominciava a pretendere il medesimo affiatamento, cui dedicavano tanto studio e tanta cura i comici delle compagnie italiane di prosa.[35]

Anche qui, tuttavia, egli inoculò il nuovo goccia a goccia: inaugurò il nuovo San Carlino il 1° settembre 1880 con un proprio testo già rappresentato l’anno precedente al Teatro delle Varietà, modificandone il titolo: Il Cav. D. Felice Sciosciammocca direttore di una compagnia comica, seguito dalla farsa Gli amori di D. Felice. Solo successivamente Scarpetta presentò, il 7 settembre 1880, la prima commedia del repertorio “riformato”: Tetillo, traduzione e riduzione del vaudeville Bebé di Émile de Najac e Alfred-Néoclès Hennequin, andato in scena per la prima volta a Parigi, al Théatre Gymnase, il 10 marzo 1877.

Proprio in questa circostanza Scarpetta fu attento a stabilire con il pubblico il giusto canale di comunicazione, sintonizzandosi con le consuetudini della fruizione napoletana. Solo a questa condizione la novità poteva essere recepita e apprezzata: Scarpetta puntò sull’abitudine del pubblico del San Carlino al rovesciamento parodistico verso il “basso” dialettale dei melodrammi del San Carlo o della prosa del Teatro dei Fiorentini. Bebé era già stato rappresentato a Napoli in lingua italiana al Teatro dei Fiorentini il 25 maggio 1877.[36] La riproposizione sul palcoscenico del San Carlino di una pièce già vista in un teatro d’ordine maggiore costituiva una sicura base d’intesa col pubblico, garantita storicamente dal genere della parodia; se poi Scarpetta compose raramente parodie di propria invenzione, ciò non impedì che egli si servisse costantemente dell’azione mediatrice di questo genere tradizionale per veicolare i testi del suo repertorio riformato.[37]

La parodia in Scarpetta fu medium e, più in profondità, fu la forma mentis della sua invenzione comica. Tale prospettiva, unita all’affiatamento della compagnia, alla recitazione spontanea, all’appropriatezza dei costumi e della scena, fece sì che Tetillo, pur contravvenendo all’antica convenzione del saluto finale, fosse replicato per ben ottanta giorni, dice Scarpetta (recitando all’epoca due volte al giorno, lo spettacolo sarebbe stato ripetuto per centosessanta volte consecutive). È probabile che Tetillo sia stato anteposto in programma a Mettiteve a fa l’ammore co mme, ossia al salvestriano Fatemi la corte già ridotto in napoletano ai tempi del Teatro delle Varietà, proprio perché non era mai stato rappresentato a Napoli, rischiando, così, l’insuccesso. Non potendo certo qui ricostruire con completezza l’intero calendario teatrale scarpettiano ci limitiamo a ricordare soltanto pochi titoli emblematici. Dopo Mettiteve a fa l’ammore co mme (18 marzo 1880) vi fu alternanza di commedie originali e di altre riduzioni dal francese: Duje marite ‘mbrugliune (23 ottobre 1880 tratto da Le dominos roses di Delacour e Hennequin, già presentato al Fiorentini nel 1876) e, il 15 gennaio 1881, ‘O Scarfalietto, da La Boule di H. Meilhac e L. Halévy, che fu un franco e clamoroso successo (già presentato a Napoli, sempre al Fiorentini, nel 1877).

Passando in rassegna la preziosa schedatura delle riduzioni scarpettiane dal 1880 al 1907 compilata da Ivana Guidi, si può notare come Scarpetta, giunto al pieno successo nella seconda metà degli anni Ottanta, rovesciasse il rapporto temporale giocando d’anticipo, vale a dire presentando le proprie riduzioni prima delle rappresentazioni napoletane, anzi creando, in alcuni casi, il presupposto per il loro debutto sulla piazza partenopea.[38] Numericamente le riduzioni ricoprono il 43,6% del totale delle opere scarpettiane (sessantadue riduzioni su centoquarantadue opere) e nei loro confronti l’autore si mise in gioco tanto quanto nelle sue commedie originali.[39] A esse Scarpetta dedicò pagine specifiche dell’autobiografia (capitolo XVII) illustrando motivazioni e metodi con esempi puntuali ai quali per brevità possiamo soltanto rinviare evidenziando gli aspetti salienti del modus operandi poiché «tradurre è un conto, ridurre è un altro».[40]

Scarpetta si sentì in diritto di tagliare, spostare, aggiungere, creare “macchiette” e soprattutto rivivere tutto il testo «nell’ambiente del teatro pel quale si scrive».[41] Il punto d’arrivo del percorso della traduzione/adattamento era, infatti, l’individuazione delle giuste equivalenze per la scena, per gli attori e per il pubblico napoletano. Sarebbe un errore limitare la cosiddetta riforma scarpettiana alla sostituzione del modello della commedia borghese in luogo della farsesca, all’introduzione delle pièces francesi ridotte in dialetto e alla progressiva abolizione delle maschere. In realtà egli rielaborò in profondità ed estensione il linguaggio drammaturgico del comico riutilizzando in termini di tecnica tutto lo zibaldone farsesco introiettato fin dai tempi dell’apprendistato presso Petito e ponendo i materiali borghesi o farseschi, d’invenzione o d’importazione, sotto la lente deformante dell’elaborazione au second degrée, creando “macchiette”, tipizzazioni familiari al gusto napoletano, parodiando i modelli francesi: il vero punto di forza del rinnovamento scarpettiano si situa più al livello dei linguaggi e delle forme che non a quello dei contenuti.

Come osserva Ferrone:

In ogni caso esisteva un dispositivo di sicurezza che permetteva al comico di accedere ai gusti più esigenti del pubblico decoro, ed era, insieme al fine edificante e satirico, l’applicazione del registro buffo e del rovesciamento irridente non più alle cose, ai personaggi e ai comportamenti, ma al linguaggio e alla struttura dello stesso organismo teatrale.[42]

A sospingere il suo operare entro la dimensione del significante concorrevano del resto vari fattori: il trasferimento delle fabulae da una lingua all’altra (francese-italiano-napoletano), l’alterità della fruizione e della cultura teatrale locale rispetto a quella francese (di ironico rispecchiamento), italiana (di imitazione), napoletana (di parodia). Se ne alimentava il processo di riaffioramento di una coerenza testuale omogenea dalla molteplicità delle stratificazioni drammaturgiche d’origine, di transito e d’arrivo. Si veda ad esempio cosa racconta Scarpetta a proposito della sua riduzione ‘E nepute d’ ‘o sinneco (1885). La condizione che gli era più congeniale per scegliere un testo era quella dello spettatore, poiché si recava spesso a teatro per aggiornarsi e per ricevere suggestioni.

