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Leonardo Tofi

Un ‘piccolo Augusto’ o un ‘grande’ imperatore?

Data di pubblicazione su web 26/08/2014
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La pièce Romulus der Große fu composta da Friedrich Dürrenmatt nell'inverno fra il 1948 e il 1949. La prima rappresentazione ebbe luogo presso lo Stadttheater di Basilea nell'aprile dello stesso 1949. Una seconda versione, redatta nel 1957 per lo Schauspielhaus di Zurigo, presentava alcune divergenze rispetto al testo originario soprattutto per quello che riguardava il quarto e ultimo atto[1]. Dopo la terza stesura del 1961, la versione definitiva fu scritta nel 1980 in occasione dell'edizione completa delle opere[2].
  

La commedia dispone anche di un sottotitolo vagamente eccentrico, quasi straniante nell'accezione brechtiana del termine: Eine ungeschichtliche historische Komödie, ossia Una commedia storica antistorica oppure, come recita la traduzione italiana di Aloisio Rendi, Una commedia storica che non si attiene alla storia[3]

  

L'espressione “commedia storica” si giustifica sulla base sia della struttura generale dell'intreccio sia di alcuni elementi di contorno riguardanti soprattutto certi personaggi sia delle coordinate spazio-temporali utilizzate. Al centro della trama è infatti posto quell'ultimo imperatore romano d'Occidente, il quale, per una sorta di graffiante beffa da parte della sorte, portava il nome di Romolo, il nome del leggendario fondatore dell'Urbe, e al quale era stato in seguito assegnato l'appellativo di “Augustulus”, il “piccolo Augusto”, non però in memoria dello storico iniziatore dell'impero, bensì nel senso di “piccolo imperatore”, poiché, nella realtà storica, regnò per un solo anno, dai suoi sedici anni ai diciassette quando fu deposto dal capo germanico Odoacre nel 476 d.C.. Alcuni personaggi corrispondono inoltre, come già accennato, a personalità che effettivamente svolsero un determinato ruolo nella vicenda storica: dall'imperatore d'Oriente, Zenone Isaurico, alla consorte di Romolo Augustolo, Giulia, figlia di Valentiniano III, imperatore d'Occidente dal 425 al 455. Infine, la pièce è ambientata in quella villa in Campania in cui Romolo Augustolo fu realmente relegato da Odoacre dopo la sua deposizione (pur se in Romulus der Große l'imperatore vi risiede stabilmente già da diverso tempo prima della detronizzazione). Anche la dimensione temporale impiegata nella commedia evidenzia un nesso sufficientemente sicuro con la realtà storica, visto che viene esplicitamente precisato come la vicenda rappresentata si svolga dalla mattina del 15 fino alla mattina del 16 marzo 476, rispettando dunque, non solo l'unità di luogo ma anche quella di tempo e, entro certi limiti, anche quella d'azione. In ogni modo, secondo la cronologia stabilita dagli storiografi, l'explicit dell'impero romano d'Occidente sarebbe da far risalire al 4 settembre e non al 15 o 16 marzo, comunque di quel medesimo anno 476. È del tutto verosimile che Dürrenmatt abbia così inteso richiamarsi a quelle Idi di Marzo del 44 a.C che, con l'uccisione di Giulio Cesare e contrariamente a quanto si erano augurati i congiurati, portarono a compimento la fine del regime repubblicano. 

  

D'altro canto, l'“antistoricità” risiede sia nelle difformità che l'intreccio palesa rispetto alla verità storica sia in quell'epiteto di “grande” attribuito a un imperatore che, come Romolo Augustolo, non solo non lo ha mai conseguito ma che, all'opposto, è stato sempre considerato, sia in vita sia post mortem, come imbelle e del tutto inadatto a governare, anche probabilmente a causa della sua giovane età. 

 L'epigrafe, tratta dai Sudelbücher di Lichtenberg e apposta sin dalla prima versione, viene a sua volta utilizzata per un indiretto rimando alla resa artistica della astoricità, nella misura in cui vi si sostiene che anche una complessa e produttiva operazione matematica come il calcolo differenziale derivi in ultima analisi dal “grande stratagemma di considerare le piccole deviazioni dalla realtà come la realtà stessa”[4]
  

Il fatto che a Dürrenmatt, al di là dell'impatto teatrale delle sue pièces, interessasse in particolar modo la possibilità di svolgere determinate tesi (in questo caso quella circa la concezione dello stato, la prevaricazione esercitata da ogni sorta di incondizionato imperium e la necessità di neutralizzarne dall'interno il potenziale distruttivo), è poi dimostrato dalla “nota generale per la versione definitiva del 1980 delle mie commedie”, nella quale l'autore dichiara di aver voluto allora dare alle stampe non “le versioni giuste per il teatro, cioè quelle ben limate, bensì quelle letterariamente valide”[5], là dove verosimilmente per queste ultime s'intendono le versioni delle proprie commedie in cui non tanto alla naturalistica consequenzialità del dialogo si sia badato quanto alla esaustività e alla evidenza dell'enunciato. 

  

Come detto in precedenza, l'intreccio differisce dalla autenticità storica per alcuni elementi che riguardano innanzitutto l'identità anagrafica dell'imperatore, il quale, nella pièce in questione, è un uomo maturo che regna già da vent'anni. Romolo Augustolo non si occupa inoltre di politica né agisce in alcun modo allo scopo di contrastare la marcia trionfale degli invasori germanici guidati da Odoacre. Ciò che, nei primi tre atti, viene ostentata con maggior insistenza da parte di Romolo Augustolo è infatti una compiaciuta indifferenza nei confronti non solo delle sorti del proprio impero ma anche dell'intero scacchiere internazionale. Così colui che almeno ufficialmente regna ancora sul più grande organismo statale fino allora conosciuto tra l'Atlantico e il fiume Indo si rivolge, ad esempio, all'imperatore d'Oriente Zenone Isaurico, fuggito di fronte all'avanzata germanica giunta a minacciare anche Costantinopoli: “Detto tra noi imperatori: è già un pezzo che non riesco più a tener dietro alla situazione politica internazionale”[6]

  

Ciò a cui Romolo Augustolo sembra invece voler dedicare tutto il suo tempo e le sue forze, fisiche e morali, è l'allevamento di polli, a molti dei quali ha imposto il nome degli imperatori romani del passato: Augusto, Tiberio, Caracalla, Domiziano. Sua unica ulteriore occupazione,  improcrastinabile e complementare alla pollicoltura, consiste infatti, nel primo atto, nella svendita a un pescecane che agisce da antiquario di tutti i busti dei re, degli imperatori, dei poeti e dei filosofi della romanità, allo scopo di acquistare l'ormai scarso mangime per i suoi polli. L'unico busto a non venire alienato è quello del primo Romolo,  che l'ultimo Romolo prenderà sotto il braccio e con cui si allontanerà nella chiusa della pièce, a mo' di icastica esemplificazione di un cerchio che si chiude[7]. Ancora a proposito dei polli dell'imperatore: a causa della citata esiguità del becchime, i polli 'romani' sono naturalmente magri e renitenti alla deposizione di uova      ,    mentre il ben più produttivo pollo Odoacre, anch'esso parte dell'allevamento di Romolo Augustolo, è in grado, pur in mancanza di mangime, di deporre più uova al giorno, ciò che induce l'imperatore d'Occidente a così argomentare: “E d'ora in poi voglio che mi si porti sempre a colazione un uovo della gallina Odoacre [...] Bisogna prendere dai germani quel che hanno di buono da darci, visto che stanno arrivando”[8]

  

L' imperturbabilità di Romolo Augustolo pare comunque rappresentare l'esito necessario della sua radicata convinzione a proposito dell'inanità dell'agire umano: “[...] non sono le notizie a sconvolgere il mondo. Sono i fatti, e quelli non possiamo cambiarli perché son già accaduti quando le notizie arrivano”, dice l'imperatore a Tullio Rotondo, ministro degli interni ante litteram, quando questi gli annuncia appunto l'arrivo di una cattiva notizia concernente l'impero[9]. Di primo acchito il suo atteggiamento potrebbe ricordare un'attitudine tipica della mentalità Biedermeier, l'ostinata desistenza di fronte a ogni specie di azione, in quanto “ogni azione è azione malvagia, sconvolgitrice di un ordine che per nessun motivo dev'essere cambiato”[10]. In realtà, l'immobilismo di Romolo Augustolo risponde a un diverso e ben preciso progetto politico.  

  

Quello che a prima vista sembra un rassegnato quietista, concentrato su attività e piaceri piccolo borghesi, dispone infatti in realtà di un saldo inesorabile senso morale e di un lucido punto di vista  filosofico-politico che lo induce a fare le veci di un liquidatore fallimentare dell'impero. Né Romolo Augustolo nasconde, soprattutto a partire dal secondo atto, quale sia stato il suo unico chiaro scopo politico. Ad esempio, nel corso del lungo dialogo con l'imperatrice nel terzo atto, così risponde all'interlocutrice che gli chiede conto della sua inazione: “È da secoli ormai che l'impero romano continua a esistere soltanto perché c'è ancora un imperatore. Per liquidare l'impero non avevo dunque altra scelta che quella di diventare io stesso imperatore.”[11]. Romolo Augustolo ha pertanto sempre mirato a mettere a frutto la giusta congiuntura, appena si fosse presentata, allo scopo di assestare all'istituzione statale romana il colpo mortale: “Io mi son costruito tutta la mia vita in vista del giorno in cui l'impero romano sarebbe crollato”[12]

