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Italo Moscati

Un paradosso: comincia prima la persecuzione o l’ispirazione?

Data di pubblicazione su web 01/09/2011
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È in preparazione il libro+dvd dedicato al grande regista americano Sidney Lumet, di recente scomparso, ai suoi film e in particolare a Daniel (1983). In questa opera l’autore racconta del pacifista Daniel (Hutton) che negli anni Sessanta cerca la verità sui genitori comunisti condannati a morte durante il maccartismo. Una storia tratta dal libro di Edgar L. Doctorow ispirato al caso Rosenberg. Il libro+dvd, pubblicato dall’editore Kochmedia-Filmaker’s, comprende un breve saggio di Italo Moscati dedicato alle persecuzioni subite da artisti e da registi dissenzienti in Unione Sovietica, che qui anticipiamo.

Il tema della persecuzione (non solo politica) è affascinante e la storia della Russia lo ha mescolato alla vita di grandi artisti: scrittori, pittori, danzatori, registi. Farlo è quasi impossibile. Molti sono i nomi da citare, ognuno legato a una sorte spesso senza scampo. Voglio ricordarne solo qualcuno, per illudermi di restringere quel che sarebbe, se adeguatamente sviluppato, un romanzo in pagina, pentagramma e pellicola assolutamente sconvolgente.

Ho passato la mia infanzia e adolescenza con la mente in fondo alle parole e ai pensieri di Fedor Michajlovic Dostoevskij, di idee socialiste, condannato nel 1849 a morte, la grazia arrivò solo davanti al patibolo e la pena commutata in quattro anni di lavori forzati. La potenza di travolgente calore germogliò in lui tra le nevi della Siberia.

Poi passai a Vladimir Majakovskij, il poeta futurista di sinistra (la destra era Filippo T. Marinetti, l’autore del Manifesto), ai suoi canti per la rivoluzione del 1917, alle sue proteste contro il potere generato dalla rivoluzione (da Lenin a Stalin) schiuse nei testi teatrali Il bagno e La cimice. Infine alle sue poesie per Lili Brik condivisa con l’amico-marito. La persecuzione della delusione politica esplose nel suicidio quando s’incontrò con la delusione amorosa, una forma di velenosa persecuzione istillata nel cuore, un pacco di amarezze senza uscita. Quindi, i miei interessi compresero la musica, la danza, il cinema.

Un grande danzatore: Rudolf Nureyev lasciò l’URSS nel 1961 quando decise di non tornare più da Parigi dove si trovava. «L’amore – scrive Anton Cechov – mostra all’uomo come dovrebbe essere». E fu l’amore che spinse il danzatore a fuggire dalla persecuzione. Seguì il suo giovane amante tedesco, Kremke. Si era in piena Guerra Fredda. Venne alzato proprio nel 1961 dai comunisti sovietici e tedeschi il Muro di Berlino fra la zona est e la zona ovest. Nureyev lo scavalcò di un balzo con il suo compagno.

E il cinema? Ho scelto tra i molti nomi di registi o sceneggiatori, anche poco conosciuti o invisibili al loro tempo o dimenticati, due perseguitati molto diversi fra loro. Le loro storie ci avvicinano ai nostri tempi con le loro “avventure” tragiche. Avventure o meglio disavventure che ricordano come le radici delle persecuzioni siano state e possono essere ancora profonde, tentano con costanza di soffocare e distruggere le radici delle eresie o semplicemente delle libertà che detestano. Persecuzioni ed eresie aiutano a capire il trascorrere dei giorni. Ma soprattutto a capire, a sentire, nel concreto un rovente marchio del dolore.

Sergej Iosifovic Paradzanov, nacque a Tbilisi in Georgia nel 1924. Dieci anni dopo un suo quasi concittadino, nato a Gori nelle vicinanze di Tblisi, aveva deciso che la immensa Unione Sovietica dovesse essere sottoposta a “purghe” ideologico-politiche molto drastiche. Era Josif Visarionovic Stalin.

Anche il cinema e i cineasti, dopo le gloriose leggende di Sergej Michailovic Ejzenstejn (Sciopero, La corazzata Potemkin, Ottobre), nuotarono fra “purghe” e pellicole cercando di non andare a fondo.

Nuotò, dopo la scuola di cinema, anche Paradzanov che nel 1964 realizzò Le ombre degli avi dimenticati. Raccontava una piccola comunità dei Carpazi, terra del passato, di ombre e di fantasmi. Nessun sol dell’avvenire. La critica ufficiale, anzi ufficialissima, lo fece a pezzi. In “purga” per cinque anni.

Dal 1964 al 1969, il “disgelo” sognato da Ilja Grigorevic Erenburg, autore di un romanzo speranzoso intitolato proprio Il disgelo, viene travolto: Nikita Sergej Kruscev, subentrato a Stalin, l’uomo della scarpa battuta sul tavolino all’assemblea dell’Onu, l’uomo che denunciò i crimini di Stalin, l’“uomo della coesistenza pacifica”, cedette nel ‘64 il posto a Leonid Breznev, il restauratore. Compariva uno zar del comunismo.

Paradzanov sugli sgoccioli del “disgelo” nel ’69 riesce a portare a termine Il colore del melograno, storia di un poeta-trovatore armeno, forse il suo capolavoro. Non piace agli scongelatori del neo zar: troppo trovatore di libertà dell’artista, troppo armeno (già territorio annesso all’URSS). L’accusa formale, e sostanziale, è in nome del regime dell’arte obbligata: «estrema deviazione dal realismo russo». Condanna a due anni di inattività, una condanna senza catene o carcere, a piede libero.

Passarono due anni e il regista trovò in Ucraina, altro stato “colonizzato”, un aiuto finanziario da esponenti locali per riprendere il lavoro. Il film s’intitolava Affreschi di Kiev, una rievocazione molto fantastica, surrealista, della nascita della capitale ucraina, Kiev. Dà fastidio ai padroni di Mosca la critica alla distruzione degli affreschi della capitale che non è più capitale ma prefettura del potere centrale istallato nel Cremlino. Progetto dichiarato antisovietico.

È la fine. Macchina al chiodo. Pellicola srotolata a perdere. Rabbia. Silenzio. Mani da mordere. Nel ’74 cella. Varie accuse. Lesa patria sovietica. Leso realismo socialista. Leso ateismo di stato. Lesi sindacati cineasti schierati con i burocrati nel neozar. Furto di oggetti d’arte. Ma, ecco il clou, l’accusa che fa traboccare i trabocchetti legali e allaga la terra sotto i piedi del regista: omosessualità. Cinque anni da trascorrere in un campo di riabilitazione. