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Franco Perrelli

Il muro di Lessing

Data di pubblicazione su web 31/01/2016
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1. «Ed ora, per questa volta, basta con la Mérope!». Così conclude Lessing il capitolo L del primo volume della Drammaturgia d’Amburgo (1767-1769), rendendosi ben conto che l’analisi serrata e incrociata della Merope di Scipione Maffei (1713) e della Mérope di Voltaire (1736-1738) aveva occupato decine di pagine delle sue cronache (a partire dal capitolo XXXVI): «un settimo» – è stato calcolato dal Robertson –[1] di un’opera che, non senza ironia, l’autore aveva immaginato che i suoi lettori potessero desiderare «varia, divertente e allegra come può essere soltanto una rivista di teatro».[2]

Lessing si era soffermato tanto su due indubbi e discussi successi teatrali del XVIII secolo: la Merope italiana era stata rappresentata a Modena nel giugno del 1713 da Elena Balletti e Luigi Riccoboni, con precisi intenti di riforma e regolarizzazione scenica, non estranei a certi ideali dell’Arcadia; quella francese, nel febbraio del 1743 da les Comédiens du Roi, protagonista Mlle Dumesnil. Il confronto fra i due testi, la contrapposizione fra stile italiano e stile francese, se non addirittura fra Verona e Parigi, avevano sollevato sonore polemiche e, per di più, sul lavoro di Voltaire s’era posato il sospetto del plagio in relazione alla Merope del Maffei (un’ipotesi cui Lessing avrebbe dato peraltro ampio credito). Tuttavia, ciò che interessava prioritariamente l’autore della Drammaturgia d’Amburgo era sciogliere nodi teorici strategici sia relativi alla tragedia di Euripide sia alla Poetica di Aristotele.

Maffei, dopo tutto, si era impegnato, con Merope, a restare nell’ambito di un aristotelismo che non fosse soffocato, alla francese, da regole vincolanti, bensì sostenuto dai principi di verità e di natura, con un accento particolare «sul diletto e il piacere che accompagnano la rappresentazione scenica della tragedia». Era qualcosa che, in parte, confliggeva con l’intento riformatore lessinghiano sì «di dilettare il proprio pubblico, ma […] innanzitutto […] di spronarlo ad esercitare le proprie capacità di critica nei confronti di quanto rappresentato sulla scena».[3]

L’attenzione lessinghiana per la Merope finiva per essere quindi tutt’altro che circoscritta e celava nientemeno che l’obiettivo d’individuare propriamente «ciò che dovrebbe e non dovrebbe esserci in una tragedia».[4] Dopo tutto, se la Merope di Maffei costituiva, per generale riconoscimento ed effervescenza polemica, un modello di rinascita del tragico nel XVIII secolo (tanto da essere copiata da Voltaire), la questione da trattare superava ogni proposito di mera erudizione e aveva anche a che fare con l’essenza e il destino del dramma moderno.

2. L’analisi di Lessing prendeva spunto, in prima battuta, dalla rappresentazione amburghese della tragedia di Voltaire, il 7 luglio 1767, e metteva subito in evidenza che il testo di Mérope, in Francia, aveva riscosso un successo così fanatico da avere imposto «l’artificio in luogo della naturalezza»[5] ed elogi tanto esagerati da aver fatto ritenere addirittura sopportabile la perdita di un antico Cresfonte, tragedia greca di analogo argomento, della quale si possiedono solo frammenti: «meglio, esso non è più perduto: Voltaire ce lo ha restituito», ironizza il critico tedesco.[6]

Nel capitolo XXXVII, Lessing, soffermandosi per l’appunto sulle fonti dichiarate (sulla scorta della non sempre impeccabile erudizione del tempo) dallo stesso Maffei, per la sua tragedia nella Lettera dedicatoria del 10 giugno 1713 al duca Rinaldo I di Modena – dopo aver menzionato Pausania, Apollodoro e Igino –, sottolinea che anche «Aristotele, nella sua Poetica, ricorda un Cresfonte in cui Merope riconosce il proprio figlio [Egisto o anche Telefonte] nel momento in cui sta per ucciderlo, credendolo l’assassino del figlio medesimo. […] È vero» – aggiunge Lessing – «che Aristotele nomina questo Cresfonte senza citare l’autore, ma poiché troviamo ricordato un Cresfonte di Euripide in Cicerone e in molti altri scrittori antichi, egli non poteva che riferirsi all’opera di questo poeta».[7]