  

E Romolo Augustolo ritiene quindi che in quel particolare frangente storico, ossia con i Germani ormai ante portas, l'occasione sia propizia per fare giustizia dell'impero. Giustizia storica appunto, necessaria a causa della sequela di assassinii, saccheggi e rapine a spese degli altri popoli che avrebbero contrassegnato la storia romana del periodo imperiale. Ed è soltanto a Emiliano, il leale e austero soldato appena tornato dalla prigionia e dalle torture subite a opera dei Germani, che l'imperatore si premura di spiegare in maniera grave e circostanziata le ragioni del suo comportamento: “Non sono stato io a tradire l'impero. È Roma che ha tradito se stessa. Conosceva la verità, ma ha scelto la violenza; conosceva l'umanità, e ha scelto la tirannide [...] Come posso aprirti gli occhi affinché tu veda questo trono, questo cumulo immane di teschi ammonticchiati, questo torrente di sangue, che fuma sui gradini, come un'eterna cascata della potenza di Roma [...] Roma è ormai debole, una vecchia decrepita e cadente, ma le sue colpe non sono ancora scontate, i suoi delitti non sono ancora espiati. E adesso, a un tratto, è suonata l'ora della resa de conti”[13]

  

Il compito di fare giustizia rispetto a tale cumulo di violenze, ontologicamente connaturato all'impero romano, è sempre ben presente nella mente dell'ultimo imperatore d'Occidente. Ciò accade anche quando egli, in una lunga scena che oscilla fra la fosca tragedia e la dissacratoria pochade, così apostrofa i grotteschi congiurati che vorrebbero eliminarlo per salvare Roma: “Lo so che cosa portate sotto i vostri mantelli, che cosa impugnate di nascosto. Ma vi siete sbagliati nel vostro calcolo. Credevate di venire da un uomo disarmato, e invece vi afferro con le zanne della giustizia”[14]

  

E tanto più Romolo Augustolo ritiene di poter ergersi a giudice delle iniquità dell'impero, in quanto egli stesso è pronto a fungere da vittima sacrificale, da capro espiatorio per quei torti: “Mi sono arrogato il diritto di essere il giudice di Roma perché ero pronto a morire [...] Ho impedito che il mio popolo si difendesse, ho lasciato che si spargesse il suo sangue perché ero pronto a versare il mio sangue”[15]. Un uomo mite, pronto a sacrificare anche se stesso per permettere alla storia dell'umanità di imboccare un nuovo corso, un esempio positivo a tutto tondo, dunque? Non del tutto di questo avviso è lo stesso Dürenmatt, il quale, in una nota alla seconda versione della pièce, scrive a proposito del potere giudiziale che Romolo Augustolo si attribuisce: “Si guardi più attentamente l'uomo che ho disegnato: spiritoso, rilassato, umano, eppure in fondo un uomo che agisce con la massima durezza e brutalità e che non si fa scrupoli nel pretendere, anche dagli altri, dei princìpi assoluti: un tipo pericoloso dunque, che mira alla morte, un giudice del mondo travestito da buffone”[16]. Non è quindi la funzione di severo giudice che ha assunto a fare di Romolo Augustolo “Romolo il Grande”.  L'aver voluto sferrare, nella finzione drammatica, il colpo di grazia al già vacillante impero sembra infatti costituire per Dürrenmatt più che altro una insolita gustosa trovata da parte sua: “Mi attirava anche il fatto di lasciare andare in rovina, per una volta, non un personaggio a causa dell'epoca ma un'epoca a causa di un personaggio”[17]. Sembra pertanto essere la sua leale schietta condotta nei confronti della figlia Rea [18], della moglie Giulia e del probabile futuro genero Emiliano e anche la sua capacità di affrontare senza alcun timore le conseguenze di ciò che ritiene giusto fare o non fare, piuttosto che il suo piano per la definitiva dissoluzione dell'impero, a giustificarne l'appellativo di “grande”. Così Romolo Augustolo si rivolge ad esempio a Rea, là dove la esorta appunto a non temere i tempi nuovi che verranno dopo la caduta dell'impero: “Impara a vincerla la tua paura. È l'unica arte che ci possa servire in tempi come questi, quella di guardare senza paura la realtà negli occhi e di fare senza paura ciò che è giusto”[19]. Parole queste che invalidano, almeno in parte, il sarcastico saluto rivolto da Emiliano a Romolo Augustolo appena comparso in scena: “Benvenuto, imperatore della mensa opulenta. Salve, Cesare dei polli. Ave, Romolo, che i soldati han soprannominato il piccolo”[20]

  

