1. «Ed ora, per questa volta, basta con la Mérope!». Così conclude Lessing il capitolo L del primo volume della Drammaturgia dAmburgo (1767-1769), rendendosi ben conto che lanalisi serrata e incrociata della Merope di Scipione Maffei (1713) e della Mérope di Voltaire (1736-1738) aveva occupato decine di pagine delle sue cronache (a partire dal capitolo XXXVI): «un settimo» – è stato calcolato dal Robertson – di unopera che, non senza ironia, lautore aveva immaginato che i suoi lettori potessero desiderare «varia, divertente e allegra come può essere soltanto una rivista di teatro». Lessing si era soffermato tanto su due indubbi e discussi successi teatrali del XVIII secolo: la Merope italiana era stata rappresentata a Modena nel giugno del 1713 da Elena Balletti e Luigi Riccoboni, con precisi intenti di riforma e regolarizzazione scenica, non estranei a certi ideali dellArcadia; quella francese, nel febbraio del 1743 da les Comédiens du Roi, protagonista Mlle Dumesnil. Il confronto fra i due testi, la contrapposizione fra stile italiano e stile francese, se non addirittura fra Verona e Parigi, avevano sollevato sonore polemiche e, per di più, sul lavoro di Voltaire sera posato il sospetto del plagio in relazione alla Merope del Maffei (unipotesi cui Lessing avrebbe dato peraltro ampio credito). Tuttavia, ciò che interessava prioritariamente lautore della Drammaturgia dAmburgo era sciogliere nodi teorici strategici sia relativi alla tragedia di Euripide sia alla Poetica di Aristotele. Maffei, dopo tutto, si era impegnato, con Merope, a restare nellambito di un aristotelismo che non fosse soffocato, alla francese, da regole vincolanti, bensì sostenuto dai principi di verità e di natura, con un accento particolare «sul diletto e il piacere che accompagnano la rappresentazione scenica della tragedia». Era qualcosa che, in parte, confliggeva con lintento riformatore lessinghiano sì «di dilettare il proprio pubblico, ma […] innanzitutto […] di spronarlo ad esercitare le proprie capacità di critica nei confronti di quanto rappresentato sulla scena». Lattenzione lessinghiana per la Merope finiva per essere quindi tuttaltro che circoscritta e celava nientemeno che lobiettivo dindividuare propriamente «ciò che dovrebbe e non dovrebbe esserci in una tragedia». Dopo tutto, se la Merope di Maffei costituiva, per generale riconoscimento ed effervescenza polemica, un modello di rinascita del tragico nel XVIII secolo (tanto da essere copiata da Voltaire), la questione da trattare superava ogni proposito di mera erudizione e aveva anche a che fare con lessenza e il destino del dramma moderno. 2. Lanalisi di Lessing prendeva spunto, in prima battuta, dalla rappresentazione amburghese della tragedia di Voltaire, il 7 luglio 1767, e metteva subito in evidenza che il testo di Mérope, in Francia, aveva riscosso un successo così fanatico da avere imposto «lartificio in luogo della naturalezza» ed elogi tanto esagerati da aver fatto ritenere addirittura sopportabile la perdita di un antico Cresfonte, tragedia greca di analogo argomento, della quale si possiedono solo frammenti: «meglio, esso non è più perduto: Voltaire ce lo ha restituito», ironizza il critico tedesco. Nel capitolo XXXVII, Lessing, soffermandosi per lappunto sulle fonti dichiarate (sulla scorta della non sempre impeccabile erudizione del tempo) dallo stesso Maffei, per la sua tragedia nella Lettera dedicatoria del 10 giugno 1713 al duca Rinaldo I di Modena – dopo aver menzionato Pausania, Apollodoro e Igino –, sottolinea che anche «Aristotele, nella sua Poetica, ricorda un Cresfonte in cui Merope riconosce il proprio figlio [Egisto o anche Telefonte] nel momento in cui sta per ucciderlo, credendolo lassassino del figlio medesimo. […] È vero» – aggiunge Lessing – «che Aristotele nomina questo Cresfonte