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Cristina Jandelli

La salariata scalza

Data di pubblicazione su web 24/11/2012
Shoes

Il 34° Festival Cinema e Donne si inaugura al cinema Odeon di Firenze il 30 ottobre con la proiezione di Shoes, film diretto nel 1916 dalla pioniera Lois Weber, nome dimenticato della storia del cinema quanto celebre all’epoca in cui fu realizzata questa pellicola oggi tornata alla luce dopo una lunga fase di restauro curato dall’EYE Film Instituut Nederland. Presentato per la prima volta a San Francisco nel 2011, Shoes viene proiettato per la seconda volta in Italia dopo che nel giugno scorso è stato ospite del festival Cinema Ritrovato a Bologna.   

Lois Weber, nata in Pennsylvania da una famiglia di umili origini nel 1879 (o nel 1881, a seconda delle fonti), all’inizio del nuovo secolo entra nella nascente industria cinematografica dove esordisce come attrice prima di cimentarsi insieme al marito, Phillips Smalley,  anche lui attore, nella stesura di numerose sceneggiature. Inizia a dirigere film a partire dal 1911 e tre anni più tardi è la prima regista americana a realizzare un lungometraggio, un adattamento da Il mercante di Venezia di Shakespeare. Nel 1916 viene menzionata come “il” regista più pagato di Hollywood, grazie al contratto sottoscritto dal maggiore studio dell’epoca, la Universal. Un suo profilo, pubblicato all’indomani dell’uscita del film Shoes, ne rimarcava la capacità di illuminare «in maniera dignitosa e drammatica alcune delle complesse questioni che stimolano le persone intelligenti di tutto il mondo». In un breve lasso di tempo la cineasta aveva ottenuto un enorme rispetto e un sostanziale controllo creativo sul suo lavoro: così poteva ideare e dirigere una serie di film ambiziosi di stringente attualità dove affrontava temi sociali profondamente controversi fra cui la tossicodipendenza, la pena capitale, l'intolleranza religiosa e la contraccezione. Per un certo periodo Lois Weber ha rappresentato l’avanguardia del cinema progressista negli Stati Uniti.

Coerentemente con queste premesse, Shoes tratta una delle più dibattute questioni sociali dell'epoca, il fenomeno dell’accesso da parte delle giovani donne al lavoro retribuito. Il film è incentrato su Eva Meyer (Mary MacLaren), commessa a cinque dollari a settimana che con il suo magro stipendio deve sostenere madre, padre e tre sorelle più giovani: il genitore non è in grado di trovare un lavoro per mantenere la famiglia e il film suggerisce che non sia esattamente entusiasta di farlo. Eva sta in piedi tutto il giorno, consuma presto le vecchie scarpe ma non può comprarne di nuove, il freddo e la pioggia le rovinano i piedi. Una sera accetta l’invito di un ammiratore che le dà appuntamento al Cabaret Blue Goose. Il giorno dopo Eva arriva a casa con un paio di stivali nuovi ma è tardi per scoprire che il padre ha finalmente trovato un impiego. Questa storia di un giovane corpo femminile e dei suoi desideri, nonché delle passioni suscitate dall’economia dei consumi, viene raccontata con tono asciutto attraverso lo schema di un  morality play che si presenta però singolarmente privo di tesi, nonostante l’esplicito avallo del National Council of Public Morals. A meno che il monito non vada cercato nell’invito, implicitamente indirizzato al pubblico borghese cui il film era rivolto, a innalzare gli stipendi dei salariati per preservarne le virtù.

Shoes viene presentato come «A drama in five acts» e introdotto da una lunga serie di cartelli: 1. «This film has been endorsed by The National Council of Public Morals as a follow-up to the highly acclaimed film “Where are my children?”»; 2. «If only mothers had the courage to speak directly to their daughters, this would never happen»; 3. «This motion picture is based on this theme, upon the cry of a heartbroken mother at the deathbed of her daughter in the film “Where are my children?”»; 4. «This motion picture is not a simple fiction, created for the purpose of entertainment to be viewed in a free hour. It is an honest and too typical depiction representing the lives of TENS OF THOUSANDS OF GIRLS»; 5. «forced to work for poor wages. It was made to provide deep and honest inside in the causes that too often bring these girls to the moral ruin»; 6. «This motion picture is directed at YOU mothers and daughters, fathers and sons, who are responsible for their failed lives!». Segue una lunga inquadratura in primo piano emblematico della protagonista Eva Meyer (Mary MacLaren) e una, altrettanto insistita, che mostra la costola del libro A New Conscience and an Ancient Evil di Jane Addams. Poi il libro si apre e mostra la scritta: «A girl was ruined by giving in to temptation after trying in vain for seven months to save enough money to buy a pair of shoes. Each week she paid two dollars for her room and six dollars for board…». L’inquadratura successiva ne mostra un’altra pagina: «Three times she paid to have her shoes re-soled but finally their condition was beyond repair. In despair she gave up the battle and according to her own sad words “SOLD HERSELF FOR A PAIR OF SHOES”». Solo a questo punto, preceduto dal cartello «Act one» e dalla didascalia «Eva Meyer earned eight dollars a week at the department store» il racconto cinematografico può aver inizio.

