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Italo Moscati

Un direttore Rai

Data di pubblicazione su web 24/07/2012
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E’ in uscita presso l’editore EriRai il libro “Massimo Fichera e il lavoro in Tv” che si propone di ricordare e soprattutto riflettere su una figura che è stata particolarmente importante subito dopo la riforma del 1975 della Rai- Tv: Massimo Fichera, laureato in filosofia, catanese trapiantato al Nord, segretario generale della Fondazione Olivetti, che diventò direttore di Rai2, una rete rinnovata in cui ebbero parte autori e personaggi diventati centrali della cultura italiana, come Carmelo Bene, Luca Ronconi, Andrea Camilleri, Carlo Quartucci, Raffaele La Capria, Renzo Arbore, Ugo Gregoretti e molti altri. Italo Moscati, che lavorò per alcuni anni a Rai2 come autore e regista, ha scritto un breve saggio per il libro dedicato a Fichera, scomparso nel luglio del 2012; libro che comprende scritti di Alberto Abruzzese, Stefano Rolando, Guido Barlozzetti e altri. Delle pagine di Moscati diamo un’anticipazione.

 

Massimo Fichera e un incontro alla Casa della Cultura di Roma, nei pressi di Piazza Argentina nel 1976, a oltre un anno dalla riforma della Rai decretata dalla legge 103 del 14 aprile.
Lui, Massimo, non c’era. Era presente Enzo Forcella, allora direttore della Radio Rai, noto giornalista e scrittore, prestigioso collaboratore di “Repubblica”, un sostenitore della riforma.
La riforma allora vissuta come “una festa speciale”. Antenata di una “festa” che non c’è più. Cos’è diventata?
Ricordo Forcella, spesso dimenticato quando sarebbe meglio che accadesse il contrario, perché in quel dibattito fece emergere uno spunto interessante. Oggi più che mai.

Lo spunto serve per tornare alla prima fase dell’avventurosa storia della riforma, ai suoi primi snodi, al destino che è poi toccato alla riforma stessa. E soprattutto serve per rammentare la figura, le attività e le eredità di Fichera dal 1979, anno della conclusione della esperienza come direttore di Rai 2.
Forcella era un moderato, di sinistra; quel giorno il noto giornalista mi parve non dico smarrito ma certo sorpreso degli interventi di lamentazioni e polemiche su quanto stava  avvenendo intorno e dentro alla Rai, tra i riformisti.
I più estremisti, eccitati, ritenevano di non essere soddisfatti, soprattutto sul piano delle nomine che erano state fatte.
Nessuno fece il nome di Fichera ma c’era anche lui nel mazzo di persone che non piacevano o piacevano poco, nel mazzo di richieste e proteste velate.
Le nomine in Rai sono sempre state uno dei momenti più delicati nella vita di una azienda che è una succursale della politica dei partiti, nonostante le norme e gli sforzi di evitarlo da parte di coloro- i più illuminati, anche tra i politici- che temevano gli effetti di una modalità proprietaria praticata, nonostante le reiterate smentite in parole e in documenti.

Una realtà che viene da lontano, si è rafforzata con la riforma e sussiste ancora, se non altro per le stratificazioni geologiche sopraggiunte e accumulate, anche e di più, negli ultimi vent’anni.
Alla Casa della Cultura, nella piccola e animata assemblea – retaggio del ’68 che aveva lasciato profonde tracce- non emergeva un filo logico che potesse cucire le differenze e le divergenze delle opinioni.
Ero stato invitato e, ad un certo punto, per non perdere un orientamento nella confusione e contraddizioni nelle opinioni, chiesi d’intervenire. Volevo suggerire  semplicemente una parola, questa: “periodizzazione”.
Forcella colse al volo lo spunto e andò avanti meglio di come avrei potuto fare io. Disse, in breve, che bisognare fare un primo, prudente bilancio tenendo conto dei periodi attraverso i quali la Rai aveva cominciato ad incamminarsi. Ma non lo abbozzò, trasmise solo un velato pessimismo. Mi domandai il perché, anche se qualche risposta l’avevo in tasca.