senza citare lautore, ma poiché troviamo ricordato un Cresfonte di Euripide in Cicerone e in molti altri scrittori antichi, egli non poteva che riferirsi allopera di questo poeta». Stabilito ciò e data la circostanza che Aristotele (come Lessing ricorderà anche in seguito) definisce, nonostante qualche riserva, Euripide «tragicissimo fra tutti i poeti tragici», il passo relativo al Cresfonte – a detta anche di vari commentatori – avrebbe attribuito a questo tipo di tragedia a lieto fine (appunto come la Merope di Maffei) la peculiarità di porsi come un vero e proprio modello poiché la stessa Poetica sancisce che, in una tragedia, è «meglio se chi agisce non fa e viene a sapere dopo aver agito; la situazione non è ripugnante e il riconoscimento ha un effetto di sorpresa. La situazione migliore è però […] come quando nel Cresfonte Merope sta per uccidere suo figlio, e non lo uccide perché lo riconosce, o come nellIfigenia la sorella sta per uccidere il fratello, o nellElle il figlio riconosce la madre quando sta per consegnarla». Il passo aristotelico scatena in Lessing una puntuta discussione che si dirama dallapparente contraddizione che la Poetica, oltre alla peripezia a lieto fine, sancisce pure che «una buona trama tragica non deve avere uno scioglimento lieto, ma funesto». In questo caso e di norma, Lessing simpegna a risolvere le difficoltà teoriche, interpretando Aristotele in una chiave laica e invitando, nello specifico, critici e drammaturghi a considerare flessibilmente le sfaccettature di una fabula scenica: «se essa non vi concede altro che o la migliore peripezia, o la migliore trattazione della catastrofe, cercate quale elemento dellalternativa vi offra vantaggi maggiori, e scegliete». È un fatto però che il Cresfonte di Euripide intriga non poco Lessing, tanto da spingerlo a una sorta dipotetica ricostruzione di questa tragedia perduta, fermo che il tema di Merope, a suo avviso, in base alla relativizzazione del citato passo della Poetica, «non può essere considerato senzaltro una perfetta favola tragica» (quantomeno con la benedizione dellautorità di Aristotele), perché le lodi del filosofo «non si riferiscono allintera favola, ma solo a una singola parte della stessa». Era quindi uniperbole insostenibile quanto scritto da Voltaire, nella Lettre à M. Maffei, nella quale – in cortocircuito con un riferimento plutarcheo – si sosteneva che Aristotele, nella Poetica, aveva esaltato il «coup de théâtre» euripideo del riconoscimento di Merope e di suo figlio come «il momento più interessante di tutta la scena greca», smentita peraltro da altri mirabili (e sempre relativi) casi di riconoscimento in un autore come Euripide, «che ha fatto uso frequentissimo della peripezia a finale tragico». 3. I pochi frammenti del Cresfonte euripideo non cilluminano sulla struttura di questo dramma e, per Lessing, un ulteriore problema sorge addirittura con il titolo, che rimanda a un protagonista che dovrebbe essere defunto da tempo quando il figlio (Epito o Telefonte, a seconda dellattribuzione del nome) rientra in possesso del suo regno: «Ora, si è mai sentito che una tragedia sintitoli dal nome di un personaggio che non vi compare affatto?». Tuttavia, se Maffei ha tratto la sua materia – come afferma – dalla Favola 184 ovvero dalla «miniera» o «repertorio di argomenti tragici» di Igino, non è escluso che si possa tentare di farci unidea della tragedia perduta di Euripide, sebbene quel ricco materiale vada trattato con cautela, presentandosi piuttosto indifferentemente sia derivato dalla tradizione sia dalla materia tragica. Per quanto riguarda Maffei, Lessing gli dà atto che non intendesse ricostruire il Cresfonte, anzi, allontanandosi dal «preteso impianto euripideo», che puntasse su ununica situazione particolarmente commovente, affrontando