L’incipit dunque è fortemente dilazionato: la soglia del film appare cosparsa di parole. Prima si ragiona, poi si guarda la storia. Si tratta dunque di un film-pamphlet (is not a simple fiction) di intento didattico-educativo, la vicenda vuole essere un’“illustrazione tipica”, rappresentativa delle vite di diecimila ragazze americane obbligate a lavorare per un misero salario.  L’intento è quello di «calarsi in modo profondo e onesto nelle cause che portano troppo spesso queste ragazze verso la rovina morale».

L’inizio del film contiene dunque una serie di indicazioni di lettura, premesse ideologiche al racconto, spiegazioni e raccomandazioni per un corretto e disciplinato utilizzo del nuovo mezzo audiovisivo. Allo stesso tempo propone un concetto molto nuovo, cioè che il film sia una sorta di emanazione di un  precedente, acclamato lavoro della regista. In Where are my children? del 1916 Lois Weber aveva raccontato la storia di un procuratore distrettuale che, mentre persegue un medico per aborti illegali, scopre che alcune persone della sua classe sociale, tra cui la moglie, sono ricorse ai servizi del medico: il film era stato censurato in diversi stati ed era stato oggetto di numerose polemiche. Il rimando testuale al film ha senso solo all’interno di una logica produttiva autoriale che nel cinema dell’epoca si trova solo nel lavoro di Griffith, il padre del cinema classico. E se Griffith pretendeva di aver inventato il primo piano, Weber aveva effettivamente inventato lo split screen nel celebre Suspense del 1913 oggi per questa ragione variamente antologizzato su YouTube.

Griffith nel 1914 aveva realizzato un film ideologico come Intolerance svolgendo il suo tema in oltre due ore di magniloquenza espressiva dove si intrecciano vicende paradigmatiche situate in vari periodi  storici per arrivare ad un toccante ed emozionante esempio di intolleranza ambientata in epoca contemporanea. Weber nel 1916 svolge la sua “trattazione” in poco meno di un’ora, con un linguaggio fortemente realistico intervallato da squarci onirici e dettagli ossessivi di scarpe slabbrate, scarpini lustri, piedi doloranti, solette ricavate da scatole di cartone, dettagli di suole imbevute d’acqua, la gola che brucia, la testa che scoppia.

Tanto Griffith è solenne e bigger than life quanto Weber scava dentro l’esperienza di vita di una giovane donna come tante dal nome-manifesto: si chiama Eva come L'Ève future protagonista del romanzo filosofico e fantascientifico di Villiers de l'Isle-Adam (1886) ma anche, più semplicemente, come la prima donna della Bibbia e la prima peccatrice della storia occidentale. Dalla sua costola però, per Weber, doveva nascere la New Woman, la donna nuova della modernità, matura e consapevole, nuovo soggetto della storia.

La sua Eva vive immersa nelle esigenze e nei reclami del  proprio corpo e questo tratto del film rappresenta ai nostri occhi una sensibilità in straordinaria sintonia con la nostra. La storia di Shoes è didattica e perfino intimidatoria nei cartelli dell’incipit (“il film è rivolto a VOI madri e figlie, padri e figli, che siete responsabili delle loro vite mancate”) ma il suo stile visivo è sensoriale ed empatico. Il linguaggio di Weber appare secco ed essenziale ma anche ricco di dettagli che nel loro giganteggiare sullo schermo fanno risuonare dentro ogni spettatore la memoria percettiva del dolore fisico che segue a una forte infreddatura o della ripugnanza a nutrirsi di cibo scadente. Sorvoliamo sul rancore che trapela a più riprese da Eva nei confronti di un padre perdigiorno liberamente dedito ai propri piaceri (la lettura, il fumo, la birra) mentre lei, con quegli stivaletti sdruciti, si vergogna perfino ad uscire di casa.