Stabilito ciò e data la circostanza che Aristotele (come Lessing ricorderà anche in seguito) definisce, nonostante qualche riserva, Euripide «tragicissimo fra tutti i poeti tragici»,[8] il passo relativo al Cresfonte – a detta anche di vari commentatori – avrebbe attribuito a questo tipo di tragedia a lieto fine (appunto come la Merope di Maffei) la peculiarità di porsi come un vero e proprio modello poiché la stessa Poetica sancisce che, in una tragedia, è «meglio se chi agisce non fa e viene a sapere dopo aver agito; la situazione non è ripugnante e il riconoscimento ha un effetto di sorpresa. La situazione migliore è però […] come quando nel Cresfonte Merope sta per uccidere suo figlio, e non lo uccide perché lo riconosce, o come nell’Ifigenia la sorella sta per uccidere il fratello, o nell’Elle il figlio riconosce la madre quando sta per consegnarla».[9]

Il passo aristotelico scatena in Lessing una puntuta discussione che si dirama dall’apparente contraddizione che la Poetica, oltre alla peripezia a lieto fine, sancisce pure che «una buona trama tragica non deve avere uno scioglimento lieto, ma funesto».[10] In questo caso e di norma, Lessing s’impegna a risolvere le difficoltà teoriche, interpretando Aristotele in una chiave laica e invitando, nello specifico, critici e drammaturghi a considerare flessibilmente le sfaccettature di una fabula scenica: «se essa non vi concede altro che o la migliore peripezia, o la migliore trattazione della catastrofe, cercate quale elemento dell’alternativa vi offra vantaggi maggiori, e scegliete».[11]

È un fatto però che il Cresfonte di Euripide intriga non poco Lessing, tanto da spingerlo a una sorta d’ipotetica ricostruzione di questa tragedia perduta, fermo che il tema di Merope, a suo avviso, in base alla relativizzazione del citato passo della Poetica, «non può essere considerato senz’altro una perfetta favola tragica» (quantomeno con la benedizione dell’autorità di Aristotele), perché le lodi del filosofo «non si riferiscono all’intera favola, ma solo a una singola parte della stessa».[12] Era quindi un’iperbole insostenibile quanto scritto da Voltaire, nella Lettre à M. Maffei, nella quale – in cortocircuito con un riferimento plutarcheo – si sosteneva che Aristotele, nella Poetica, aveva esaltato il «coup de théâtre» euripideo del riconoscimento di Merope e di suo figlio come «il momento più interessante di tutta la scena greca», smentita peraltro da altri mirabili (e sempre relativi) casi di riconoscimento in un autore come Euripide, «che ha fatto uso frequentissimo della peripezia a finale tragico».[13]

3. I pochi frammenti del Cresfonte euripideo non c’illuminano sulla struttura di questo dramma e, per Lessing, un ulteriore problema sorge addirittura con il titolo, che rimanda a un protagonista che dovrebbe essere defunto da tempo quando il figlio (Epito o Telefonte, a seconda dell’attribuzione del nome) rientra in possesso del suo regno: «Ora, si è mai sentito che una tragedia s’intitoli dal nome di un personaggio che non vi compare affatto?».[14] Tuttavia, se Maffei ha tratto la sua materia – come afferma – dalla Favola 184 ovvero dalla «miniera» o «repertorio di argomenti tragici» di Igino, non è escluso che si possa tentare di farci un’idea della tragedia perduta di Euripide, sebbene quel ricco materiale vada trattato con cautela, presentandosi piuttosto indifferentemente sia derivato dalla tradizione sia dalla materia tragica.[15]