il tema della madre che amava il proprio figlio tanto da volerne vendicare lassassinio con le proprie mani. Così aveva messo in assoluto rilievo nella tragedia «lamore materno in generale» ovvero una «passione piena di purezza e virtù, escludendo ogni altro affetto». Per Lessing è comunque assai verosimile che Euripide si rivelasse superiore nel trattamento della leggenda di Merope sia rispetto a Maffei sia rispetto a Voltaire. Infatti, sullipotetica traccia di Igino, il servo cui il figlio di Merope era stato affidato, le avrebbe annunciato la sua scomparsa: poco prima ella aveva udito, appunto, che era arrivato uno straniero, il quale si vantava di averlo ucciso, e che questo straniero riposava placidamente sotto il suo tetto. Ella afferra la prima cosa che le capita fra le mani, corre piena dira verso la stanza di lui, il vecchio le si precipita appresso: e il riconoscimento avviene proprio nellistante in cui il delitto avrebbe dovuto compiersi. Tutto ciò era molto semplice e naturale, molto umano e commovente! Insomma, con logica e tecnica drammatica più serrata, Euripide sarebbe stato certo in grado di far fremere gli Ateniesi per Egisto, senza poter provare un sentimento dorrore per Merope. Essi tremavano per lei stessa, che una scusabile precipitazione minacciava di trasformare nellassassina del proprio figlio. Al contrario, Maffei e Voltaire mi fanno tremare soltanto per la sorte di Egisto, giacché io sono così indignato con la loro Merope, che quasi vorrei concederle di portar a compimento il suo gesto. E così fosse! Se ella può prender tempo per la vendetta, avrebbe potuto prenderlo anche per condurre delle indagini. […] Non vorrei sbagliarmi di grosso, ma ad Atene lavrebbero fischiata. Lessing – sempre appoggiandosi a Igino – ha motivo di ritenere che, in Euripide, Egisto, pur cauto a svelarsi alla madre per i più imponderabili motivi drammatici, a differenza di quello moderno (che capita a Messene sconosciuto a sé stesso e per caso), fosse perfettamente consapevole della propria identità e nutrisse un preciso intento di vendetta. Gli elementi di oscurità e di casualità con cui Maffei ha trattato lazione del personaggio hanno conferito a tutta la sua tragedia «un carattere confuso, ambiguo e romanzesco». Lessing ipotizza invece che, nel testo di Euripide, lo spettatore apprendesse da Egisto stesso la sua vera identità; e più egli era certo che Merope si apprestava a uccidere il proprio figlio, tanto più grande doveva essere il terrore che lo afferrava, tanto più dolorosa la pietà alla quale egli si preparava, nel caso che il proposito di Merope non venisse frustrato a tempo. In Maffei e Voltaire, al contrario, noi congetturiamo soltanto che il presunto assassino sia il figlio stesso, e il nostro terrore si raccoglie tutto nel preciso istante in cui è destinato a dissolversi. Secondo Lessing, Euripide, quindi – con una tecnica superiore e aliena dalleffimero coup de théâtre dellagnizione patetica allacme delle opere di Maffei e di Voltaire –, avrebbe trattato in chiaro lidentità di Egisto, traendo da ciò un effetto di terrore e soprattutto di pietà più protratto e assai più intenso attorno al personaggio di Merope. 4. Lessing approda così ai cruciali capitoli XLVIII e XLIX, nei quali simpegna in una definizione più puntuale delleccellenza di quello che Aristotele aveva incoronato come il «più tragico di tutti i poeti tragici». Preliminarmente, Lessing ci offre unampia citazione del «migliore dei critici francesi», Denis Diderot, tratta da Sulla poesia drammatica del 1758. Nel capitolo XI di questopera, relativo a «cosa sostiene e rafforza lInteresse» in teatro, Diderot fissa un piccolo (e dichiarato) paradosso sul dramma: «tutto deve essere chiaro per lo spettatore. Confidente di ogni personaggio, informato di ciò che è avvenuto e