La visione politica di Romolo Augustolo, il quale nella valutazione negativa di ogni bellicosa politica di potenza si trova d'accordo con Odoacre, si estende non solo alla  prassi vessatoria della Roma da Augusto Ottaviano in poi ma anche alla stessa concezione dell'impero universale, pur se non alla pura nozione di stato. Così l'imperatore chiarisce la questione: “E io non nego la necessità dello Stato, ma solo la necessità del nostro Stato. Col tempo, esso era divenuto un impero universale e cioè un organismo che praticava apertamente l'assassinio, il saccheggio, l'oppressione, la rapina a spese degli altri popoli, finché non son venuto io”[21]. Il richiamo alla recente tragica esperienza del cosiddetto “dodicennio nero” non potrebbe essere più lampante. Numerosi e disseminati lungo tutta la pièce sono d'altra parte i riferimenti al periodo nazista, là dove, ad esempio, Romolo Augustolo così risponde a Odoacre, il quale non riesce a trovare nelle foreste vergini germaniche alcun senso di umanità e che per questa ragione vorrebbe ora impedire la formazione di un imperium germanico: “Io avevo condannato Roma perché mi ripugnava il suo passato, e tu la tua Germania perché non sopportavi il pensiero del suo futuro”[22]. La posizione di Odoacre è poi resa ancor più perspicua in base al raffronto in chiaroscuro con il nipote Teodorico (nella realtà storica re degli Ostrogoti), anch'egli sopravvenuto nella residenza imperiale, fanatico salutista, ferocemente casto e bellicista in servizio permanente, del quale il condotttiero dei Germani dice con non celata preoccupazione rispetto al futuro della nazione germanica: “Il guaio è che rappresenta l'ideale dei Germani, questo eroe. Egli sogna il dominio del mondo, e tutto il popolo sogna questo sogno insieme a lui”[23]. D'altro canto, il cammino della storia non si può arrestare, ciò che ad esempio si evidenzia nell'accenno agli storiografi, i quali, tenendo conto soltanto dei suoi prevedibili successi guerreschi, sicuramente, dice Odoacre, assegneranno a Teodorico l'appellativo di “grande”, così da esaltare una “falsa grandezza” di fronte a una “vera grandezza”, quella di Romolo Augustolo, che dalla storiografia sarà invece del tutto disconosciuta[24]

  

Della figlia dell'imperatore, Rea, si dice poi ripetutamente come ella, assistita da un attore, si stia esercitando nella declamazione del quarto episodio della Antigone di Sofocle, là dove cioè la protagonista lamenta la propria sorte che la sta metaforicamente conducendo in sposa ad Acheronte, pomposa allegoria della sua situazione di donna che si sente destinata al sacrificio della propria felicità in nome di ideali presuntamente superiori[25]. È tuttavia proprio il padre imperatore che ne svaluta l'enfasi, sottolineando come alla circostanza in cui la famiglia imperiale e tutto l'impero sono venuti a trovarsi la commedia si converrebbe meglio della tragedia e aggiungendo subito dopo: “Quando si è ridotti agli estremi, come lo siamo noi, si possono comprendere solo le commedie”[26]. Un parere del genere viene poi ribadito anche poco prima dell'epilogo, allorché, nel momento del passaggio ufficiale delle consegne tra Romolo Augustolo e Odoacre, l'ormai decaduto imperatore d'Occidente dichiarerà prosaicamente conclusa la vicenda: “Sì, sbrighiamoci. Recitiamo ancora una volta la commedia, per l'ultima volta ormai”[27]

  