Per quanto riguarda Maffei, Lessing gli dà atto che non intendesse ricostruire il Cresfonte, anzi, allontanandosi dal «preteso impianto euripideo», che puntasse su un’unica situazione particolarmente commovente, affrontando il tema della madre che amava il proprio figlio tanto da volerne vendicare l’assassinio con le proprie mani. Così aveva messo in assoluto rilievo nella tragedia «l’amore materno in generale» ovvero una «passione piena di purezza e virtù, escludendo ogni altro affetto».[16] Per Lessing è comunque assai verosimile che Euripide si rivelasse superiore nel trattamento della leggenda di Merope sia rispetto a Maffei sia rispetto a Voltaire. Infatti, sull’ipotetica traccia di Igino, il servo cui il figlio di Merope era stato affidato, le avrebbe annunciato la sua scomparsa:

poco prima ella aveva udito, appunto, che era arrivato uno straniero, il quale si vantava di averlo ucciso, e che questo straniero riposava placidamente sotto il suo tetto. Ella afferra la prima cosa che le capita fra le mani, corre piena d’ira verso la stanza di lui, il vecchio le si precipita appresso: e il riconoscimento avviene proprio nell’istante in cui il delitto avrebbe dovuto compiersi. Tutto ciò era molto semplice e naturale, molto umano e commovente!

Insomma, con logica e tecnica drammatica più serrata, Euripide sarebbe stato certo in grado di far fremere gli Ateniesi

per Egisto, senza poter provare un sentimento d’orrore per Merope. Essi tremavano per lei stessa, che una scusabile precipitazione minacciava di trasformare nell’assassina del proprio figlio. Al contrario, Maffei e Voltaire mi fanno tremare soltanto per la sorte di Egisto, giacché io sono così indignato con la loro Merope, che quasi vorrei concederle di portar a compimento il suo gesto. E così fosse! Se ella può prender tempo per la vendetta, avrebbe potuto prenderlo anche per condurre delle indagini. […] Non vorrei sbagliarmi di grosso, ma ad Atene l’avrebbero fischiata.[17]

Lessing – sempre appoggiandosi a Igino – ha motivo di ritenere che, in Euripide, Egisto, pur cauto a svelarsi alla madre per i più imponderabili motivi drammatici, a differenza di quello moderno (che capita a Messene sconosciuto a sé stesso e per caso), fosse perfettamente consapevole della propria identità e nutrisse un preciso intento di vendetta. Gli elementi di oscurità e di casualità con cui Maffei ha trattato l’azione del personaggio hanno conferito a tutta la sua tragedia «un carattere confuso, ambiguo e romanzesco». Lessing ipotizza invece che, nel testo di Euripide, lo spettatore apprendesse

da Egisto stesso la sua vera identità; e più egli era certo che Merope si apprestava a uccidere il proprio figlio, tanto più grande doveva essere il terrore che lo afferrava, tanto più dolorosa la pietà alla quale egli si preparava, nel caso che il proposito di Merope non venisse frustrato a tempo. In Maffei e Voltaire, al contrario, noi congetturiamo soltanto che il presunto assassino sia il figlio stesso, e il nostro terrore si raccoglie tutto nel preciso istante in cui è destinato a dissolversi.[18]

Secondo Lessing, Euripide, quindi – con una tecnica superiore e aliena dall’effimero coup de théâtre dell’agnizione patetica all’acme delle opere di Maffei e di Voltaire –, avrebbe trattato in chiaro l’identità di Egisto, traendo da ciò un effetto di terrore e soprattutto di pietà più protratto e assai più intenso attorno al personaggio di Merope.