Ripensando a quel giorno, ecco dove bisogna arrivare: porre con calma una seria questione, quelle dei “tradimenti” progressivi cresciuti con la stessa riforma, praticati volentieri, occultamente, da chi non l’aveva voluta, e l’aveva subita; da chi l’aveva voluta, e non era in grado di farla funzionare; e da chi, in silenzio, si era adeguato, senza rinunciare a boicottarla.
E’ una problematica generale che non ha trovato alcuna seria analisi negli storici, non faccio nomi di proposito.
Le storie e le enciclopedie della o delle televisioni, ancora in circolo, salvo poche eccezioni, sono talmente asservite a una osservazione di parte dei fatti e dei personaggi che non sono utilizzabili per farsi una idea precisa di quanto è avvenuto e avviene in Rai, dalla riforma in poi.
Non sono esenti dalla critica nemmeno i libri scritti da chi ha lavorato in Rai. Una valanga. Anzi.
Sono decine, forse centinaia di libri piccoli e grandi in cui le biografie, con  il gusto del racconto calato in episodi o aneddoti, confermano la prudenza o addirittura la scarsa volontà degli storici accademici di affrontare il nodo dei nodi: la situazione via via deteriorata dagli interventi dei gruppi o delle lobby politiche; e soprattutto la storia, le storie, la vita dei programmi, degli autori, della perdita di qualità, dalla concorrenza con le reti private, dalla egemonia conquistata dalle reti privati nelle forme ma anche nei contenuti.

Analisi serie e approfondite sulle caratteristiche dei programmi, delle fonti da cui partono e delle mete a cui tendono, sono scarse, anzi mancano.
Le enciclopedie frammentano, gli studi percorrono i “generi” (varietà, finzione, giornalismo e così via) ma si sviluppano su elenchi aridi che aumentano col tempo e si perdono in una genericità di commenti, di casi specifici ad esempio di  successi d’ascolto o di censure.
I fiumi carsici che scorrono in profondità e determinano i percorsi delle scelte, delle forme, degli indirizzi estetici e produttivi restano invisibili, o quasi.
In questo senso, tutta la sfera delle storie e dei commenti mostra i volti opachi di un sistema televisivo che si muove nella tradizione  tipica “arte di arrangiarsi”.
Un’ “arte” fatta propria  in Italia anche chi vi lavora, oggi più di ieri, e che molto spesso sostituisce la ricerca di progetti e la loro valorizzazione, e garantisce una continuità senza orizzonti, in cui le discontinuità sopraggiunte vengono assimilate e disperse.
Torniamo però alla “periodizzazione” che chiama  in causa la nascita di Rai2 con la direzione affidata a Fichera e alla sua rilevante importanza storica.
Bisogna a mio parere, considerare che la “periodizzazione” va anticipata a qualche anno prima dalla riforma 1975 e dalla nascita di Rai2; può e , addirittura, deve cominciare prima.