L'opinione di Romolo Augustolo rispecchia quella dello stesso Dürrenmatt a proposito dell'improponibilità del genere della tragedia nell'epoca contemporanea, epoca nella quale non esisterebbero più individui portatori di colpe né di generiche responsabilità, componenti invece imprescindibili del sentimento tragico: “Troppo collettivamente siamo noi colpevoli, troppo collettivamente siamo inseriti all'interno dei peccati dei nostri padri e dei nostri avi. Siamo soltanto dei discendenti. Questa è la nostra sfortuna, non la nostra colpa [...] A noi può ormai presentarsi alla mente soltanto la commedia”[28]. La colpa individuale, quindi, come fondamento del genere tragico: una colpa individuale che si inscriva però nell'ambito di elevati sentimenti, pur se soverchi e sviati, come la hybris, la hamartia oppure un saldo convincimento di carattere religioso o politico. Anche in questo caso il riferimento di carattere universale che lo svizzero Dürrenmatt compie è inequivocabilmente ai totalitarismi e ai suoi orrori, tanto più che, parlando poco prima di come nell'universo creato dai drammi storici di Schiller si potesse rispecchiare l'universo a lui contemporaneo, aveva scritto: “Il mondo di oggi [...] si può [...] solo difficilmente trattare nella forma del dramma storico di Schiller, per il semplice motivo per cui non rinveniamo più eroi tragici, bensì solo tragedie, messe in scena da macellai universali ed eseguite da macchine tritacarne. Da Hitler e da Stalin non si possono più ricavare dei Wallenstein”[29]. Di più: Schiller, così come il teatro greco antico, avrebbe messo in scena un mondo visibile, mentre lo stato attuale rappresenterebbe qualcosa che non può essere compreso sino in fondo e che non lascia pertanto spazio agli eroi tragici ma solamente a esecutori tanto incolori quanto efferati: “[...] gli odierni affari di stato sono dei drammi satireschi in ritardo sui tempi, che fanno seguito a delle tragedie consumate in silenzio [...] L'arte giunge ormai solo fino alle vittime [...]  i potenti non riesce più a raggiungerli. Sono i segretari di Creonte a risolvere il caso di Antigone. Lo stato ha perduto i propri contorni, e come la fisica è ormai in grado di descrivere il  mondo solo mediante delle formule matematiche, così al giorno d'oggi è possibile rappresentare lo stato soltanto attraverso la statistica”[30]. A prescindere dunque dalla commedia vera e propria, l'unico elemento che può restituire il senso del nostro tempo, questo “ultimo giro di danza della razza bianca”[31], è il grottesco, vale a dire ciò che è in grado di smascherare le contraddizioni del mondo e di coloro che vi agiscono portando in scena situazioni e personaggi bizzarri, paradossali e deformati dallo strumento dell'ironia e producendo così quella sensazione di amara comicità che è caratteristica anche appunto di Romulus der Große.

Il grottesco in quanto segno della contemporaneità costituisce quindi per Dürrenmatt “un paradosso reso concretamente, ossia la forma di una non-forma, il volto di un mondo senza volto”[32]. Come dal paradosso storico nasce la “commedia storica antistorica” di Romulus der Große, allo stesso modo, entro un processo di contaminazione stilistica sempre possibile, dal paradossale finale tragico di un andamento da commedia nasce l'opera teatrale forse più nota di Dürrenmatt, ossia la “commedia tragica” di Der Besuch der alten Dame [La visita della vecchia signora – 1955], là dove il grottesco si sprigiona non solo da tale dissonanza della conclusione rispetto al clima semifarsesco della pièce ma anche dallo squilibrio fra un denso conflitto tragico e un meschino milieu piccolo borghese. Se la tragedia, come specifica forma drammatica, non è pertanto oggi più concepibile, ciò non significa che non lo sia il tragico, come esperienza individuale o collettiva. È anzi proprio dalla commedia, essa sì in quanto forma drammatica, che può sorgere, secondo Dürrenmatt, il tragico, allo stesso modo in cui, ad esempio, accade in certe commedie di Shakespeare, ciò che può talvolta dare appunto vita all'effetto grottesco[33]

  

Cedere in un'epoca siffatta alla disperazione, a tale sentimento del tragico, può certamente, a parere di Dürrenmatt, costituire una risposta, ma può rappresentare ciò anche il decidere di tenervi testa. Si fa allora un passo indietro, allo scopo di meglio misurare l'avversario, l'impero romano universale ad esempio, quell'avversario cioè che si vuole affrontare o a cui si intende sfuggire: si tratta,  prosegue Dürrenmatt, di uomini coraggiosi, come Romolo Augustolo ma anche come lo Übelohe di Die Ehe des Herrn Mississippi [Il matrimonio del signor Mississippi – 1952] o lo Akki di Ein Engel kommt nach Babylon [Un angelo scende a Babilonia – 1953], grazie ai quali si ricompone quell'ordine del mondo che era andato perduto[34].

In un saggio del 1952, Dürrenmatt  menziona comunque i modelli, più o meno incisivi, che hanno esercitato una qualche influenza sul côté grottesco del proprio teatro. Dopo aver liquidato la commedia attica nuova di Menandro, definendola non come “Komödie der Gesellschaft” [“commedia della società”] ma come “Komödie in der Gesellschaft” [“commedia in società”], qualcosa insomma come una commedia da salotto, vi si fa riferimento soprattutto ad Aristofane e a ciò che egli definisce lo “Einfall”, ossia il lampo improvviso, l'idea illuminante, l'intuizione subitanea, spesso surreale, quasi impalpabile, talvolta appunto grottesca. Si sarebbe cioè in presenza, nel caso di quell'Aristofane a cui Dürrenmatt intende rifarsi, di un corrusco bagliore che riveste i caratteri della casualità e che, intervenendo sulla materia grezza del soggetto, scompiglia quello che altrimenti sarebbe lo sviluppo logico-consequenziale della trama e determina così una sorta di straniamento in senso brechtiano. Il lampo, continua Dürrenmatt, costituisce qualcosa che è in grado di irrompere nell'ordinata disposizione degli eventi e delle situazioni, marcando ciò che vi è di assurdo, di grottesco, di paradossale, e proprio dal paradosso grottesco fa scaturire il vero, ciò che significativamente egli definisce “reportage”. Ed è proprio quello che accade nella chiusa di Romulus der Große, quando Romolo Augustolo e Odoacre disattendono le legittime attese del lettore, visto che l'imperatore d'Occidente paradossalmente si rivela come colui che, da tempo, sta lavorando per affrettare la caduta dell'impero su cui regna e poiché imperatore romano e capo germanico, ancor prima dell'agnizione finale, si concedono reciproca fiducia e si riconoscono l'uno nell'altro in qualità di appassionati allevatori di polli: Romolo: “[...] Ti interessi per caso di pollicultura?” Il germano: “Eccome! È la mia passione”[35]