Si trovava dunque in un teatro napoletano, nel 1882, per assistere all’operetta La notte fatale, rappresentata dalla compagnia Franceschini. Lo spettacolo venne sonoramente fischiato, come era accaduto anche in altre piazze italiane, ma Scarpetta vi intravide la possibilità di trarre vantaggio dagli errori altrui. Messosi in caccia del libretto originale, scoprì essere Le droit d’un aîné di Paul Burani. Dal francese, passò a una traduzione italiana e di lì alla riduzione in dialetto la quale, diversamente dall’opera del Franceschini, raccolse molto successo sia a Napoli che a Roma, a riprova delle sue doti di autore più che di riduttore. Ma le modalità della scelta furono differenti, a volte casuali. Si pensi a ‘Na santarella, epocale successo scarpettiano del 1889. Si trovava solo a Milano nel 1888 perché tutta la sua compagnia, capeggiata da Pantalena e De Crescenzo, lo aveva abbandonato per formare compagnia autonoma, dedita al nuovo repertorio del teatro d’Arte. Gli furono recapitate da un amico due traduzioni italiane di cui la più interessante per lui fu Mam’zelle Nitouche di H. Meilhac e A. Millaud. Su quella imbastitura ricompose la sua ‘Na Santarella con cui debuttò al Teatro Sannazaro di Napoli con una nuova compagnia di cui faceva parte Marietta Gaudiosi che nel ruolo della giovane protagonista ammaliò le platee.

In queste operazioni di artigianato metalinguistico è da riconoscere l’aspetto più interessante del lavoro drammaturgico scarpettiano, dello scrittore che si serve di materiali teatrali altrui pensando ai propri attori, al proprio teatro, al pubblico. Con ciò, ovviamente, nulla va sottratto all’autore di Miseria e nobiltà, ma evidenziare le modalità delle rielaborazioni consente di meglio comprendere le ragioni che indussero Scarpetta a promuoversi come autore di teatro.

6. Le polemiche sul Teatro dialettale d’Arte e l’antiscarpettismo

I più importanti spettacoli scarpettiani nei decenni a cavallo fra vecchio e nuovo secolo si configurarono come punti cospicui nell’orizzonte teatrale napoletano suscitando sempre vivaci polemiche in cui si condensarono i nuclei tematici discriminanti tra vecchio e nuovo teatro dialettale. Tutto ciò avvenne in una città in cui l’accostamento al naturalismo si era imposto all’attenzione per il tramite illustre di Francesco de Sanctis, con lo Studio sopra Zola (1877) e la conferenza Zola e l’Assommoir (1879), mentre al teatro dei Fiorentini aveva trionfato Teresa Raquin di Giacinta Pezzana (1879): una sincronia indicativa della acuìta sensibilità della cultura partenopea rispetto alla rappresentazione del mondo popolare e all’uso del dialetto, tematiche rilanciate dal dibattito nazionale e internazionale dall’affermazione del verismo a teatro.[43]

La prima, breve, fase polemica si colloca dopo il successo dello Scarfalietto, nel 1881, e nasce sulle scene del Teatro Partenope, nel popolare quartiere di Foria, diretto dal già menzionato Davide Petito, fratello del compianto Antonio e quindi degno avversario di Scarpetta nella rivendicazione dell’eredità sancarliniana. Il Petito pose in scena una farsa dal titolo emblematico Na’ mazziata morale fatta da Pulecenella Cetrulo a Don Felice Sciosciammocca ovvero l’apoteosi della maschera napoletana (24 gennaio 1881) scritta da Domenico Jaccarino con l’evidente intenzione di colpire Scarpetta nella sua riforma.[44] Scarpetta dichiarò, nell’autobiografia, che la rappresentazione cadde: non fu così; venne invece applaudita dal pubblico di Foria, amante delle sue tradizioni. Quella farsa venne però condannata senza appello da due importanti firme del giornalismo napoletano, Michele Uda («Il Pungolo») e Francesco Verdinois («Il Corriere del mattino»), i quali si schierarono su fronti contrapposti in relazione al teatro di Scarpetta. Uda fu sostenitore del repertorio riformato, considerando Pulcinella e le maschere un ostacolo allo sviluppo del nuovo teatro napoletano di cui Scarpetta era «una preparazione».[45] Federico Verdinois, pur concordando sull’esaurimento della vitalità del filone tradizionale delle maschere, negò che la via imboccata da Scarpetta conducesse a una nuova rappresentazione del mondo popolare, perché egli traduceva in napoletano figure e comportamenti attinti dall’estero; per costruire il teatro popolare, sosteneva Verdinois, occorreva ispirarsi alle migliori commedie napoletane del passato, come quelle del Cammarano, oppure ai modelli veneziani di Angelo Moro Lin, ma non certo al vaudeville francese.[46] Uda e Verdinois, pur anticipando alcuni temi dei dibattiti futuri, non furono tuttavia in grado di uscire da certe formule (far risorgere il teatro “popolare”) ambiguamente riecheggianti le istanze risorgimentali e la polemica si concluse di nuovo a teatro, ma questa volta al San Carlino, dove il 2 febbraio 1881 Scarpetta rappresentò Nu surdato mbriaco a lo vascio de la Sie’ Stella di Filippo Cammarano, e subito dopo Duje marite ‘mbrugliune. Il confronto tra vecchio e nuovo fu tutto a favore di Scarpetta il quale, grazie alla notorietà dei due giornalisti, colse l’opportunità di rilanciare l’importanza del suo teatro anche a livello nazionale.

La seconda fase polemica si avviò in sordina verso la fine degli anni Ottanta prolungandosi però per il resto della vita di Scarpetta, anche dopo il suo abbandono delle scene. Se Cavalleria rusticana (1884) aveva aperto la stagione del verismo a livello nazionale, a Napoli ‘O buono marito fa ‘a bona mugliera (1886) svolse ufficio equivalente, ma non nel senso del verismo; il testo era, infatti, la traduzione in dialetto napoletano dei Mariti di Achille Torelli di venti anni precedente, curata dall’autore stesso, affiancato da Salvatore Di Giacomo. Fu rappresentata nel 1886 da un importante attore di Scarpetta, Gennaro Pantalena, resosi indipendente e postosi alla guida di una autonoma formazione al Teatro La Fenice. Miseria e nobiltà, il capolavoro originale di Scarpetta, rappresentato dalla compagnia scarpettiana al Teatro del Fondo nel 1888, nacque già nel clima della contrapposizione che si era profilata.

Su di un fronte si collocava, dunque, Scarpetta, da solo, con il suo modello teatrale orientato esclusivamente verso la comicità, animato da figure, ambienti e situazioni borghesi, espresso in un dialetto sintonizzato sulla risonanza del quotidiano; sull’altro fronte si arroccava una schiera (in verità fittamente variegata al suo interno) di artisti e intellettuali accomunati dall’interesse per una rinnovata rappresentazione del mondo popolare e dalla netta condanna del teatro scarpettiano. Una galassia di sperimentazioni linguistiche cangianti produsse innumerevoli soluzioni: la lingua napoletana poetica, elevata e non popolare di Salvatore Di Giacomo, la miscela sperimentale di dialetto e italiano di Roberto Bracco, la tagliente verità espressiva di Ferdinando Russo.