Nel 1969, sei anni prima della riforma, Fichera, laico, socialista, ex segretario generale della Fondazione Adriano Olivetti , era entrato nel consiglio di amministrazione della Rai; e Luciano Paolicchi, anche lui socialista, era stato nominato amministratore delegato. Direttore generale era, e lo resterà fino alla riforma, Ettore Bernabei.
In quei sei anni la “governance” della Rai, come la si chiama oggi, stava slittando verso un centro-sinistra più maturo (come si ricorderà il centro-sinistra cominciò col governo Aldo Moro, Pietro Nenni vicepresidente nel 1963), più allargato, con il disegno di ridisegnare un vero pluralismo di posizioni, componenti sociali, culture, idee.
Fino allora, i cattolici (non sempre allineati con i democristiani) guidavano la Rai e avevano ricevuto, come più volte ha avuto modo di dire Bernabei, il mandato dalle forze politiche del cosiddetto “arco costituzionale”, così venivano chiamate, per avviare un progetto nuovo alla Rai e offrire al Paese un forte contributo allo sviluppo , con una azienda funzionante su basi aggiornate, un vero servizio pubblico.
Erano i tempi delle “Tribune politiche”, che iniziarono nel 1961: aprivano a tutti i partiti, anche alla destra del Msi; erano distillate con cura nella forma e negli interventi, composte e paludate, controllatissime da azzimati “moderatori”; il che non impediva che si accendessero accesi scontri. Mai paragonabili alle risse di oggi. Squisitamente noiosi, a volte. Era l’alba dei dibattiti “perbene”.
Il pluralismo, una forma di pluralismo guidato, esisteva in Rai dallo stesso 1961, anno dell’arrivo di Bernabei, su mandato di Fanfani.
Da allora in poi, la presenza in Rai di programmisti, autori, giornalisti, intellettuali di provenienza laica , registi, divenne numerosa, con socialisti, comunisti, liberi pensatori, repubblicani, liberali, liberi pensatori.
Faccio qualche nome: Furio Colombo, Mario Carpitella, Andrea Barbato, Raffaele La Capria, Renzo Rosso, Angelo Guglielmi , Andrea Camilleri e tanti altri. Insieme a loro, lavoravano Fabiano Fabiani, Emilio Rossi,  Angelo Romanò, Sergio Silva, e tanti altri: cattolici democratici, indipendenti, con mentalità e idee laiche, come Brando Giordani, Emanuele Milano, Paolo Valmarana.
La televisione che proponevano, in tutti i sensi, dagli show agli sceneggiati, dai tg e ai documentari, verrà definita “pedagogica”; un contributo ad essa la diede una grande personalità di studioso come Umberto Eco, semiologo, che proveniva dall’Azione Cattolica, uscì dalla Rai, scelse l’università, fece nette scelte laiche, ed è divenuto un famoso scrittore.

Quella “televisione pedagogica” seguiva due binari, uno tradizionale con Primo Progamma , Rai1 come la chiamiamo oggi, e uno più innovativo con Secondo Programma, l’attuale Rai 2;  Rai 3 nascerà più tardi nel 1979.
Non c’e dubbio che la denominazione, caricata di valori ma anche di sospetti per la prudenza e i controlli in ogni direzione sui contenuti, fosse imprecisa, prima e dopo l’inizio degli anni Sessanta, con la direzione di Bernabei.
Quella tv “pedagogica” era identificata in un palinsesto di programmi selezionati, con gli sceneggiati della domenica, i film del lunedì, il venerdì della prosa, lo show del sabato sera.
In questo contesto, Massimo Fichera s’inserì portando caratteristiche  personali e culturali che sono state ricordate in occasione della sua morte.
Prima di ogni altro riferimento, è stato fatto quello di  Adriano Olivetti e della Fondazione che portava e porta il nome dello stesso industriale, un industriale dalle grandi aperture, insolite per l’epoca, alla cultura, all’arte e alla dignità del lavoro in fabbrica.
Olivetti era stato animatore e sostenitore di riviste come “Tempi Nuovi” o la “Rivista di filosofia” diretta da Norberto Bobbio; promosse la casa editrice Comunità con una collana sul lavoro e la sociologia, scegliendo tra l’altro la traduzione dal francese del libro Simone Weil, ebrea, cristiana, buddista, partigiana, intitolato “La condizione operaia” (1952); inoltre, fu pubblicato uno dei primi volumi dedicati alla comunicazione: “La società di massa” (1967) di Cesare Mannucci che aveva già scritto per Laterza “Lo spettatore senza libertà” (1961).

La Fondazione organizzava convegni su varie discipline della cultura, uno di questi fece molto rumore per l’interesse e la vivacità. Vi parteciparono Dario Fo e il più giovane Carmelo Bene, più numerosi sostenitori delle avanguardie del teatro e del cinema (da Luca Ronconi a Marco Bellocchio) tra loro c’ero anch’io.
Era il 1967. La contestazione giovanile e studentesca apriva la strada a quella degli operai nelle piazze.
L’imminente svolta del 1968 trovò un terreno genericamente favorevole in molti programmi televisivi, soprattutto il settimanale Tv7.
Era un favore che veniva da generazioni di autori e giornalisti televisivi più giovani rispetto al recente passato. Persone e personalità come Claudio Savonuzzi, Gianni Bisiach, Angelo Campanella, Emilio Ravel; collaboravano Ferdinando Cancedda, Paolo Meucci, Peppino Fiori, Raniero La Valle; venne inserito  Pier Paolo Pasolini, che portò in Rai la sua curiosità di scrittore e regista non conformista, capace di capire la realtà senza forzare le situazioni.
Nei sette anni prima della riforma, un periodo fondamentale, la Rai continuava ad essere uno strumento di tradizione che pure voleva “tradire” questa eredità, con trasfusioni ragionate e non asservite direttamente alle segreterie dei partiti, o ai partiti stessi.