4. Lessing approda così ai cruciali capitoli XLVIII e XLIX, nei quali s’impegna in una definizione più puntuale dell’eccellenza di quello che Aristotele aveva incoronato come il «più tragico di tutti i poeti tragici».[19]

Preliminarmente, Lessing ci offre un’ampia citazione del «migliore dei critici francesi», Denis Diderot, tratta da Sulla poesia drammatica del 1758.[20] Nel capitolo XI di quest’opera, relativo a «cosa sostiene e rafforza l’Interesse» in teatro, Diderot fissa un piccolo (e dichiarato) paradosso sul dramma: «tutto deve essere chiaro per lo spettatore. Confidente di ogni personaggio, informato di ciò che è avvenuto e di ciò che avviene, ci sono cento momenti in cui non si ha niente di meglio da fare che informarlo con precisione di ciò che accadrà». Pertanto:

Sono così lontano dal pensare con la maggior parte di coloro che hanno scritto di arte drammatica, che si debba nascondere allo spettatore lo scioglimento, che non penserei di accollarmi un’impresa molto al di sopra delle mie forze, se mi mettessi a scrivere un dramma in cui lo scioglimento fosse annunciato dalla prima scena, e dove attingessi l’interesse più vivo proprio da questa circostanza.

Di conseguenza, «per una occasione in cui è opportuno nascondere allo spettatore un avvenimento importante prima che accada, ce ne sono molti altri in cui l’interesse chiede il contrario. […] Non piangerò che un istante colui che sarà colpito e abbattuto in un momento. Ma» – si domanda Diderot – «come mi sento, se il colpo si fa attendere, se vedo il temporale formarsi sulla testa mia o di un altro, e restarvi a lungo sospeso?». Insomma, «tutti i personaggi si ignorino, se volete, ma lo spettatore li deve conoscere tutti». Un dramma in cui «tutto ciò che concerne i personaggi è noto» può porsi all’origine «delle emozioni più vive» e il modello «geniale» di tale dramma sta in Euripide, «il poeta greco, che rimandò fino all’ultima scena il riconoscimento di Oreste e di Ifigenia».

A questo punto, Diderot chiede: «Perché certi monologhi hanno così grande effetto? Perché mi informano dei segreti disegni d’un personaggio, e questa confidenza mi coglie in un istante di timore o di speranza». Per Diderot, tutto deve essere chiaro sin dal principio per lo spettatore e vanno evitati i colpi di scena: «Che lo spettatore sia al corrente di tutto, e i personaggi si ignorino se è possibile; che, soddisfatto di ciò che è presente, io possa augurarmi vivamente ciò che seguirà; che un personaggio me ne faccia desiderare un altro; un episodio mi affretti verso il seguente; che le scene siano rapide; non contengano che cose essenziali all’azione, e io sarò interessato». Concludendo: «L’ignoranza e la perplessità eccitano la curiosità dello spettatore, e la mantengono viva; ma sono le cose note e sempre attese che lo turbano e lo agitano. Questo è un espediente sicuro per tener sempre presente la catastrofe».[21]

Anche per Lessing la sorpresa resta affidata alle reazioni degli interpreti sulla scena, non a quella degli spettatori, il cui interesse va orientato non su cosa, ma su come la tragedia si sviluppi. Questi spettatori devono vivere nell’illusione scenica perché possano attingere una vera catarsi. Infatti, scopo essenziale del poeta tragico, che ha per mira di suscitare pietà, è essenzialmente quello di non distruggere il principio dell’«illusione scenica».[22] Per Lessing, la posizione di Diderot, che presuppone alla base dell’autentica dinamica drammatica una forte componente diegetica, elettivamente affidata alla forma narrativa del monologo, dà effettiva sostanza all’eccellenza di Euripide su Maffei e su Voltaire, autori nei quali «Egisto è un enigma per sé e per il pubblico». In Euripide, per contro, gli spettatori avrebbero conosciuto Egisto sin dal principio e si sarebbe così creata una giusta tensione drammatica, dove Maffei e Voltaire non sono in grado di realizzare altro che una tragedia fatta di «una “serie di piccoli artifici”, i quali riescono a provocare soltanto una sorpresa di breve durata».[23]

Del resto, «Euripide era così sicuro del fatto suo, che quasi sempre indicava in precedenza al pubblico la meta a cui voleva condurlo. Anzi» – aggiunge Lessing –, «sarei molto incline a prendere, da questo punto di vista, le difese dei suoi prologhi, che oggi dispiacciono tanto ai moderni critici»,[24] e qui viene richiamato un famoso trattato classicista del 1657, la Pratique du Théâtre dell’Abbé d’Aubignac,[25] che, nel primo capitolo della parte III, si esprime duramente contro l’uso del prologo fatto da Euripide (a differenza di Eschilo e Sofocle, che «hanno sempre trattato benissimo il loro soggetto nel corso dello sviluppo drammatico»), specie quando mette in gioco un dio onnisciente che

spiega non solo il passato, ma anche il futuro, non accontentandosi d’istruire lo spettatore dell’antefatto, necessario all’intelligenza del dramma, ma mettendo al corrente dello scioglimento e della catastrofe completa, di modo che tutti gli avvenimenti siano previsti: si tratta di una pecca assai rilevante assolutamente opposta a questa attesa o sospensione [attente ou suspension] che deve sempre regnare in teatro, distruggendo tutte le attrattive di un dramma, che consistono quasi sempre nella sorpresa e nella novità.

Per Lessing, all’opposto, non solo andavano benissimo i prologhi, ma persino le rivelatrici liste dei personaggi con il doppio nome, che era proprio quanto Maffei (assieme agli argomenti riassuntivi), per parte sua, riteneva distruttivo della sorpresa drammatica.[26] L’autore tragico, per il critico tedesco, non deve inseguire effetti effimeri ed epidermici, ma avere di mira una catarsi che incida profondamente e non casualmente sullo spettatore in quanto educazione alla compassione e alla «trasformazione delle passioni in disposizioni virtuose».[27] Per Lessing, la tragedia è essenzialmente socratica e, in un’accezione euripidea, si esprime nel «conoscere l’uomo e noi stessi; essere attenti ai nostri sentimenti; indagare e amare la natura per le vie più piane e più brevi; giudicare ogni cosa secondo la sua destinazione».[28]

5. L’uso spregiudicato dell’elemento diegetico, considerato da critici prestigiosi una vera e propria minaccia per l’efficacia drammatica, diventava per Lessing una qualità: Euripide sapeva che, con questo espediente, poteva «raggiungere una perfezione molto più alta». Infatti, «si riprometteva di ottenere la commozione, che desiderava suscitare, non tanto da quello che sarebbe accaduto, quanto dal modo [in cui] l’avvenimento si sarebbe verificato».

Un dio onnisciente, che neanche partecipa all’azione, ma si rivolge al pubblico «mescolando in tal modo il genere drammatico con quello narrativo» è poi davvero – nei termini di una rappresentazione teatrale – così inconcepibile?

E finalmente – chiede Lessing –, che significa la mescolanza dei generi? I trattati di precettistica letteraria li distinguano pure con la maggior esattezza possibile; ma se un genio, per raggiungere più alti scopi, mescola in una sola opera alcuni di essi, dimentichiamo il trattato e indaghiamo, piuttosto, se questi più alti scopi sono stati raggiunti. Cosa mi importa se un lavoro di Euripide non è né tutto racconto né tutto azione drammatica? Chiamiamolo un ibrido: a me basta che questo ibrido mi diletti e istruisca più di tutte le regolarissime produzioni dei vostri impeccabili Racine, o come altrimenti si chiamano. Il mulo, pur essendo un incrocio fra il cavallo e l’asino, non è forse uno dei più utili animali da soma?…[29]

Quella di Euripide – per Lessing – non è (come credono i suoi detrattori) un’«arte drammatica ancora nella culla», bensì qualcosa di maturo e neanche troppo eccentrico rispetto a certe norme: «È chiaro, infatti, che tutte le tragedie, dei cui prologhi [i critici] tanto si scandalizzano» – Jone, Ecuba – «sarebbero perfette e perfettamente comprensibili anche senza di essi»; il punto è che Euripide non è affatto interessato all’incertezza e all’aspettativa del pubblico e, quando «Aristotele definisce Euripide il più tragico dei poeti tragici, non ha in mente il fatto che la maggior parte delle sue opere si conclude con una catastrofe». Aristotele non pensava, infatti, a tragedie piene d’orrori e a Euripide riconosceva la qualità d’«indicare in precedenza agli spettatori l’infelicità che si stava per abbattere sui suoi personaggi, per ispirare agli spettatori stessi pietà anche quando i personaggi meno pensavano di meritarla».[30]