È arduo accertare l’origine della formula di “Teatro dialettale d’Arte” nella specifica accezione antiscarpettiana poi diventata diffusissima.[47] Forse fu anche questa di conio digiacomiano; funzionò da massimo comune denominatore per una drammaturgia d’autore distillata troppo lentamente per le esigenze teatrali del tempo.[48] Venne tuttavia rappresentata volenterosamente dal Pantalena nonostante gli scarsi guadagni e i conseguenti scioglimenti della compagnia. Fu recitata Gnesella, di Francesco Starace (1895) e ‘A trummetta ‘a Vicaria, riduzione dalla goldonina Bottega del caffè a cura di Vincenzo Di Napoli. Nel 1900 Pantalena tentò la rinascita del repertorio sancarliniano con il Pulcinella Giuseppe De Martino al Teatro Nuovo; ma anche questa fu un’iniziativa di breve respiro. E infine, dopo l’ennesimo andirivieni con Scarpetta, Pantalena recitò con successo Monsignor Perrelli, sempre dello Starace (1904). Nel 1905 presentò al Teatro Nuovo un più nutrito repertorio del Teatro dialettale d’Arte riscuotendo successi con: Casa antica di Libero Bovio (1906); Ognuno ‘o stato suio di Eduardo Minichini; ‘O quatte ‘e Maggio di Domenico Petriccione (1907). Nel 1909 la compagnia presentò Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo con Adelina Magnetti nel ruolo della protagonista e poi Addio mia bella Napoli di Ernesto Murolo e Malia di Luigi Capuana nella riduzione napoletana a cura di Libero Bovio.[49] L’irrobustirsi delle polemiche sul teatro dialettale si registrò nei primi anni del secolo quando un’innumerevole schiera di giornalisti, autori e studiosi animarono le pagine dei maggiori periodici italiani e napoletani: Diego Petriccione, Saverio Procida, Rocco Pagliara, Riccardo Forster, Stanislao Manca ma anche Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao.[50] L’acuirsi della polemica si registrò nel 1904, l’anno fatidico della caduta del Figlio di Iorio. D’altra parte Scarpetta, come dichiarò apertamente nell’autobiografia, non arretrò di fronte ai reiterati attacchi dei suoi nemici e anzi, dopo il ritiro dalle scene, ebbe l’agio di intensificare i suoi interventi.[51]

Il Teatro dialettale d’Arte era soprattutto un teatro d’autore, letterario, in molti casi con notevoli risultati. I drammaturghi di questo teatro condannarono Scarpetta perché traduceva dal francese e non creava nulla di suo. Per tutti costoro egli non ebbe altro merito artistico se non quello dell’attore, accomunandolo in tale giudizio a tutta la genia di autori-attori sancarliniani che l’avevano preceduto.[52] Tra Scarpetta e i drammaturghi del Teatro dialettale d’Arte vi fu totale contrapposizione e assoluto dissenso riguardo alla categoria del popolare a teatro: popolare per Scarpetta era il teatro dialettale comico, con le sue situazioni, i suoi equivoci, i  travestimenti, i suoi personaggi borghesi. Egli non riteneva che la plebe napoletana potesse essere soggetto teatrabile dal punto di vista della comicità.[53] Viceversa per Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Ernesto Murolo, Libero Bovio e molti altri autori e letterati, il “popolare”, coniugandosi con le istanze di innovazione stilistica e ideale del vero, significava ambientazione e personaggi tratti dalla viva immagine del popolo caratterizzato dalla fede, dalla dolorosa condizione del bisogno e dalla violenza. Nel teatro d’Arte la popolarità non implicava affatto comicità.

A parte la palese tendenziosità del mancato riconoscimento d’autore di opere originali da parte degli autori del Teatro d’Arte, è lecito chiedersi perché Scarpetta aprisse tanto spesso le porte dei suoi teatri alla drammaturgia francese volendo in realtà rappresentare in termini propri e patri la dimensione comica del vivere napoletano. Il paradosso è stato rilevato da Vicentini valutando la portata complessiva del fenomeno della traduzione in dialetto e non soltanto relativamente a Scarpetta. Vicentini spiega questa apparente contraddizione come segnale della consapevolezza maturata dagli autori-attori della propria diversità rispetto al teatro ufficiale in lingua, ossia come sviluppo di una recitazione commisurata alla specifica fruizione locale e in tal senso differente dalla norma.[54] In effetti la inarrestabile battaglia ingaggiata da Scarpetta contro gli autori del Teatro dialettale d’Arte mirava a difendere un’idea di teatro fondata sulla specifica consapevolezza del proprio linguaggio. Sotto questo aspetto Scarpetta era ben più moderno dei nuovi autori-letterati venendo così a costituire il solido tramite dell’arte scenica della “differenza” che fece di Napoli un centro di rigenerazione del teatro nazionale a partire dalla tradizione dialettale.

7. Un’opera sbagliata: il processo D’Annunzio-Scarpetta

Forse non sorprenderà che nella contingenza meno favorevole degli ultimi anni, agli esperimenti del nuovo, cui si è già accennato, Scarpetta affiancasse anche la ripresa del vecchio genere sancarliniano della parodia. La serie era iniziata con la Francesca da Rimini (1893) ed era proseguita con la Bohème di Puccini (1896), vera riproposizione del paradigma del testo petitiano Aida dint’a casa ‘e Donna Tolla Pandola (1873) esplicitamente evocato nel sottotitolo. L’elogio reiterato di Puccini, come di Verdi nel modello tradizionale, giunse alle orecchie del compositore lucchese che infatti venne ad applaudire Scarpetta.[55]