di ciò che avviene, ci sono cento momenti in cui non si ha niente di meglio da fare che informarlo con precisione di ciò che accadrà». Pertanto: Sono così lontano dal pensare con la maggior parte di coloro che hanno scritto di arte drammatica, che si debba nascondere allo spettatore lo scioglimento, che non penserei di accollarmi unimpresa molto al di sopra delle mie forze, se mi mettessi a scrivere un dramma in cui lo scioglimento fosse annunciato dalla prima scena, e dove attingessi linteresse più vivo proprio da questa circostanza. Di conseguenza, «per una occasione in cui è opportuno nascondere allo spettatore un avvenimento importante prima che accada, ce ne sono molti altri in cui linteresse chiede il contrario. […] Non piangerò che un istante colui che sarà colpito e abbattuto in un momento. Ma» – si domanda Diderot – «come mi sento, se il colpo si fa attendere, se vedo il temporale formarsi sulla testa mia o di un altro, e restarvi a lungo sospeso?». Insomma, «tutti i personaggi si ignorino, se volete, ma lo spettatore li deve conoscere tutti». Un dramma in cui «tutto ciò che concerne i personaggi è noto» può porsi allorigine «delle emozioni più vive» e il modello «geniale» di tale dramma sta in Euripide, «il poeta greco, che rimandò fino allultima scena il riconoscimento di Oreste e di Ifigenia». A questo punto, Diderot chiede: «Perché certi monologhi hanno così grande effetto? Perché mi informano dei segreti disegni dun personaggio, e questa confidenza mi coglie in un istante di timore o di speranza». Per Diderot, tutto deve essere chiaro sin dal principio per lo spettatore e vanno evitati i colpi di scena: «Che lo spettatore sia al corrente di tutto, e i personaggi si ignorino se è possibile; che, soddisfatto di ciò che è presente, io possa augurarmi vivamente ciò che seguirà; che un personaggio me ne faccia desiderare un altro; un episodio mi affretti verso il seguente; che le scene siano rapide; non contengano che cose essenziali allazione, e io sarò interessato». Concludendo: «Lignoranza e la perplessità eccitano la curiosità dello spettatore, e la mantengono viva; ma sono le cose note e sempre attese che lo turbano e lo agitano. Questo è un espediente sicuro per tener sempre presente la catastrofe». Anche per Lessing la sorpresa resta affidata alle reazioni degli interpreti sulla scena, non a quella degli spettatori, il cui interesse va orientato non su cosa, ma su come la tragedia si sviluppi. Questi spettatori devono vivere nellillusione scenica perché possano attingere una vera catarsi. Infatti, scopo essenziale del poeta tragico, che ha per mira di suscitare pietà, è essenzialmente quello di non distruggere il principio dell«illusione scenica». Per Lessing, la posizione di Diderot, che presuppone alla base dellautentica dinamica drammatica una forte componente diegetica, elettivamente affidata alla forma narrativa del monologo, dà effettiva sostanza alleccellenza di Euripide su Maffei e su Voltaire, autori nei quali «Egisto è un enigma per sé e per il pubblico». In Euripide, per contro, gli spettatori avrebbero conosciuto Egisto sin dal principio e si sarebbe così creata una giusta tensione drammatica, dove Maffei e Voltaire non sono in grado di realizzare altro che una tragedia fatta di «una “serie di piccoli artifici”, i quali riescono a provocare soltanto una sorpresa di breve durata». Del resto, «Euripide era così sicuro del fatto suo, che quasi sempre indicava in precedenza al pubblico la meta a cui voleva condurlo. Anzi» – aggiunge Lessing –, «sarei molto incline a prendere, da questo punto di vista, le difese dei suoi prologhi, che oggi dispiacciono tanto ai moderni critici», e qui viene richiamato un famoso trattato classicista del 1657, la Pratique du Théâtre dellAbbé dAubignac, che, nel primo capitolo della parte