6. Non si creda che la lunga discussione sulla Merope e soprattutto il serrato confronto di Lessing con Euripide e un Aristotele liberato dai ceppi del regolismo classicista,[31] con un’esplicita apertura alla diegesi nel dramma, si limitino in prospettiva a creare solo più o meno fantasmatiche rifrazioni in Alfieri,[32] restando circoscritti al pur cruciale ambito estetico del XVIII secolo. L’irradiazione prospettica anzi, pur non apparendo così immediata, è assai ampia e rilevante.

Dopo la corposa (e commerciale) fase del teatro ottocentesco di matrice scribiana, che, nel 1909, Adolphe Thalasso descriveva come la stagione in cui, superando «il movimento dalla vita», s’impone una superficiale «vita dal movimento», vale a dire una transizione imponente, fra il 1815 e il 1880, dalla commedia di carattere a quella d’intreccio, integrata da vezzi melodrammatici,[33] giunti nell’area della crisi del dramma moderno tracciata da Peter Szondi, potremmo schematizzare che si diramano due strade. Una sofoclea, essenzialmente riconducibile a Ibsen, ma un’altra fangosa, una «mulattiera» (se ci si consente di riprendere i termini di Walter Benjamin) in direzione del dramma dell’ultimo Strindberg e della «drammaturgia non-aristotelica» di Brecht,[34] che si configura nella sostanza euripidea, proprio in forza dell’analisi di Lessing.

La linea ibseniana della tragedia moderna, fondata sul riaffiorare del passato in vista della catastrofe, è stata assai presto riconosciuta come sofoclea (e si può ipotizzare con l’avallo dello stesso autore). Infatti, già Henrik Jæger, nel 1888, in un’importante monografia sul drammaturgo norvegese (scritta a stretto contatto con lui), aveva individuato la «formula» del suo dramma in un «metodo analitico», che presentava analogie con la tragedia di Sofocle, rielaborata modernamente da Schiller, venendo a costituire un’opera che

si avvia da quello che sarebbe il punto conclusivo di un dramma comune. Tutte le ultime opere di Ibsen non sono altro che delle grandi catastrofi finali. La situazione è pienamente definita prima che il dramma cominci; tutti i momenti critici sono alle spalle e scopo del dramma è solo illuminare la situazione data fino alle conseguenze più remote. […] [Ibsen] ha scoperto il potere del dramma analitico di rendere un quadro naturalista in una forma drammatica.

Il drammaturgo norvegese aveva in tal modo surclassato le potenzialità della «peculiare forma artistica dell’epoca moderna», il grande romanzo ottocentesco: «Mentre il dramma ordinario» – osserva Jæger – «non può che offrire un cenno delle condizioni psicologiche, il dramma analitico è in grado di rendere un ricco e dettagliato ritratto dell’anima; può anche consentire ai personaggi di divulgare i loro pensieri più segreti, e questo senza ricorrere al monologo o ad altri improbabili stratagemmi».[35] La competizione fra romanzo e dramma, per un autore (a differenza di Ibsen) impegnato sui più vari fronti della scrittura (e non solo) come Strindberg, viene consumata nella contaminazione pressoché genetica dei generi. In una lettera del 6 maggio 1907, indirizzata al suo traduttore tedesco Emil Schering, nel segno creativo dei suoi sperimentali drammi da camera, Strindberg affermava infatti:

il segreto di tutti i miei racconti, novelle, favole è che sono dei drammi. Infatti, quando i teatri mi furono interdetti per lunghi periodi, pensai di scrivere i miei drammi in forma epica – a uso futuro. […] Ora sono convinto che con una concezione più libera e più nuova del dramma si possono anche prendere in considerazione i racconti esattamente come sono! Sarebbe una novità! – Le scene mutano, ma non è altro che l’ubiquità di Shakespeare, le riflessioni dell’autore diventano monologhi. Ma si potrebbe anche inserire un nuovo personaggio (corrispondente al coro dei greci) e potrebbe essere – il Suggeritore, semivisibile, che legge le descrizioni (paesaggi, ecc.) e racconta o riflette, mentre la scena cambia. […] Tutte le forme non sono oggi consentite?[36]

È storicamente assodato che August Strindberg fu un assiduo lettore sia di Euripide sia di Lessing[37] e, sebbene non si possano definire nel caso specifico del documento riportato dei nessi immediati, non ci sentiremmo di negare ch’esso sia il frutto teorico, oltre che dei fermenti avanguardistici del principio del XX secolo, anche dello sdoganamento lessinghiano della «mescolanza dei generi».

Chi ha invece recepito, ai fini dell’elaborazione della sua teoria del teatro epico, diretti impulsi sia da Diderot sia da Lessing (per non menzionare lo stesso Strindberg) è Bertolt Brecht.[38] Walter Benjamin ha sottolineato come nel teatro brechtiano la posizione rilassata e critica del pubblico combaci con quella del lettore di un romanzo, del tutto opposta a quella che abbiamo consuetamente di uno spettatore di teatro ovvero «un uomo che segue un succedersi di eventi, profondamente teso in tutte le sue fibre».

Un principio essenziale che dovrà poi strutturare il teatro epico sarà l’«estrema trasparenza» del «congegno artistico»; d’altra parte, Brecht mira a privare i contenuti drammatici «del loro carattere di sorpresa ad effetto», comportandosi «nei confronti della trama come il maestro di ballo nei confronti dell’allieva; la prima cosa da fare è snodarle le articolazioni fino al limite estremo», con una fondamentale sostituzione dello stupore all’immedesimazione.[39] Insomma, mutatis mutandis, quello che d’Aubignac rimproverava a Euripide.

Del resto, Paolo Chiarini ha definito il teatro epico (con espressione lessinghiana) «un ibrido, un “innaturale” connubio di elementi eterogenei», sottolineando come Brecht rigetti «la classica distinzione fra narrazione e dramma elaborata da Goethe e Schiller nel loro carteggio del 1797» (ed ereditata, tra l’altro, da Lukács), appoggiandosi esattamente al Lessing che difende Euripide nei passi della Drammaturgia d’Amburgo su cui ci siamo soffermati.

Una parte consistente della «rivoluzione copernicana» rappresentata dalla teoria di Brecht sta così in quel passaggio del Breviario di estetica teatrale del 1948, nel quale il drammaturgo contesta proprio «la distinzione fatta da Schiller fra il rapsodo, che ha da trattare il suo soggetto del tutto passato, e il mimo che deve trattarlo come del tutto presente»; l’interprete deve sapere sin dal principio quale sarà il fine della rappresentazione, serbando «una serena libertà» e dimostrando di saperne molto di più del suo stesso personaggio, straniando quindi e facendo saltare ogni presupposto di finzione illusiva, privilegiando soprattutto «la connessione degli avvenimenti».[40]

È vero che Lessing e Brecht condividono il principio che il dramma non debba avere solo una componente di diletto, ma individuarsi in special modo per «il suo valore conoscitivo e la conseguente necessità che […] istruisca lo spettatore»,[41] tuttavia il paradosso critico che affiora a conclusione del nostro discorso è che l’apertura in senso illuministico della Poetica e, segnatamente, la lettura lessinghiana di Euripide, che attinge il rimescolamento del «genere drammatico con quello narrativo» o – come scrive Chiarini[42] secondo Brecht – il ripudio delle «“zone di rispetto” che la retorica ha assegnato ai diversi livelli di stile», finisce con il dare sostanza a esiti intenzionalmente antiaristotelici. E, in fondo, il grande sovvertitore, dietro le quinte, si rivela, una volta di più, Euripide, di fronte al quale – aveva a suo modo ragione Nietzsche – bisogna sempre stare in guardia.