Dal confronto tra la Bohème e Il Figlio di Jorio emergono notevoli differenze. Sotto il comune titolo di parodie si celano, in realtà, due operazioni drammaturgiche completamente diverse. La Bohème si basava su un intreccio indipendente da quello dell’opera originale e, mediante il gioco del teatro nel teatro, attingeva a effetti di comicità e all’elogio dell’autore. Il figlio di Iorio era, invece, una puntuale parafrasi caricaturale della trama. Nessun effetto di teatro nel teatro, come nella Bohème, e, quanto all’autore, invece di elogiarlo se ne intaccava l’aura demiurgica, demistificando l’intangibilità del testo poetico a teatro. Parodia affatto diversa si rivelò essere, dunque, Il figlio di Iorio, rispecchiamento comico strutturato sulla conservazione dell’impianto narrativo originale, caratterizzata dal rovesciamento del maschile con il femminile (per il suo personaggio, Cornelio, ossia l’Ornella dannunziana, Scarpetta si era riservato anche un ulteriore travestimento in abiti femminili all’inizio del secondo atto), dal trasferimento dell’ambiente silvano in quello marino della cittadina di Pozzuoli e dalla traduzione in napoletano.[56] Il gioco delle equivalenze carnevalesche non risparmiava, però, l’aura sacrale del primitivismo abruzzese: la visione dell’angelo, le preghiere, la ripetizione delle formule, la deformazione dei nomi, i doppi sensi, i personaggi stessi (i mietitori violenti e temibili trasformati in uno schiamazzante assembramento di lavandaie, la fascinosa Mila tramutata nel ladruncolo Torillo, figlio superstite di Iorio dopo il rogo della sorella strega cui si fa esplicito riferimento) tutto veniva sottoposto al ridicolo. Il depotenziamento tragico non si arrestava davanti alla trasformazione dell’omicidio in un semplice pugno, riscrivendo tutto il testo in chiave burlesca. Eppure, con tutto ciò, come ha osservato Emma Giammattei, la parodia di Scarpetta sembra a momenti aspirare a un innalzamento espressivo dei versi dialettali come lingua poetica: «è significativo che nel riprendere i passi dotati di intrinseca liricità, Scarpetta non esitasse a ricorrere ai ritmi e alle atmosfere tipiche della poesia degiacomiana».[57] Le ragioni della deviazione del Figlio di Iorio dalla norma della parodia tradizionale si riconducono, allora, alla primaria necessità di Scarpetta di reagire all’invasione di campo della letteratura nei confronti del teatro e dei suoi linguaggi specifici.

Oltretutto a esacerbare l’animo di Scarpetta nei confronti del poeta-vate concorreva il clima fortemente intimidatorio instauratosi nei rapporti fra letterati e attori per effetto del rigoroso efficientismo dalla Società Italiana degli Autori diretta, dal 1896, da Marco Parga.[58] In questa nuova fase la S.I.A. si era dimostrata sempre più vigile e rigorosa nell’esigere che gli attori pagassero le dovute percentuali agli autori e per tal via nel reimpostare i rapporti fra le due categorie a tutto vantaggio degli autori.[59] Già a partire dalla fine degli anni Ottanta Scarpetta aveva sperimentato personalmente l’onere del nuovo mercato dei testi e delle privative: per Girolino e Pirolè (1889) aveva dovuto pagare i diritti d’autore a Bersezio che deteneva l’esclusiva della traduzione di Cocard et Bicoquet, da cui era tratta la riduzione scarpettiana. Alla S.I.A., alla quale non si era mai iscritto, aveva dovuto pagare i diritti per Nu cane bastardo (1898) da Il viaggio dei Berluron di Ordonneau, Keroul, Grenet-Dancourt; Duje chiapparelle (1899) da Il controllore dei vagoni letto di Bisson; Cane e gatte (1901), riduzione da La gelosa di Bisson e Leclerc. [60] Il sistema di controllo della S.I.A., al di là delle cifre pagate, metteva in discussione le antiche modalità di costituzione del repertorio, basate in gran parte sulle riduzioni e le parodie al punto che dopo ‘O Miedeco d’ ‘e pazze ultima riduzione del 1908, Scarpetta tornò a scrivere (raramente) testi originali da solo o in collaborazione.

Ma tornando più specificamente a D’Annunzio, la stampa riportava con grande evidenza l’esito delle sue iniziative – mediate dalla S.I.A. – nei confronti degli attori. Limitiamo l’esemplificazione soltanto agli episodi più prossimi a quello scarpettiano: Giovanni Grasso (i cui spettacoli avevano suggestionato D’Annunzio al punto da spingerlo a sperimentare il suo modello di tragedia agreste) si vide costretto a intavolare con Marco Praga una trattativa di quietanza per non dover subire le conseguenze penali a seguito della sua messinscena della Figlia di Iorio in siciliano, tradotta da Giuseppe Antonio Borgese. La prima di D’Annunzio era andata in scena il 2 marzo 1904 al Lirico di Milano; la versione siciliana di Grasso si tenne al Costanzi di Roma il 17 settembre dello stesso anno grazie al cospicuo esborso di seimila lire, pagate dal grande attore come concessione del permesso di uso.[61] Nello stesso periodo D’Annunzio era in causa anche contro Ermete Zacconi per farsi riconoscere i diritti sulla rappresentazione delle sue opere messe in repertorio dal grande attore durante la sua tournée americana.[62]

Con questa parodia Scarpetta s’illuse, forse, di far valere i diritti dell’autore-attore contro quelli dell’autore-letterato e sperava di trascinarsi dietro l’opinione pubblica con un grande successo teatrale. Scelse, perciò, di parodiare il poeta più in auge del momento e il suo maggior successo: D’annunzio e La figlia di Iorio.[63] Se la manipolazione degradante dell’opera originale mirava a mettere alla berlina l’autore letterato, scimmiottandone le pose stilistiche, questo significava l’inizio di una battaglia vera e propria e la reazione dei sostenitori di D’Annunzio non si fece attendere ponendo in atto ogni strategia per boicottare Il figlio di Iorio e impartire al suo autore una lezione esemplare, querelandolo e dando avvio a una causa restata negli annali della storia del diritto d’autore.

Si giunse a questo nell’arco di pochi mesi: nel giugno del 1904 Scarpetta assistette al Teatro Valle di Roma alle repliche della Figlia di Iorio, celebrata sulla stampa nazionale. Impadronitosi rapidamente del testo a stampa, iniziò subito a lavorare alla sua parodia giungendo, ad agosto, a una stesura pressoché definitiva. Benché la legge non lo costringesse giudicò prudente recarsi a Marina di Pisa per farsi dare il nulla osta da D’Annunzio. Nonostante l’amichevole accoglienza, egli non ottenne altro che promesse verbali tali, tuttavia, da incoraggiarlo a iniziare la preparazione della messa in scena. La pubblicistica, frattanto, registrò una notevole frequenza di interventi pro e contro: dalle anticipazioni scarpettiane di alcuni passi della sua parodia, alla secca smentita di D’Annunzio di aver concesso la licenza, dallo scambio di lettere tra Scarpetta e Ferdinando Russo, fervente dannunziano, fino all’intervento di Croce dedicato alla critica drammatica fino all’annunzio della première per il 3 dicembre al Real Teatro Mercadante (ex teatro del Fondo). Il fronte antiscarpettiano costituito dagli autori del Teatro dialettale d’Arte e coordinato dalla immancabile S.I.A. allertò la Prefettura affinché impedisse la rappresentazione, ma senza effetto. Così Il figlio di Iorio andò in scena. Il primo atto si chiuse fra risate e battimani, ma quando iniziò il secondo, per un’esitazione di un’attrice, si scatenò il finimondo. La parodia cadde rovinosamente, ma, come osservò con buoni argomenti il difensore di Scarpetta, l’avvocato Fiorante, cadde

sol perché un manipolo di ammiratori fervidi, di patuti e di servitori contrappose prevalendo, i suoi fischi e le sue violenze alla tranquillità elegante di quel pubblico magnifico che non seppe reagire con pari efficacia.[64]

Tenuto conto delle aspettative, l’insuccesso era già una notevole sconfitta, ma pochi giorni dopo Scarpetta fu querelato da Marco Praga, in rappresentanza della S.I.A. e di D’Annunzio per aver contraffatto e riprodotto abusivamente La figlia di Iorio. I passaggi legali successivi comportarono la convocazione da parte del giudice istruttore di periti pro e contro per stabilire se Il figlio di Iorio fosse parodia o contraffazione.[65] Roberto Bracco, Giulio Massimo Scalinger e Salvatore Di Giacomo, di parte dannunziana, sostennero che l’opera di Scarpetta non era parodia giacché deviava dal modello affermatosi sulle scene del San Carlino e pertanto si trattava di contraffazione. Viceversa nella perizia firmata da Benedetto Croce e Giorgio Arcoleo si affermò che parodie come Il figlio di Iorio erano esistite anche in tempi anteriori e che in ogni caso «sarebbe sempre arbitrario, il restringere il concetto di parodia a un tipo determinato, senza tener conto delle diverse situazioni e necessità in cui si può trovare il parodista di un’opera».[66] Si dava avviso, infine, che i periti avversari e lo stesso giudice istruttore avevano confuso la questione giuridica con quella letteraria e si concludeva:

Lo Scarpetta dovrebbe essere condannato, se avesse commesso una contraffazione; il che non è. Ma non può essere condannato per aver dato al pubblico un’opera letteraria sbagliata.[67]

Da questo momento in poi la formula dell’“opera sbagliata” si trasformò in una sorta di sinistro mantra continuamente ripetuto dagli avvocati pro Scarpetta al fine di agevolare la vittoria del proprio assistito. Ma se per un verso essa poteva costituire un’efficace tattica dibattimentale, dall’altro sconfessava ferocemente la credibilità dell’autore. Scarpetta non poteva esserne soddisfatto, tant’è che nel corso del suo interrogatorio non mancò di puntualizzarlo: «Mi preme poi far rilevare ai signori periti pro e contro che la mia parodia non è da ritenersi opera sbagliata. Se essa cadde, fu perché la si volle far cadere».[68] Eppure quella formula restò e gli fece vincere la causa. Il processo fece perciò comprendere a Scarpetta che il suo teatro era divenuto un organismo fragile, condizionato dai vincoli degli organismi di controllo e da normative inattingibili. A quest’ultimo proposito venne a sapere dal proprio avvocato, Francesco Spirito, che nell’iter legislativo del Testo Unico del 1882 il divieto di parodia previsto nell’articolo 4 era stato abolito solo all’ultimo istante.[69] Le antiche pratiche del teatro comico dialettale erano chiaramente minacciate se non destinate a sparire.

Intanto l’attacco più doloroso era venuto proprio dalla parte amica: la perizia di Croce e Arcoleo.  Giudicando sbagliata la parodia, essa aveva salvato l’attore sacrificando l’autore, concordando implicitamente col fronte antiscarpettiano del Teatro dialettale d’Arte. Non stupirà, allora, l’accanimento con cui egli continuò la sua battaglia contro i vari rappresentanti di tale fronte proseguendo la polemica sui giornali anche negli anni successivi al suo ritiro dalle scene. Anni dopo Eduardo ebbe modo di tornare a interpellare Croce a questo riguardo e il filosofo gli rispose che le dispute attorno ai “teatri” – come ad esempio il Teatro dialettale d’Arte – erano inutili poiché non esistevano “teatri” ma solo “individui” dotati di genialità artistica e concludeva: «Quando gli artisti veri spariscono, decade il relativo “teatro”. Ecco tutto».[70]

Nell’autobiografia, l’ultimo grande impegno della sua carriera artistica, Scarpetta mirò a esorcizzare la sentenza crociana rinarrando la sua lunga esperienza con due evidenti finalità: presentarsi come il riformatore della scena comica napoletana e avvalorarsi come autore di «settanta lavori teatrali fra commedie originali e riduzioni»[71] ricomponendo, così, la complementarietà dell’autore con l’attore. L’autobiografia costituì l’ultima mossa strategica attuata da Scarpetta per rivendicare il ruolo che gli era stato negato dal mondo della cultura. In lui scrittura e recitazione erano sempre state attitudini solidali in modo che la prima sviluppasse le potenzialità della seconda e che la recitazione di ascendenza sancarliniana garantisse la realizzazione del nuovo repertorio. Sulla base di tale sinergia Scarpetta acquisì una precisa visione della comicità, fondata sulla mediazione della parodia e sulla finalità primaria del comico esaltando in tal modo la vitalità della tradizione attorica partenopea. Del resto non si era proposto di riformare il mondo né di sconfinare dai termini della sua arte. Ma di quei confini fu custode geloso e combatté con estrema decisione per difenderli. La riforma del teatro napoletano rappresentò, forse, l’aspetto più reclamizzato della sua avventura, ma la battaglia più importante fu quella di riconsegnare alla generazione successiva l’idea unitaria della propria arte.



[1] Eduardo Scarpetta era nato a Napoli nel 1853 e aveva esordito sulle scene del San Carlino nel 1868. Si ritirò nel 1909 con sporadiche riapparizioni in scena nel 1910 e nel 1911. Cfr. T. PALADINI, Scarpetta in giacca e cravatta. La “maschera” di Felice Sciosciammocca, Napoli, Luca Torre, 2000, p. 90. Tra i primi biografi di Scarpetta andranno ricordati: M. SCARPETTA, Felice Sciosciammocca mio padre, Napoli, Morano, 1949; M. MANGINI, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, Napoli, Montanino, 1962; V. VIVIANI, Scarpetta, Eduardo, in Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le Maschere, 1961, vol. VIII, col. 1574; ID., Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida, 1992, pp. 575-601. Sulla carriera artistica scarpettiana dagli esordi fino all’84 risulta indispensabile la monografia riccamente documentata di A. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca: nascita di un buffo, Roma, Bulzoni, 2009.

[2] Primo cronista delle proprie vicissitudini artistiche fu lo Scarpetta stesso, autore di un’autobiografia redatta in tempi diversi della sua vita: Don Felice. Memorie, Napoli, Fratelli Carluccio, 1883; Da S. Carlino ai Fiorentini. Nuove memorie, con prefazione di B. CROCE, Napoli, il Pungolo Parlamentare, 1899; Cinquant’anni di palcoscenico. Memorie, Napoli, Gennarelli, 1922 (con nuova prefazione di Croce). Quest’ultima edizione è stata più volte ristampata con la sostituzione delle prefazioni crociane, fino a quella più recente (Napoli, Castelvecchi, 2015, con prefazione di Goffredo Fofi e contributi di Luca e Luigi De Filippo), alla quale d’ora in poi si farà qui riferimento con l’indicazione abbreviata del titolo, Cinquant’anni. Riguardo all’abbandono delle scene cfr. ivi, pp. 319-322.