III, si esprime duramente contro luso del prologo fatto da Euripide (a differenza di Eschilo e Sofocle, che «hanno sempre trattato benissimo il loro soggetto nel corso dello sviluppo drammatico»), specie quando mette in gioco un dio onnisciente che spiega non solo il passato, ma anche il futuro, non accontentandosi distruire lo spettatore dellantefatto, necessario allintelligenza del dramma, ma mettendo al corrente dello scioglimento e della catastrofe completa, di modo che tutti gli avvenimenti siano previsti: si tratta di una pecca assai rilevante assolutamente opposta a questa attesa o sospensione [attente ou suspension] che deve sempre regnare in teatro, distruggendo tutte le attrattive di un dramma, che consistono quasi sempre nella sorpresa e nella novità. Per Lessing, allopposto, non solo andavano benissimo i prologhi, ma persino le rivelatrici liste dei personaggi con il doppio nome, che era proprio quanto Maffei (assieme agli argomenti riassuntivi), per parte sua, riteneva distruttivo della sorpresa drammatica. Lautore tragico, per il critico tedesco, non deve inseguire effetti effimeri ed epidermici, ma avere di mira una catarsi che incida profondamente e non casualmente sullo spettatore in quanto educazione alla compassione e alla «trasformazione delle passioni in disposizioni virtuose». Per Lessing, la tragedia è essenzialmente socratica e, in unaccezione euripidea, si esprime nel «conoscere luomo e noi stessi; essere attenti ai nostri sentimenti; indagare e amare la natura per le vie più piane e più brevi; giudicare ogni cosa secondo la sua destinazione». 5. Luso spregiudicato dellelemento diegetico, considerato da critici prestigiosi una vera e propria minaccia per lefficacia drammatica, diventava per Lessing una qualità: Euripide sapeva che, con questo espediente, poteva «raggiungere una perfezione molto più alta». Infatti, «si riprometteva di ottenere la commozione, che desiderava suscitare, non tanto da quello che sarebbe accaduto, quanto dal modo [in cui] lavvenimento si sarebbe verificato». Un dio onnisciente, che neanche partecipa allazione, ma si rivolge al pubblico «mescolando in tal modo il genere drammatico con quello narrativo» è poi davvero – nei termini di una rappresentazione teatrale – così inconcepibile? E finalmente – chiede Lessing –, che significa la mescolanza dei generi? I trattati di precettistica letteraria li distinguano pure con la maggior esattezza possibile; ma se un genio, per raggiungere più alti scopi, mescola in una sola opera alcuni di essi, dimentichiamo il trattato e indaghiamo, piuttosto, se questi più alti scopi sono stati raggiunti. Cosa mi importa se un lavoro di Euripide non è né tutto racconto né tutto azione drammatica? Chiamiamolo un ibrido: a me basta che questo ibrido mi diletti e istruisca più di tutte le regolarissime produzioni dei vostri impeccabili Racine, o come altrimenti si chiamano. Il mulo, pur essendo un incrocio fra il cavallo e lasino, non è forse uno dei più utili animali da soma?… Quella di Euripide – per Lessing – non è (come credono i suoi detrattori) un«arte drammatica ancora nella culla», bensì qualcosa di maturo e neanche troppo eccentrico rispetto a certe norme: «È chiaro, infatti, che tutte le tragedie, dei cui prologhi [i critici] tanto si scandalizzano» – Jone, Ecuba – «sarebbero perfette e perfettamente comprensibili anche senza di essi»; il punto è che Euripide non è affatto interessato allincertezza e allaspettativa del pubblico e, quando «Aristotele definisce Euripide il più tragico dei poeti tragici, non ha in mente il fatto che la maggior parte delle sue opere si conclude con una catastrofe». Aristotele non pensava, infatti, a tragedie piene dorrori e a Euripide riconosceva la qualità d«indicare in precedenza agli spettatori linfelicità che si stava per abbattere sui suoi personaggi, per ispirare agli spettatori stessi pietà anche quando i personaggi meno pensavano di meritarla». 