[1] J.G. ROBERTSON, Lessing, Maffei and Calepio, in «The Modern Language Review», XIII, 4, 1918, pp. 482-483.

[2] G.E. LESSING, Drammaturgia d’Amburgo, a cura di P. CHIARINI, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 234, 231 (rip. facsimile dell’ediz. Bari, Laterza, 1956).

[3] P. SCOTTON, La poetica della “Merope” nella “Drammaturgia” amburghese di Lessing. Pubblico e catarsi, in «Mai non mi diero i dei senza un egual disastro una ventura»: la “Merope” di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2013), a cura di E. ZUCCHI, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 152 ss., 158-159.

[4] LESSING, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 231.

[5] Ivi, p. 177.

[6] Ivi, p. 175.

[7] Ivi, pp. 178-179.

[8] Ivi, p. 188. E cfr. ARISTOTELE, Poetica, a cura di G. PADUANO, Roma-Bari, Laterza, 20119, 1453a 29-30.

[9] Ivi, 1454a 4-9.

[10] LESSING, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 180.

[11] Ivi, pp. 185-186.

[12] Ivi, p. 186.

[13] Ivi, pp. 187-188.

[14] Ivi, pp. 187 ss. (189 per la citazione).

[15] Ivi, pp. 189-190.

[16] Ivi, p. 192.

[17] Ivi, pp. 220-221.

[18] Ivi, pp. 222-223.

[19] Ivi, pp. 226, 229.

[20] Cfr. ivi, pp. 224-225.

[21] D. DIDEROT, Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. GRILLI, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 268 ss.

[22] LESSING, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 201.

[23] Ivi, p. 225.

[24] Ivi, pp. 225-226.

[25] ABBE D’AUBIGNAC, La pratique du Théâtre, Amsterdam, Bernard, 17152, pp. 146-147. Mia la traduzione.

[26] Cfr. P. TRIVERO, Tragiche donne: tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. 14-15.

[27] In F. PERRELLI, Poetiche e teorie del teatro, Roma, Carocci, 2015, p. 135.

[28] LESSING, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 229.

[29] Ivi, pp. 226-227.

[30] Ivi, pp. 227 ss.

[31] Cfr. ivi, p. 412.

[32] Cfr. TRIVERO, Tragiche donne, cit., p. 35; G.P. MARCHI, Voltaire, Lessing e Alfieri di fronte alla Merope di Scipione Maffei, in «Studi italo-tedeschi», XXIII, 2002, p. 145.

[33] Cfr. A. THALASSO, Il “Teatro libero” di Antoine, a cura di G. LIOTTA, Bologna, Press-Coper Service, 1989, pp. 6 ss.

[34] Cfr. W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1955), Torino, Einaudi, 19725, pp. 129-130.

[35] H. JÆGER, Henrik Ibsen 1828-1888. A Critical Biography (1888), New York, Blom, 19722, pp. 267 ss. Traduzione mia.

[36] A. STRINDBERG, Vita attraverso le lettere, a cura di F. PERRELLI, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999, pp. 358-359.

[37] Cfr. F. PERRELLI, Strindberg: la scrittura e la scena, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 45-46, 87.

[38] Cfr. R. CRITCHFIELD, The Mixing of Old and New Wisdom: On Lessing’s Nathan der Weise and Brecht’s Der kaukasische Kreidekreis, in «Lessing Yearbook», XIV, 1982, pp. 161-162.

[39] BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pp. 127 ss.<

[40] P. CHIARINI, Brecht, Lukács e il realismo, Roma-Bari, Laterza, 1970, pp. 89 ss.; B. BRECHT, Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 19743, p. 135.

[41] SCOTTON, La poetica della “Merope” nella “Drammaturgia” amburghese di Lessing, cit., p. 162.

[42] CHIARINI, Brecht, Lukács e il realismo, cit., p. 91.




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