Si formava così un humus di contenuti e talenti molto particolare, grazie a vivaci convergenze di estrazioni diverse e di intelligenze.
In questo humus, molto articolato, la strada era però indicata da una tolleranza che Bernabei, considerato anche scherzosamente l’ultimo “monarca” della Repubblica nei media, sapeva strappare ai politici e alla opinione pubblica, parlando poco, misurando atteggiamenti e interventi. Tutti finalizzati ad evitare strappi o contraccolpi nella missione che la Rai continuava a garantire, sia pure tra pesantezze censorie e perseguendo compromessi interni ed esterni.
La resa dei conti era rimandata al difficile confronto dei partii sulla riforma. Una riforma che, in primo luogo, doveva portare dalla Rai controllata dal governo a una Rai controllata dal parlamento.
Massimo Fichera “visse” in questo humus, sapeva che Bernabei non avrebbe mai più potuto essere il direttore generale della vecchia e gloriosa Rai, ai nostri giorni viene invocata come unico modello di valore. Esagerazione evidente.
I giudizi dei nostri giorni sono comprensibili come sorpresa, rivelazione e persino un senso di colpa per quel che non si è stati capaci di fare.
Sono spiegabili in parte come affronto polemico verso ciò che è avvenuto dopo: l’arrivo delle televisioni private e il successo commerciale, di immagine, della tv pilotata da Silvio Berlusconi e dai suoi collaboratori.
Qualcosa di inedito e di travolgente, un mare dei media diverso e agitato in cui ancora navighiamo.

Reazioni e certo non nostalgia, con l’assurdo desiderio di tornare al passato, rifare una Rai memorabile però superata dalla storia, dalle innovazioni, dalle tecnologie; innovazioni peraltro poco presenti nelle scelte e nell’immaginazione dei quadri della vecchia, cara Rai, signora d’altri tempi.
Fichera, per fare il direttore di Rai2, scese dal consiglio di amministrazione Rai dove si trovava, in compagnia di un presidente come il politico democristiano Umberto Delle Fave, 62 anni; Fichera ne aveva 46, e Bernabei 52, due uomini ancora giovani, considerando che in quei consigli l’anziana età era ritenuta consigliera di  fedeltà e saggezza, e non sempre non lo era.
La riforma prescriveva indipendenza, obiettività e apertura alle diverse tendenze politiche. A verificare, venne nominata una commissione parlamentare di vigilanza con tutte le forze politiche presenti in Parlamento.
Come direttore generale della Rai, fu chiamato Michele Principe, ex Comandante del Corpo Italiano di Liberazione, nel 1943, ex direttore generale del ministero delle Poste e Comunicazione, ministero di riferimento per la Rai.
Il nuovo direttore di Rai2, Fichera, cominciò a tessere una tela complessa.
Voleva “salvare” autori e programmi provenienti dalla Rai prima della riforma: coloro che avevano contribuito a creare l’humus del recente passato.
Voleva aggiungere le “sue novità” senza correre dietro alle influenze che il potere politico diffuso grazie alla responsabilizzazione del Parlamento avrebbe potuto esigere.
Era ed è un punto nevralgico: come lavorare in Rai, su designazione di un partito di appartenenza o di area, senza subirne le richieste che sconfinavano in vere e propri condizionamenti, sia per i contenuti che per l’ingresso di autori, giornalisti, programmisti, addetti alla produzione.
Condizionamenti che interessavano i settori tecnici e amministrativi, quelli più direttamente esercitati o esercitabili da partiti o organizzazioni ad esse collegate in vario modo.