6. Non si creda che la lunga discussione sulla Merope e soprattutto il serrato confronto di Lessing con Euripide e un Aristotele liberato dai ceppi del regolismo classicista, con unesplicita apertura alla diegesi nel dramma, si limitino in prospettiva a creare solo più o meno fantasmatiche rifrazioni in Alfieri, restando circoscritti al pur cruciale ambito estetico del XVIII secolo. Lirradiazione prospettica anzi, pur non apparendo così immediata, è assai ampia e rilevante. Dopo la corposa (e commerciale) fase del teatro ottocentesco di matrice scribiana, che, nel 1909, Adolphe Thalasso descriveva come la stagione in cui, superando «il movimento dalla vita», simpone una superficiale «vita dal movimento», vale a dire una transizione imponente, fra il 1815 e il 1880, dalla commedia di carattere a quella dintreccio, integrata da vezzi melodrammatici, giunti nellarea della crisi del dramma moderno tracciata da Peter Szondi, potremmo schematizzare che si diramano due strade. Una sofoclea, essenzialmente riconducibile a Ibsen, ma unaltra fangosa, una «mulattiera» (se ci si consente di riprendere i termini di Walter Benjamin) in direzione del dramma dellultimo Strindberg e della «drammaturgia non-aristotelica» di Brecht, che si configura nella sostanza euripidea, proprio in forza dellanalisi di Lessing. La linea ibseniana della tragedia moderna, fondata sul riaffiorare del passato in vista della catastrofe, è stata assai presto riconosciuta come sofoclea (e si può ipotizzare con lavallo dello stesso autore). Infatti, già Henrik Jæger, nel 1888, in unimportante monografia sul drammaturgo norvegese (scritta a stretto contatto con lui), aveva individuato la «formula» del suo dramma in un «metodo analitico», che presentava analogie con la tragedia di Sofocle, rielaborata modernamente da Schiller, venendo a costituire unopera che si avvia da quello che sarebbe il punto conclusivo di un dramma comune. Tutte le ultime opere di Ibsen non sono altro che delle grandi catastrofi finali. La situazione è pienamente definita prima che il dramma cominci; tutti i momenti critici sono alle spalle e scopo del dramma è solo illuminare la situazione data fino alle conseguenze più remote. […] [Ibsen] ha scoperto il potere del dramma analitico di rendere un quadro naturalista in una forma drammatica. Il drammaturgo norvegese aveva in tal modo surclassato le potenzialità della «peculiare forma artistica dellepoca moderna», il grande romanzo ottocentesco: «Mentre il dramma ordinario» – osserva Jæger – «non può che offrire un cenno delle condizioni psicologiche, il dramma analitico è in grado di rendere un ricco e dettagliato ritratto dellanima; può anche consentire ai personaggi di divulgare i loro pensieri più segreti, e questo senza ricorrere al monologo o ad altri improbabili stratagemmi». La competizione fra romanzo e dramma, per un autore (a differenza di Ibsen) impegnato sui più vari fronti della scrittura (e non solo) come Strindberg, viene consumata nella contaminazione pressoché genetica dei generi. In una lettera del 6 maggio 1907, indirizzata al suo traduttore tedesco Emil Schering, nel segno creativo dei suoi sperimentali drammi da camera, Strindberg affermava infatti: il segreto di tutti i miei racconti, novelle, favole è che sono dei drammi. Infatti, quando i teatri mi furono interdetti per lunghi periodi, pensai di scrivere i miei drammi in forma epica – a uso futuro. […] Ora sono convinto che con una concezione più libera e più nuova del dramma si possono anche prendere in considerazione i racconti esattamente come sono! Sarebbe una novità! – Le scene mutano, ma non è altro che lubiquità di Shakespeare, le riflessioni dellautore