  

Tra i discendenti moderni di Aristofane, Dürrenmatt menziona poi Frank Wedekind e la sua demistificatoria vena antiborghese, l'apocalittico Karl Kraus, Jean Giraudoux e lo stoicismo insieme pessimistico e ironico del  suo teatro, e infine anche Bertolt Brecht[36]. Si è già infatti accennato alla tecnica dello straniamento. Ebbene,  va innanzitutto detto come alcuni esiti del genere, talvolta effettivamente presenti nel teatro di Dürrenmatt, ivi compreso Romulus der Große, emanino non tanto, come invece prevalentemente accade in Brecht, dalla messa in scena e dalla regia quanto dal trattamento operato sul soggetto e quindi sul testo stesso della pièce, ad esempio attraverso l'uso straniante di paradossali anacronismi, assai frequente proprio in Romulus der Große, di surreali calembour e di rimandi intertestuali. Anche la funzione che lo straniamento è chiamato a svolgere è comunque, in Dürrenmatt, molto diversa. Non si tratta infatti più, come per Brecht, di un compito didattico, di un ruolo formativo, in vista di un possibile intervento positivo sulla realtà, ma da un lato della effettiva capacità da parte del teatro di denunciare le storture e l'ipocrisia della società contemporanea e dall'altro lato però dell'inattuabilità di qualsiasi progetto di effettivo cambiamento veicolato appunto dal teatro, elemento questo che provocò il duro attacco che a Dürrenmatt sferrò nel 1955 appunto Brecht, il quale accusò il drammaturgo svizzero di aver rinunciato alla possibilità di interpretare il mondo e la storia mediante l'impiego della ragione e di conseguenza alla possibilità di mutare le condizioni presenti e il corso della storia a venire. 

  

In base all'opinione di alcuni critici, lo straniamento dalla realtà che si sta illustrando costituirebbe la manifestazione evidente del processo di degradazione che l'eroe tradizionale ha subìto nel corso dello sviluppo delle forme letterarie, cosa che avrebbe dunque prodotto la satira il cui scopo sarebbe proprio quello di sottolineare l'aspetto ridicolo e grottesco di certi personaggi o della realtà nel suo complesso [37]. E all'interno di un testo come quello di Romulus der Große, si è indubbiamente in presenza di personaggi degradati”, ossia di personaggi con cui non è facile identificarsi. Questo vale per molti dei personaggi secondari, dai petulanti camerlenghi dell'imperatore d'Oriente all'ambiziosa e insincera imperatrice Giulia allo spocchioso Cäsar Rupf, esempio di mélange onomastico al passo con i tempi e fabbricante di quei pantaloni ormai destinati a sostituire le toghe; vale però anche per lo stesso Romolo Augustolo, sicuramente molto meno repulsivo di coloro che lo circondano, comunque anch'egli poco attrattivo perlomeno fino a ben oltre la metà della pièce. Come però negargli un moto di simpatia quando, nel corso del terzo atto, al cameriere Achille che, a conclusione di una giornata densa di avvenimenti, gli domanda se desideri indossare la toga imperiale oppure la veste da camera risponde con pacata deminutio: “La veste da camera. Per oggi ho già regnato abbastanza”[38]