Realtà sempre presenti nelle istituzioni pubbliche, in tutta la storia del Paese dall’Unità d’Italia in poi; nel fascismo, in particolare, ma anche negli anni della Repubblica. Condizionamenti più numerosi delle scelte pluralistiche.
Sono cose che si sanno, e si sanno meglio da quando queste realtà sono affiorate in  modo prepotente con la fine della prima Repubblica e l’inizio della seconda, così come viene chiamata. Per cui, punto e a capo.
Fichera “apparteneva” alla politica, com’era noto, il suo percorso era lineare ma complesso, per la ricerca di motivazioni nuove e di nuove idee.
Era un socialista dell’incontro e del dialogo, un uomo della Fondazione Olivetti, e quindi sensibile a Bobbio più che agli ideologi di partito; conosceva bene il Partito d’Azione, era vicino a una sinistra aperta più che a rigide formazioni partitiche.
Per lui, Gramsci era un grande intellettuale e non solo un esponente comunista.
Così come Bernabei era un cattolico più che un democristiano, un cattolico che si era formato ai tempi, e alle suggestioni e alle idee, di Giuseppe Dossetti e di Giorgio La Pira, il sindaco di Firenze aperto al mondo delle religioni e del lavoro.
Fichera portò in Rai la sua elasticità mentale e culturale, trovando disponibili nel nuovo servizio pubblico esperienze esistenti, quelle segnalate dai nomi di autori e programmisti aperti alla riforma e soprattutto ai suoi effetti concreti, verificabili, non simbolici.

Aveva un compito grande, e inedito.
Lo affrontò con misura e abilità. Non fu facile.
I partiti avevano, tutti, indicato i loro referenti. I filtri non erano così strettamente orientati come avverrà dopo, come sarà palese e purtroppo sopportato.
Accadevano cose strane nelle reti e ovunque.
I referenti cercavano di “arruolare” quanti potevano per i loro interessi. Ricercati cattolici, socialisti, socialdemocratici, comunisti, liberali, repubblicani, in nome del pluralismo e della rappresentatività.
Uno spettacolo, talvolta divertente, persino grottesco. Alcuni vennero pregati di mettersi la “maschera” democristiana, altri quella di una sinistra generica o meglio definita, mirata; altri ancora quella di una destra il più possibile democratica.
Ma, almeno nella prima fase della riforma, lo spettacolo non fu devastante e fu governato.

La politica fece bene alla Rai: la obbligò a guardare fuori e a analizzarsi dentro. Ce n’era bisogno, specie per le vicende che spiazzavano i partiti, sempre più confusi sul da farsi, di fronte alla contestazione degli studenti, all’autunno caldo del ’69, alle stragi di Piazza Fontana a Milano e a Piazza della Loggia a Brescia, ai gruppi, al terrorismo.
In Rai, anche in questo caso, intorno al 1975, lo spettacolo fu paradossale. Nella gran parte dei referenti e dei rappresentati dei partiti, senza o con “maschera”, era fortissima la voglia di considerarsi “sessantottini”, à la page, cioè alla moda, nel palazzo di viale Mazzini fasciato di amianto e di polverose idee, saldi rancori e invidie.
La riforma, il suo pretesto, inventava e sfornava i dreamers  di ogni età, ovvero i sognatori baciati dal ’68- sveglia vecchi e nuovi ragazzi- immortalati dai film di Bernardo Bertolucci, appunto “Dreamers”(2003), sognatori per sempre, forever; e da “Après mai” di Olivier Assayas, i cui i sognatori però non sono sognatori perché scoprono che, dopo il Maggio parigino, il sogno è sempre più precario.
Fichera era assediato da burocrati- dreamers; e da dreamers,in maggioranza. Solo sognatori, ma solo nei dibattiti e nelle speranze di carriera.