diventano monologhi. Ma si potrebbe anche inserire un nuovo personaggio (corrispondente al coro dei greci) e potrebbe essere – il Suggeritore, semivisibile, che legge le descrizioni (paesaggi, ecc.) e racconta o riflette, mentre la scena cambia. […] Tutte le forme non sono oggi consentite? È storicamente assodato che August Strindberg fu un assiduo lettore sia di Euripide sia di Lessing e, sebbene non si possano definire nel caso specifico del documento riportato dei nessi immediati, non ci sentiremmo di negare chesso sia il frutto teorico, oltre che dei fermenti avanguardistici del principio del XX secolo, anche dello sdoganamento lessinghiano della «mescolanza dei generi». Chi ha invece recepito, ai fini dellelaborazione della sua teoria del teatro epico, diretti impulsi sia da Diderot sia da Lessing (per non menzionare lo stesso Strindberg) è Bertolt Brecht. Walter Benjamin ha sottolineato come nel teatro brechtiano la posizione rilassata e critica del pubblico combaci con quella del lettore di un romanzo, del tutto opposta a quella che abbiamo consuetamente di uno spettatore di teatro ovvero «un uomo che segue un succedersi di eventi, profondamente teso in tutte le sue fibre». Un principio essenziale che dovrà poi strutturare il teatro epico sarà l«estrema trasparenza» del «congegno artistico»; daltra parte, Brecht mira a privare i contenuti drammatici «del loro carattere di sorpresa ad effetto», comportandosi «nei confronti della trama come il maestro di ballo nei confronti dellallieva; la prima cosa da fare è snodarle le articolazioni fino al limite estremo», con una fondamentale sostituzione dello stupore allimmedesimazione. Insomma, mutatis mutandis, quello che dAubignac rimproverava a Euripide. Del resto, Paolo Chiarini ha definito il teatro epico (con espressione lessinghiana) «un ibrido, un “innaturale” connubio di elementi eterogenei», sottolineando come Brecht rigetti «la classica distinzione fra narrazione e dramma elaborata da Goethe e Schiller nel loro carteggio del 1797» (ed ereditata, tra laltro, da Lukács), appoggiandosi esattamente al Lessing che difende Euripide nei passi della Drammaturgia dAmburgo su cui ci siamo soffermati. Una parte consistente della «rivoluzione copernicana» rappresentata dalla teoria di Brecht sta così in quel passaggio del Breviario di estetica teatrale del 1948, nel quale il drammaturgo contesta proprio «la distinzione fatta da Schiller fra il rapsodo, che ha da trattare il suo soggetto del tutto passato, e il mimo che deve trattarlo come del tutto presente»; linterprete deve sapere sin dal principio quale sarà il fine della rappresentazione, serbando «una serena libertà» e dimostrando di saperne molto di più del suo stesso personaggio, straniando quindi e facendo saltare ogni presupposto di finzione illusiva, privilegiando soprattutto «la connessione degli avvenimenti». È vero che Lessing e Brecht condividono il principio che il dramma non debba avere solo una componente di diletto, ma individuarsi in special modo per «il suo valore conoscitivo e la conseguente necessità che […] istruisca lo spettatore», tuttavia il paradosso critico che affiora a conclusione del nostro discorso è che lapertura in senso illuministico della Poetica e, segnatamente, la lettura lessinghiana di Euripide, che attinge il rimescolamento del «genere drammatico con quello narrativo» o – come scrive Chiarini secondo Brecht – il ripudio delle «“zone di rispetto” che la retorica ha assegnato ai diversi livelli di stile», finisce con il dare sostanza a esiti intenzionalmente antiaristotelici. E, in fondo, il grande sovvertitore, dietro le quinte, si rivela, una volta di più, Euripide, di fronte al quale – aveva a suo modo ragione Nietzsche – bisogna sempre stare in guardia.
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