Un altro aspetto sorprendente del film è la forte ellissi che taglia fuori dal racconto il momento decisivo della perdizione della ragazza che accetta le avances di Charlie pur di ottenere un paio di scarpe nuove. Weber, dell’acme drammatico, non mostra nulla e si concentra invece sul momento della decisione. Eva decide di darsi a uno sconosciuto per un paio di scarpe nel momento stesso in cui raccoglie con accuratezza i capelli per poi specchiarsi in un’immagine di sé giustamente paradigmatica dell’intera pellicola: il piccolo  specchio alla parete è solcato da una lunga crepa e il volto di Eva appare riflesso tristemente diviso a metà. Non è certo l’unico momento in cui risalta l’espressivo ovale dagli occhi tristi dell’attrice, futura star,  Mary MacLaren, scoperta da Weber nelle lunghe file degli aspiranti attori che assediavano gli studi della Universal ma senz’altro, insieme al primo piano emblematico del prologo, è questo il momento in cui restiamo, intimamente, più soli con lei e con noi stessi. Poco dopo, a figura intera, si aggiusta bene la gonna per nascondere le scarpe malandate. Un altro dettaglio significativo, la camicetta leggera che estrae con lentezza dal cassetto. La rovina morale viene meticolosamente e mestamente predisposta.

Più convenzionale appare, all’inizio dell’ultimo atto, l’inserto della vita immaginaria di Eva, sogno lucente e vaporoso di agiatezza salottiera e gaiezza campestre in netto contrasto con il resto del racconto realistico giocato sui toni scuri, dominato dagli interni domestici scarsamente illuminati e immersi nell’ombra. Omesso il climax drammatico, ritroviamo Eva al rientro a casa che indossa finalmente le scarpe nuove ma il suo volto, se si può, è perfino più triste di prima. Piange. Piange anche la madre, ma la perdizione della ragazza resta il loro segreto altrimenti il padre la picchierebbe (e lui resta perplesso, non capisce perché la notizia che ha trovato lavoro resta così stranamente ignorata).

Come si addice a un morality play, la conclusione è lasciata, come le premesse, al testo scritto: «Eva’s story is but one of MANY IN OUR CITY. Never forget the grim, sad life of this poor outcast. Only then, can the lives of girls like her come to a better end. Then her sad story will not have been for nothing…».  Il richiamo alle responsabilità collettive non potrebbe essere più esplicito. Circolarmente, questo cartello conclusivo rimanda a quello «you» scritto a grandi lettere maiuscole che chiama in causa madri, padri, fratelli e sorelle, ma anche al monito del film precedente di Weber, al grido della madre dal cuore infranto di fronte alla figlia morente: «Se ogni madre avesse il coraggio di parlare apertamente con le proprie figlie questo non sarebbe mai successo».

Al di là dei cartelli, il motore primo dell’azione è lo spettro notturno di Eva che vede, dopo la desolante immagine mentale del padre sdraiato sul logoro materasso intento a leggere un dime novel e a bere da un  barilotto di birra, una mano secca protesa ad artiglio sulla propria testa con sopra la scritta “povertà”: la causa della perdizione delle giovani abitanti delle metropoli americane degli anni dieci del novecento sono i magri salari, gli stipendi da fame che Jane Addams certifica nel suo studio Una nuova coscienza e un male antico, indagine svolta presso l’associazione a difesa della gioventù di Chicago.

Circolarmente, infatti, il film torna soprattutto alla sua origine, alla fonte che ha nutrito il racconto cioè al libro di Jane Addams. Oggi lo chiameremmo un libro-inchiesta sui giovani di Chicago, tratta delle commesse dei grandi magazzini come anche dei luoghi di divertimento e delle quattromila schede raccolte su genitori che hanno incitato alla delinquenza le proprie famiglie. Non si può dimenticare che, nel primo decennio del secolo, Chicago era stata il set del più famoso muckraker, Upton Sinclair, poeta dilettante che aveva denunciato a puntate le disumane condizioni di lavoro e igieniche nei macelli cittadini (La giungla 1906, poi libro) e ispiratore del Pure Food and Drug Act rooseveltiano. Certamente il tema della prostituzione e della salute era già cruciale per il movimento progressista americano (vedi il socialista John Spargo, Le lacrime amare dei bambini, sempre del 1906)[1].

L’amara vicenda di Eva Mayer, insomma, conteneva molta più cronaca, sociologia e politica di quanta possiamo scorgerne adesso. Ora che il linguaggio del film di Weber appare così lontano, la sua vicenda tanto didascalica, il tono moraleggiante e melodrammatico del racconto più vicini che mai allo spirito vittoriano, lo stesso che peraltro ispirava Griffith. A noi cittadini globali del terzo millennio restano probabilmente più impressi gli spettri di quell’epoca lontana: un paio di scarpe troppo logore e sformate e l’artiglio della povertà che morde i sogni degli stipendiati (per tacer di disoccupati e precari).

 



[1] Devo queste considerazioni a Francesca Tacchi che ringrazio.


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