[3] Ivi, p. 322.

[4] La figlia di Iorio di D’Annunzio andò in scena a Milano, al Teatro Lirico, il 2 marzo 1904 con la compagnia Talli- Gramatica-Calabresi (Irma Gramatica-Mila; Oreste Calabresi-Lazzaro di Roio; Teresa Franchini-Candia; Ruggero Ruggeri-Aligi; Giannina Chiantoni-Ornella; Lyda Borelli-Splendore).

[5] In realtà nell’ambito temporale descritto non andrà dimenticato l’infelice intermezzo della tournée a Catanzaro dall’ottobre 1869 al marzo 1870, con la compagnia di Michele Bozzo, che ebbe esiti umilianti dal punto di vista professionale e catastrofici sotto il profilo economico.

[6] Cinquant’anni, cit., p. 110.

[7] Il testo della scrittura presso l’impresa Mormone al San Carlino si legge ivi, p. 86.

[8] «Fra la prova e i due spettacoli, ero obbligato a restare sul palcoscenico non meno di otto o dieci ore al giorno», ivi, p. 110. L’impresario Falanga gestiva contemporaneamente tre teatri: Partenope, Fenice, Sebeto. Sebbene esistesse tra queste sale una sorta di graduazione della dignità e di distinzione per generi (la Fenice era la sala più elegante, dedicata ai drammi e alla commedia), le opere di maggior fortuna venivano fatte girare tra tutti e tre i palcoscenici dell’impresa Falanga per sfruttarne al massimo le potenzialità di guadagno.

[9] Il testo risulta irreperibile. Ad attestarne l’avvenuta rappresentazione c’è la documentazione d’archivio, ossia l’autorizzazione della Prefettura di Napoli alla sua rappresentazione presso il Teatro Partenope del 30 agosto 1870 (http://cir.campania.beniculturali.it) e la stampa dell’epoca. La farsa andò in scena al Teatro Partenope il 14 e il 16 settembre e il 2 dicembre 1870. Il 4 febbraio 1871 fu messa in scena alla Fenice e il nome dell’autore comparve finalmente in cartellone. Sempre per l’impresa Falanga Scarpetta compose anche Seie coppe, tre spate e quatte mazze con Pulcinella imbrogliato ‘nfra ‘no mazzo de carte (rappresentata il 21 agosto 1871); altre farse invece rimasero nel cassetto. Cfr. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca, cit., pp. 30-36. Fino a oggi le raccolte a stampa più ampie del teatro scarpettiano sono: Tutto il teatro, Napoli, Bellini, 1990 (comprende sessantuno testi) e Tutto il teatro, introd. e premessa di R. MARRONE, Roma, Newton Compton, 1992 (sessantadue testi). Nonostante il titolo, nessuna delle due collezioni presenta l’intero corpus drammaturgico. Gli elenchi degli archivi Scarpetta segnalano infatti, rispettivamente, centoquarantuno e centoquarantadue titoli, ma Ivana Guidi sostiene – sulla base della sua ricerca nelle collezioni private scarpettiane, in quelle della Biblioteca Nazionale di Napoli e del Burcardo di Roma e soprattutto sulla base dello spoglio sistematico della stampa periodica napoletana – che le opere di Scarpetta dovevano essere più numerose di quelle conservate. Cfr. I. GUIDI, La Napoli francese di Scarpetta, in Traduzioni tradizioni tradimenti, «Drammaturgia», 3, 1996, pp. 102-104.

[10] Cinquant’anni, cit., p. 110.

[11] Ivi, p. 111.

[12] SCARPETTA, Don Felice. Memorie, cit., p. 104.

[13] Il San Carlino rimetterà in cartellone questa farsa nel 1875 col titolo più famoso di Pulcinella solachianello arrozzuto e ncojetato da D. Felice Sciosciammocca guaglione de n’anno, destinato a ulteriori ritocchi. Comunque non fu questo il primo testo originale composto appositamente da Petito per Scarpetta, come si è a lungo creduto, bensì un altro di poco successivo: Inferno Purgatorio e Paradiso di D. Felice Sciosciammocca con Pulcinella negoziante di panni, rappresentato il 20 luglio 1872. Cfr. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca, cit., p. 46.

[14] Alla fine del 1872 Scarpetta dedicò la sua prima raccolta di versi proprio ad Antonio Petito «protonquanqero de li comice napolitane» firmandosi «lo scolaro tuo affezionatissimo Scarpetiello». Ivi, p. 51.

[15] S. FERRONE, Introduzione a Il teatro italiano, V. La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, a cura di S. F., Torino, Einaudi, 1979, to. I, p. LIII.

[16] Sulla costante circolazione di temi e idee nella piccola società teatrale partenopea fino al costituirsi di una sorta di ideale manuale della composizione drammaturgica cfr. S. DE MATTEIS, Lo specchio della vita. Napoli: antropologia della città e del teatro, Bologna, il Mulino, 1991, p. 116.

[17] Il tipo di Sciosciammocca esisteva già nella tradizione napoletana: appare ad esempio in una commedia di repertorio andata in scena il 26 maggio 1872: Pulcinella e Sciosciammocca ncojetati da seje femmene vasciajole. La prima commedia originale scritta appositamente da Petito per Scarpetta fu Inferno, Purgatorio e Paradiso di D. Felice Sciosciammocca con Pulcinella negoziante di panni rappresentata il 20 luglio 1872. Cfr. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca, cit., p. 46.

[18] Vanda Monaco si spinge persino a negare il ruolo riformatore di Scarpetta poiché a suo avviso il teatro napoletano, nelle sue forme popolari, si era già esaurito con Antonio Petito. Cfr. V. MONACO, Eduardo Scarpetta: un riformatore?, introd. a E. SCARPETTA, Miseria e nobiltà e altre commedie, a cura di V. M., Napoli, Guida, 1980. Ma su questa presunta organicità borghese di Scarpetta si veda FERRONE, Introduzione, cit., p. XV. Per un aggiornato inquadramento critico del periodo cfr. ID. e F. SIMONCINI, Il teatro, in Storia della Letteratura italiana, diretta da E. MALATO, vol. VIII. Tra l’Otto e il Novecento, Roma, Salerno Editrice, 1999, pp. 911-966.

[19] Il San Carlino era il capofila del teatro dialettale capillarmente diffuso in città da una rete di teatri di terzo ordine, alcuni dei quali erano più identificati da un’udienza di tipo popolare. Molti di questi, sulla scia del successo petitiano, si lanciarono nell’emulazione parodistica dell’opera verdiana tentando di riscuotere analoghi consensi. Cfr. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca, cit., p. 54.