Un accerchiamento che si arricchiva di personaggi con tessera e altri senza tessera ma con solide protezioni, e altri ancora in cerca di solidarietà in nome della saga dei vittimismi , un vittimismo che metterà le radici e farà fiorire robusti alberi tra conduttori, dirigenti e persino soubrette.
Il neo- direttore procedette in fretta per gradi. Cercò di sistemare il più possibile il passato prossimo o addirittura remoto, aprendo i palinsesti a programmi giacenti  senza speranza nei magazzini.
Tra di essi, ce n’erano alcuni, di autori come Marco Ferreri (“Perché pagare per essere felici”) o Jean Luc Godard (“Lotte in Italia”), e altri che i dirigenti prima della riforma avevano castigati.
Facevano parte dei film e documentari che avevo realizzato come responsabile dei “programmi sperimentali”.
Bernabei era riuscito a mandarne in onda una prima parte, rimuovendo gli ostacoli posti da quei dirigenti che odiavano gli “sperimentatori” al debutto (tra  cui Gianni Amelio, Peter Del Monte, Giuseppe Bertolucci) perché offrivano temi forti, a basso costo, e avevano  grande successo ai festival. Mentre i film, gli sceneggiati o show dei vecchi dirigenti costavano venti volte di più e non avevano ottenuto gli sperati riscontri.

La rimozione lasciata dal passato venne a sua volta rimossa. Fu uno dei segnali che la riforma avrebbe potuto avere un futuro, se avesse trovato persone illuminate, giuste.
I risarcimenti continuarono.
“Dove va l’America?” di Furio Colombo e Franco Lazzaretti se ne giovò. Preparato a cavallo fra il prima e il dopo la riforma, venne trasmesso proprio nel 1975.
Era un’inchiesta a più puntate, che arrivo quando sarebbe stato il momento per capire bene quel che stava accadendo nel mondo. Colombo e il grande operatore Lazzaretti, che venivano dal cinema, spiegarono molto bene come in America era nata fin dai primi anni la contestazione, alla Università di Berckley o alla New York University, e in coincidenza con la guerra dei marines in Vietnam.
Un ritratto affascinante e sincero che molti, moltissimi dreamers italiani usarono, ispirandosi, per piccole canzoni o piccoli film retorici, applicandolo in modo banale e automatico al nostro Paese. Fiorirono i “figli dei fiori”, le caricature di Ernesto Che Guevara, delle pantere nere, dei concerti rock.
Intanto, erano già lontano il cinema on the road, ispirato da Jack Keroauc: “Easy rider” (1966) di Dennis Hopper con Peter Fonda.
Noi avevamo “I pugni in tasca” (1965) di Marco Bellocchio e “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1970) di Elio Petri.
Il primo è un film sulla rabbia di giovani che rifiutavano tempo, sentimenti, amore e famiglia; il secondo, premio Oscar, è un potente grottesco sul poliziotto-omicida sicuro non essere scoperto, fanatico della repressione.
Renato Curcio, Mara Cagol e le Brigate Rosse davano le prime lezioni del terrore, culminate de 1978 con il sequestro Moro e il suo assassinio. I terroristi neri dalle molte sigle mettevano le bombe.

Rai2 raccontava per documentare e capire, far capire.
Ma il vuoto lasciato dalla “tv pedagogica” era profondo, il Paese era in gran parte sconosciuto e la tv non riusciva a svelarlo.
I dreamers non erano solo i ragazzi del ’68 che ormai era un affresco già ingiallito.
I veri dreamers, sognatori con i piedi per terra, erano coloro che, nei partiti e nelle leve di cui si servivano, avevano in testa la tv come parte del loro corpo, come organi di se stessi, a portata di mano, di voto o meglio di alleanze.
C’era molto lavoro da fare, perché la riforma potesse funzionare.
Il progetto di Fichera e della riforma nel suo insieme - indipendenza, libertà agli autori, scelte di pluralismo e di conoscenza-aveva fin da subito contagiato anche Rai1, l’ammiraglia del servizio pubblico. In modo diverso.
Rai1 cercava con il suo neo-direttore Mimmo Scarano (affiancato dal vice Angelo Giuglielmi che andrà nel 1987 a  dirigere Rai3) di tenere a bada la concorrenza per non perdere il primato, anche se la competizione sugli “ascolti” era orientata da rilevamenti interni e non dall’Auditel, una società tra le emittenti e pubblicitar che arriverà nel 1984.

Il progetto di Fichera era orientato da un rapporto più stretto con il Tg2. Dopo la una breve, prima nomina di Alberto Sensini, giornalista del “Corriere della sera”, la nuova direzione fu affidata ad Andrea Barbato che, tornato da “La Stampa alla Rai, promosse programmi com “Odeon”, “Ring”, “Bella Italia”, “Di tasca nostra” e “Dossier”; soprattutto questi ultimi due, sulla economia di tutti i giorni, e sulla attualità politica, sulla cronaca, su fatti e personaggi entravano in sintonia con le idee di Fichera.
Fu l’alleanza tra Rai2 e Tg2 che persuase Rai1, ad accentuare l’attenzione sui fatti e sui retroscena, fino ad arrivare al “Processo di Catanzaro”, dedicato a ministri dc, del 1979. Dopo questa trasmissione Scarano “dovette” lasciare Rai1, e passò  per pochi mesi alla Rizzoli, divisione tv.
Fichera e Barbato s’intendevano. C’era intesa anche tra Scarano e il direttore del Tg1, Emilio Rossi, giornalista coraggioso, che fu gambizzato dai terroristi nel  nel 1977.
In cinque anni, fino al 1980, la Rai visse una stagione intensa, drammatica, colma di colpi di scena.
Fichera ospitava nei suoi palinsesti ripetute inchieste del gruppo “Cronaca”, nelle fabbriche, tra operai e sindacalisti.
Erano programmi d’intervento, che creavano spazi a problematiche fin dai tempi del miracolo economico (1958-1968) tenute lontane dal video.
Rai 2 ospitava documentari storici e programmi che ebbero risonanza sul piano del costume, oltre che della cronaca giudiziaria.
Uno di questi fu “Processo per stupro” a cura di un gruppo di autrici: Anna Carini, Paola De Martiis, Rony Daopoulo, Annabella Miscuglio, Loredana Rotondo, Loredana Dordi. Uno “spettacolo” di realtà sconvolgente su un dibattimento per stupro tenutosi a Latina nel 1978.

Non si poteva dimenticare che tre anni, nel 1975, era accaduto il massacro del Circeo ad opera di tre giovani condannati per avere stuprato e percosso due ragazze, una delle quali morì subito. Uno scandalo senza fine che poneva, anzi imponeva il tema della violenza sulle donne, fino ad allora, nascosto, dimenticato, quasi invisibile.
Rai2 e Tg2 collaboravano per creare un equilibro tra queste realtà in un palinsesto contrappuntato da appuntamenti diversi, in cui intrattenimento e cultura fossero una rete coerente, capace di stare sui fatti e sulle idee, con aperture creative.
C’era un gran dibattito, non sempre decantato e concreto, su come produrre.
I Nip, Nuclei Ideativi Produttivi, venivano raccomandati da coloro che volevano portare in tv schemi che avevano avuto nel teatro, nel cinema e persino della tv dei videotape una breve, effimera stagione: autori e tecnici, tutti insieme, dal progetto al lavoro compiuto, mescolando le competenze, i meriti, i compensi, gli obiettivi personali e quelli del prodotto da mandare in onda.

Erano utopie che risalivano  non solo a esperienze superate nei tempi, ma  che tornavano ostacolando, attardando il lavoro, animando contrasti e conflitti.
Non da molto si era dichiarato sconfitto il prestigioso regista francese Jean Luc Godard, convinto di poter adunare tutte le mattine (a Roma girò il film “Vento dell’Est”) la troupe prima delle riprese, una sconfitta che solo dreamers troppo inesperti o troppo fiduciosi potevano continuare a cercare.
Fichera ascoltava tutti, con calma, e prendeva le sue decisioni. Aveva che lui una sua utopia: portare a compimento una trasformazione della Rai su basi moderne, all’altezza del momento nel Paese e nel mondo, attento a non farsi attrarre da i sogni che potevano diventare, improvvisamente, incubi.
Non era solo. La politica, passando i mesi, aumentava le sue esigenze. Chiedeva alla Rai di non essere soltanto una industria culturale capace di accompagnare, anzi di formare e trasformare in senso civile, consapevole, adeguato, l’Italia. Le chiedeva dell’altro: di essere un contenitore per i propri messaggi, senza troppi mediatori, senza dirigenti intellettuali anime belle, senza ostacoli.

La politica, per avere più forza e determinazione, aveva i suoi disegni.
Le tre reti principiali- Rai1, Rai2, Rai3 in arrivo, dopo una sofferta anticamera- dovevano essere destinate a modellarsi, a farsi plasmare dai tre partiti principali: la Dc, disperatamente tesa a mantenere un impossibile potere  senza fine; il Psi, ammesso non per consensi elettorali ma come alleato essenziale alla Dc; e il Pci, escluso, doveva essere introdotto per i suoi successi e il consenso raccolto sulla lunga scia degli anni Sessanta- Settanta, per contribuire a rendere più solida e condivisa la democrazia.
Quando, sulla base delle vicende a cui abbiamo accennato, maturò la necessità di accordi nuovi la situazione cambio, la riforma mutò volto.
Nel suo libro “Storia della televisione”, pubblicato nel 1992 da Aldo Grasso, l’autore, critico del “Corriere della sera” da ormai oltre vent’anni (cominciò nel 1990), parla di riforma mefitica.
Non mancarono i cattivi odori: lottizzazione accurata, scientifica, chirurgica nelle nomine, dalle più alte, giù giù fino all’ultima sedia di un incolpevole montatore, tecnico, usciere. Non solo.

Non mancarono i cattivi odori, nelle zone più o meglio profumate, o almeno così le si pensava, quelle delle strategie ideative, nella  scelta degli autori e  realizzatori,
Eppure, proprio in quegli anni, dal 1969 fino agli anni Ottanta, la Rai fece molto, e Fichera guidò la sua rete con raziocinio e intelligenza.
Una lunga serie di nomi e di titoli fa una storia non per sognatori.
Strehler, Francesco Rosi, Ugo Gregoretti, Luca Ronconi, Carmelo Bene, i giovani autori, Renzo Arbore, Enzo Tortora, Benigni. La televisione che proponeva e che faceva satira a se stessa. La televisione che mandava inviati in tutto il mondo per riprendere personaggi e occasioni da ricordare. La televisione che tornava a Salgari o a Carolina Invernizio, che metteva in filmati i fumetti e nuovi cartoons. La televisione che viaggiava per scoprire paesaggi e costumi.
Fichera aveva desideri che tirava fuori dal cassetto. Appartenevano al personale disegno, lui catanese trasferito a Torino e poi stabilitosi a Roma, di tornare su storie nascoste o dimenticate dell’Unità d’Italia.
Mi parlò dell’intenzione di sceneggiare, e mi diede da leggere un pacco di pagine che non erano ancora un libro. Si trattava del romanzo incompiuto di Edmondo De Amici, “Primo maggio”, del 1891, scritto trent’anni dopo per l’anniversario della data dell’Unità, marzo del 1861.

Mi sembrò una bella idea, romantica. Ma non se ne fece niente.
Fichera era costretto a lasciare la “sua” Rai2.
Altri assetti e percorsi politici stavano per scombussolare la Rai e trasformarla, senza darle nuovi obiettivi pluralistici (le private) o tecnologici (le più moderne risorse e possibilità di trasmissione, il cavo, le nuove antenne, le nuove macchine).
I sogni finivano nei cassetti della politica, da cui uscivano i piani, concrete alleanze di potere che reclamavano posti e teste.
Cominciavano  così gli ultimi, interminabili, occulti, trent’anni su cui sono ancora molte le domande e poche le risposte.
Nessun nuovo Primo Maggio;  tanti autunni, inverni, primavere, estati di nebbie più cupe di quelle dei primissimi televisori che gli italiani cominciarono a vedere dietro le vetrine dei negozi di elettrodomestici.
I dreamers non commuovono nemmeno più al cinema. Fantasmi.

                                
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