[1] La prima versione del quarto atto è disponibile in appendice a Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große.Ungeschichtliche historische Komödie in vier Akten, Neufassung 1980, in Werkausgabe in dreißig Bänden, hrsg. in Zusammenarbeit mit dem Autor, Zürich, Diogenes, 1985, pp. 124-142..   
[2] Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit.
[3] Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande. Una commedia storica che non si attiene alla storia in quattro atti, trad. di Aloisio Rendi, Milano, Marcos y Marcos, 2011.     
[4] “Der große Kunstgriff, kleine Abweichungen von der Wahrheit für die Wahrheit zu halten [..]” Cfr. G. Chr. Lichtenberg, Sudelbücher I [1800/1806 post.], hrsg. v. W. Promies, DTV, München 2005, p. 9 . La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo. 
[5] “[...] die theatergerechten, das heißt die gestrichenen Fassungen [...], sondern die literarischen gültigen [...]”. Cfr. Allgemeine Anmerkung zu der Endfassung 1980 meiner Komödien, in Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 8.   
[6] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit. p. 44; “Unter uns Kaisern gesagt, ich habe schon lange keine Übersicht mehr in der Weltpolitik”.  Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 32. 
[7] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit. pp. 27-29, 171 e passim. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., pp. 21-23, 114-115 e passim.
[8] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit. pp. 24-25; “Und in Zukunft möchte ich auf meinem Morgentische die Eier der Henne Odoaker finden [...] Man soll von den Germanen nehmen, was sie Gutes hervorbringen, wenn sie schon einmal kommen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 19.  
[9] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit. p. 27; “Meldungen stürzen die Welt nie an. Das tun die Tatsachen, die wir nun einmal nicht ändern können, da sie schon geschehen sind, wenn die Meldungen eintreffen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 21. Altrove, l'imperatore così risponde a sua moglie che gli chiede la ragione del suo immobilismo: “Non vorrei disturbare il corso della storia, mia cara”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit. p 65. “Ich möchte die Weltgeschichte nicht stören, liebe Julia”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 45. 
[10] Cfr. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla sperimentazione (1820-1970), Tomo Primo, Dal Biedermeier al fine secolo (1820-1890), Torino, Einaudi, 1971, p. 87. Il riferimento è all'imperatore Rodolfo II d'Absburgo, personaggio del dramma Ein Bruderzwist in Habsburg (~ 1840) di Franz Grillparzer, e al suo culto dell'immobilità, unico antidoto al veleno di quei cambiamenti che, a suo avviso, potrebbero far crollare l'intera impalcatura dell'impero. 
[11] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 116; “Das römische Weltreich besteht seit Jahrhunderten nur noch, weil es einen Kaiser gibt. Es blieb mir deshalb keine andere Möglichkeit, als selbst Kaiser zu werden, um das Imperium liquidieren zu können”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 77.
[12] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 162; “Ich legte mein ganzes Leben auf den Tag hin an, da das römische Imperium zusammenbrechen würde” . Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 108. 
[13] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., pp. 135-136; “Nicht ich habe mein Reich verraten, Rom hat sich selbst verraten. Es kannte die Wahrheit, aber es wählte die Gewalt, es kannte die Menschlichkeit, aber es wählte die Tyrannei [...] Soll ich deine Augen berühren, daß du diesen Thron siehst, diesen Berg aufgeschichteter Schädel, diese Ströme von Blut, die auf seinen Stufen dampfen, die ewigen Katarakte der römischen Macht? [...] Rom ist schwach geworden, eine taumelnde Greisin, doch seine Schuld ist nicht abgetragen, und seine Verbrechen sind nicht getilgt. Über Nacht ist die Zeit angebrochen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., pp. 91-92. 
[14] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 137; “Ich weiß, was ihr unen euren schwarzen Mäntel verbergt, was für einen Griff eure Hand jetzt umklammert. Aber ihr habt euch geirrt. Ihr glaubtet zu einem Wehrlosen zu gehen, nun springe ich euch an mit den Tatzen der Wahrheit und packe euch mit den Zähnen der Gerechtigkeit”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 93. 
[15] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 162; “Ich gab mir das Recht, Roms Richter zu sein, weil ich bereit war zu sterben [...] Ich ließ das Blut meines Volkes fließen, indem ich es wehrlos machte, weil ich selbst mein Blut vergießen wollte”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., pp. 108-109. 
[16]  “Man sehe genau hin, was für einen Menschen ich gezeichnet habe, witzig, gelöst, human, gewiß, doch im letzten ein Mensch, der mit äußerster Härte und Rücklosigkeit vorgeht undnicht davor zurückschreckt, auch von andern Absolutheit zu verlangen, ein gefährlicher Bursche, der sich auf den Tod hin angelegt hat, dieses als Narr verkleideten Weltenrichters [...]”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 120. La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo. 
[17] “Auch lockte es       mich    , einmal einen Helden nicht an der Zeit, sondern eine Zeit an einem Helden zugrunde gehen zu lassen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 121. Dal programma di sala della prima di Basilea. La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo. Nella nota all'edizione del 1957, Dürrenmatt afferma poi che l'unica grandezza del suo personaggio consisterebbe nell'accettare serenamente il proprio pensionamento. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 120.