[20] Ivi, p. 60.

[21] Vittorio Viviani, e con lui molti altri, riconduce È buscia o verità al Bugiardo goldoniano (s. v. in Enciclopedia dello Spettacolo, cit., col. 1574 e in ID., Storia del teatro napoletano, cit., p. 580). Ma l’indicazione della fonte francese compare con evidenza nel frontespizio della prima stampa di quest’operina (1876). Cfr. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca, cit., p. 61.

[22] Cinquant’anni, cit., p. 187.

[23] Ivi, p. 197.

[24] Si è anche ipotizzato che Scarpetta continuasse a vendere i propri testi ai teatrini napoletani anche durante il suo soggiorno romano, coltivando così la fortuna di Sciosciammocca e la fama dell’autore. Cfr. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca, cit., p. 92.

[25] Il quotidiano «Il Pungolo», ad esempio, riferendosi alla Treccia dell’imperatore, comincia col sottolineare la folla «di popolino e di pubblico elegante» rimarcando la trasversalità dell’udienza di Scarpetta; continua elogiando la ricchezza degli scenari e il gran garbo delle musiche del maestro Luzi (Luigi, il fratello del defunto impresario): ivi, p. 96. Per un’antologia delle recensioni di «Il Pungolo» dal 1880 e il 1895 si veda PALADINI, Scarpetta in giacca e cravatta, cit., pp. 95-168.

[26] Per il quadro d’insieme – con riferimento alla realtà piemontese del teatro di Toselli, al quale Vittorio Bersezio concesse il suo Monsù Travet, a quella veneta della compagnia di Angelo Moro Lin per la quale scrisse Giacinto Gallina, a quella antesignana di Rizzotto che con I mafiusi aprì la grande stagione del teatro siciliano, fino a quella di Edoardo Ferravilla del Teatro Milanese – si veda ancora FERRONE, Introduzione, cit., pp. LI-LV; ID.-SIMONCINI, Il teatro, cit., pp. 946-966.

[27] Cfr. G. ACERBONI, Cletto Arrighi e il Teatro Milanese (1869-1876), Roma, Bulzoni, 1998.

[28] Cfr. Cinquant’anni, cit., p. 198.

[29] L’alleanza col Ferravilla fu di lunga durata: otto anni dopo Scarpetta era suo ospite per due mesi durante i quali lesse la traduzione di Mzelle Nitouche inviatagli da un suo amico. Il successo incredibile che seguì a ‘Na Santarrella, spinse Ferravilla a chiedere il testo per ridurlo a sua volta in milanese. Recitarono ancora insieme sul testo scarpettiano L’amico ‘e papà.

[30] Cfr. DE MATTEIS, Lo specchio della vita, cit., p. 151.

[31] Cinquant’anni, cit., p. 204.

[32] Per l’elenco dei nomi degli attori scritturati, con la specifica dei rispettivi compensi, cfr. ivi, p. 205. Secondo Vittorio Viviani il nucleo della prima compagnia di Eduardo Scarpetta al San Carlino furono gli attori della Fenice. Cfr. VIVIANI, Eduardo Scarpetta, in ID., Storia del teatro napoletano, cit., p. 583.

[33] Per la definizione di «mezza maschera» e dell’ottica derisoria «dal basso» della borghesia, cfr. ivi, rispettivamente pp. 580 e 585.

[34] A. BARSOTTI, Scarpetta in Viviani: la tradizione nel moderno, in «Il castello di Elsinore», V, 1992, 15, p. 89.

[35] Cinquant’anni, cit., p. 202.

[36] Cfr. GUIDI, La Napoli francese di Scarpetta, cit., p. 105. È probabile che Scarpetta avesse visto Bebé proprio in quell’elegante teatro dato che era solito frequentare gli altri palcoscenici cittadini in cerca di spunti e stimoli; all’epoca era infatti a Napoli, scritturato ancora con l’impresa Luzi al San Carlino.

[37] Sull’argomento resta imprescindibile la monografia di A. SAPIENZA, La parodia dell’opera lirica a Napoli nell’Ottocento, Napoli, Lettere italiane, 1998.

[38] Si pensi a ‘O marito ‘e Nannina (1885) rappresentato dalla compagnia di Ermete Novelli al Sannazaro nel 1886, oppure a ‘Nu turco napolitano (1885) rappresentato dalla compagnia Petriboni al Sannazaro nel 1886 o ancora a ‘E cafune a Napule (1886) rappresentata al Teatro Nuovo col titolo I provinciali a Parigi nel 1888 o, infine, alla fortunatissima ‘Na Santarella (1889). Quest’ultima suscitò una pletora di imitazioni e parodie in dialetto napoletano, in traduzioni italiane e in dialetto milanese (cfr. Cinquant’anni, cit., p. 242).

[39] Scarpetta dichiarò nelle memorie del 1922 «settanta lavori teatrali fra commedie originali e riduzioni» (ivi, p. 313). Tante ne lasciò in dono all’impresa del Teatro Nuovo negli anni del suo abbandono delle scene.

[40] Ivi, p. 235.

[41] Ivi, p. 236.

[42] FERRONE, Introduzione, cit., p. XV.

[43] A. PALERMO, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1987; G. NICASTRO, «Sogni e favole io fingo». Gli inganni e i disinganni del teatro tra Settecento e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; A. PETRINI, Attori e scena nel teatro italiano di fine Ottocento. Studio critico su Giovanni Emanuel e Giacinta Pezzana, Torino, Academia University Press, 2012.

[44] Alla polemica fanno riferimento tutti i saggi sinora citati. Per i contributi più recenti Cfr. PIZZO, Scarpetta e Sciosciammocca, cit., p. 100; ID., Una “mazziata” mancata, in Frammenti di un discorso sullo spettacolo. Per Roberto Tessari, prefazione di R. ALONGE, Torino, Edizioni del DAMS, 2003; PALADINI, Scarpetta in giacca e cravatta, cit., pp. 79-90.

[45] M. UDA, [senza titolo], in «Il Pungolo», 26 gennaio 1881.

[46] Cfr. F. VERDINOIS, [senza titolo], in «Il Corriere del mattino», 28 gennaio 1881.

[47] Per un’ampia disamina del teatro dialettale postunitario con innumerevoli spunti critici cfr. A. PIZZO, La discussione sul teatro dialettale postunitario, in «Il castello di Elsinore», XII, 1999, 35, pp. 49-87.

[48] Per la formula cfr. MANCINI, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, cit., p. 110.

[49] Cfr. V. VIVIANI, Pantalena, Gennaro, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. VII (1960), coll. 1569-571.

[50] Cfr. MANCINI, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, cit., p. 109.

[51] Cfr. V. CAPUTO, La polemica del 1904 sul periodico «Teatro moderno»: Di Giacomo, Scarpetta, Bracco, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena. Atti del XVI Congresso nazionale Adi (Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012), a cura di G. BALDASSARRI et al., Roma, Adi, 2014: http://www.italianisti.it/Atti-di- Congresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=397 (ultimo accesso: 23 ottobre 2017).

[52] Cfr. S. DI GIACOMO, Cronaca del Teatro San Carlino. Contributo alla storia della scena dialettale napoletana (1738-1884), Trani, Vecchi, 1895. In questo volume Di Giacomo disconosce la commediografia dell’Altavilla (p. 479) e quanto a Petito nega che sia stato mai autore se non di plagi, riconoscendogli merito soltanto come attore (p. 482).

[53] Cfr. Cinquant’anni, cit., p. 210.

[54] Cfr. C. VICENTINI, La lingua e il dialetto del testo e dell’attore, in La drammaturgia del teatro italiano vivente. Atti del convegno nazionale (Roma, 25-26 ottobre 1996), a cura di M. PROSPERI, Città di Castello, Editori Associati, 1997, p. 22; per la fenomenologia della traduzione a Napoli cfr. N. RUGGIERO, La civiltà dei traduttori. Transcodificazioni del realismo europeo a Napoli nel secondo Ottocento, Napoli, Guida, 2010.  

[55] In effetti il computo per genere delle opere scarpettiane rivela che le parodie sono assai poche. Una Francesca da Rimini (1893), la Bohème di Illica Giacosa e Puccini (1896), Il Figlio di Jorio (dicembre 1904) e La geisha, libretto di Owen Hall e musiche di Sidney Jones (dicembre 1905), passata sotto silenzio dopo il clamore della precedente parodia.

[56] Mila di Codra = Torillo (figlio di Iorio, lo stregone); Aligi = Alice, la giovane sposa di Carminiello, figlia di Zeza e di Nicola Paniello; Ornella = Cornelio, uno dei tre fratelli di Alice; Candia della Leonessa = Nicola Paniello; Lazzaro di Roio = Zeza; Vienda di Giave = Carminiello; Favetta = Trivella; Splendore = Coviello; Cosma il santo = padre Francesco; Anna Onna = Lucrezia; Femo di Nerfa = Il commissario di pubblica sicurezza; Mietitori = Lavandaie di Bacoli e di Pozzuoli capitanate da Tolla e Menechella.

[57] E. GIAMMATTEI, Tempi e luoghi della parodia: Scarpetta al Mercadante, in Il teatro Mercadante: la storia, il restauro, a cura di T.R. TOSCANO, Napoli, Electa, 1989, pp. 217-228 e 224.

[58] Per l’inquadramento storico-critico delle tensioni fra autori e attori, delle tappe legislative per la promulgazione del Testo Unico sul diritto d’autore del 1882 e della nascita delle nuove Società responsabili del controllo e della diffusione dei testi italiani o di origine straniera cfr. R. ALONGE, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1988, in partic. il cap. IV, Mattatori, trafficanti ed esattori delle tasse, pp. 183-203. Una agile sintesi sui contraccolpi delle novità legislative legate al diritto d’autore è anche in ID. e F. MALARA, Il teatro italiano di tradizione, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, III. Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, Torino, Einaudi, 2001, pp. 573-577. Per il rapporto della nuova legislazione con i grandi attori si veda anche: G. LIVIO, Il teatro del grande attore e del mattatore, ivi., vol. II, Il grande teatro borghese. Settecento-Ottocento, Torino, Einaudi, 2000, pp. 666-669. Un contributo più recente e di particolare interesse è: S. BRUNETTI, Autori, attori, adattatori. Drammaturgia e prassi scenica nell’Ottocento italiano, Padova, Esedra, 2008.

[59] Cfr. A. TINTERRI, I diritti degli autori, in Il teatro italiano dal naturalismo a Pirandello, a cura di A. T., Bologna, il Mulino, 1999, pp. 93-103; P.D. GIOVANELLI, La società teatrale in Italia fra Otto e Novecento. Lettere ad Alfredo Testoni, Roma, Bulzoni, 1985.

[60] Per la serie delle riduzioni contestategli cfr. Eduardo Scarpetta. “Il figlio di Iorio”. Processo. Italia. Tribunale di Napoli. Processo D’Annunzio-Scarpetta per “Il figlio di Iorio”, Napoli, Morano, 1908, rispettivamente pp. 198 e p. 54. Sul processo si veda anche L. SIMEONI, “La figlia di Jorio” per Gabriele D’Annunzio e la Società degli Autori, Napoli, Giannini, 1907 (l’autore fu l’avvocato di parte di D’Annunzio; per quanto ponderoso il volume non è completo essendo uscito prima della conclusione della causa).

[61] Cfr. Gabriele D’Annunzio. “La figlia di Iorio” tra lingua e dialetti, a cura di S. ZAPPULLA MUSCARÀ e E.  ZAPPULLA, Catania, la Cantinella, 1998.

[62] Cfr. [LEPORELLO], Ermete Zacconi contro gli autori, in «L’Illustrazione italiana», 50, 1904, 11, pp. 25-27.

[63] La pubblicazione del testo dannunziano avvenne nei primi mesi del 1904 per gli editori Treves di Milano. Alla luce degli eventi processuali, non è secondario il fatto che D’Annunzio avesse finalmente deciso di attenersi all’esclusivo compito di autore proprio con la Figlia di Iorio cedendone la direzione a Virgilio Talli visti gli esiti deludenti della sua messa in scena della Francesca da Rimini. Cfr. ALONGE-MALARA, Il teatro italiano di tradizione, cit., pp. 581-582.

[64] Eduardo Scarpetta. “Il figlio di Iorio”, cit., p. 125.

[65] Sul processo si veda F. DE CRISTOFARO, I due figli di Iorio in contenzioso estetico-giudiziario, in «Between», II.3 http://www.between-journal.it/  (ultimo accesso: 23 ottobre 2017). Dagli atti di questo processo Antonio Vladimir Marino ha tratto una pièce, dal titolo Delitto di parodia, che è stata realizzata per la regia di Francesco Saponaro al Teatro San Ferdinando di Napoli il 21 ottobre 2008.

[66] Eduardo Scarpetta. “Il figlio di Iorio”, cit., p. 36.

[67] Ibid.

[68] L’interrogatorio di E. Scarpetta, ivi, p. 44.

[69] Ivi, pp. 176-177.

[70] Si legge in MANCINI, Eduardo Scarpetta e il suo tempo, cit., p. 113.

[71] Cinquant’anni, cit., p. 313. In realtà, stando alla teatrografia di Viviani (nella citata voce dell’Enciclopedia dello spettacolo), sono molte di più. Si veda inoltre l’elenco delle riduzioni francesi redatto da GUIDI, La Napoli francese di Scarpetta, cit., pp. 105-113.



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