[18] È proprio per dissaudere Rea dallo sposare un ambiguo affarista che potrebbe corrompere i Germani e indurli ad abbandonare l'Italia e dunque per convincerla a rinunciare a sacrificarsi sull'altare della conservazione dell'impero che Romolo Augustolo lancia un'invettiva contro quella ragion di stato che pretende di far pagare agli individui il prezzo della propria sopravvivenza. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 63; Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 44.    
[19] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 124; “Dann lerne die Furcht zu besiegen. Das ist die einzige Kunst, die wir in der heutigen Zeit beherrschen müssen. Furchtlos die Dinge betrachten, furchtlos das Richtige tun”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 82.
[20]  Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 98; “Willkommen, Imperator des guten Essens [...] Sei gegrüßt, Cäsar der Hühner [...] Heil dir, den die Soldaten Romulus den Kleinen nennen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 66. 
[21] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 116; “Ich bezweifle nicht die Notwendigkeit des Staates, ich bezweifle nur die Notwendigkeit unseres Staates. Er ist ein Weltreich geworden und damit eine Einrichtung, die öffentlich Mord, Plünderung, Unterdrückung und Brandschatzung auf Kosten der andern Völker betrieb, bis ich gekommen bin”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 77. La medesima opinione è del resto espressa dallo stesso Dürrenmatt nel programma di sala di Basilea. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 121.
[22] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 167; “Ich richtete Rom, weil ich seine Vergangenheit fürchtete, du Germanien, weil es dir vor seiner Zukunft grauste”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 112.
[23] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 160; “Er stellt das Ideal der Germanen dar. Er träumt von der Weltherrschaft, und das Volk träumt mit ihm”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 107.
[24] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 161; Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 108.
[25] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 32, p. 38, pp. 84-86, p.89, p. 121; Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p. 25, p. 28, pp. 56-57, p. 59, p. 80.
[26] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 33; “Wer so aus dem letzten Loch pfeift wie wir alle, kann nur noch Komödien verstehen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 25.
[27] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 169; “Machen es wir schnell. Spielen wir noch einmal, zum letzten Mal, Komödie”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 113.
[28] “Wir sind zu kollektiv schudig, zu kollektiv gebettet in die Sünden unserer Väter und Vorväter. Wir sind nur noch Kindeskinder. Das ist unser Pech, nicht unsere Schuld [...] Uns kommt nur noch die Komödie bei”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Theaterprobleme [1955], in Theater-Schriften und Reden, hrsg. v. E. Brock-Sulzer, Zürich, Die Arche, 1966, p. 122. La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo.
[29]  “Die heutige Welt [...] läßt sich [..] schwerlich in der Form des geschichtlichen Dramas Schillers bewältigen, allein aus dem Grunde, weil wir keine tragischen Helden, sondern nur Tragödien vorfinden, die von Weltmetzgern inszeniert und von Hackmaschinen ausgeführt werden. Aus Hitler und Stalin lassen sich keine Wallensteine mehr machen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Theaterprobleme, cit. p. 119. La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo.
[30] “[...] die heutigen Staatsaktionen sind nachträgliche Satyrspiele, die den im Verschwiegenen vollzogenen Tragödien folgen [...]Die Kunst dringt nur noch bis zu den Opfern vor [...] die Mächtigen erreicht sie nicht mehr. Kreons Sekretäre erledigen den Fall Antigone. Der Staat hat seine Gestalt verloren, und wie die Physik die Welt nur noch in mathematischen Formeln wiederzugeben vermag, so ist er nur noch statistisch darzustellen”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Theaterprobleme, cit. p. 120. La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo.
[31] “[...] Kehraus der weißen Rasse [...]”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Theaterprobleme, cit. p. 122. La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo. 
[32] “[...] ein sinnliches Paradox, die Gestalt nämlich einer Ungestalt, das Gesicht einer gesichtslosen Welt [...]”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Theaterprobleme, cit. p. 122. La traduzione italiana è a cura dell'autore di questo articolo. 
[33] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Theaterprobleme, cit. pp. 122-123.
[34] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Theaterprobleme, cit. p. 123.
[35] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 154; Romulus: “Du bist Hühnerzüchter?” Der Germane: “Leidenschaftlich”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 103.
[36] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Anmerkung zur Komödie [1952], in Theater-Schriften und Reden, cit., pp. 132-137. Per ciò che concerne l'imprevedibile finale di Romulus der Große, è lo stesso Dürrenmatt a raccomandare a coloro che vi interpreteranno il ruolo principale di far scoprire al pubblico il vero carattere del protagonista soltanto nel corso del terzo atto. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 119.
[37] Cfr. soprattutto N. Frye, Anatomia della critica [Anatomy of Criticism - 1957], Einaudi, Torino 1969, pp. 298-320 e passim.
[38] Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romolo il grande, cit., p. 106; “Den Schlafrock. Ich regiere heute nicht mehr”. Cfr. Fr. Dürrenmatt, Romulus der Große, cit., p 70. 


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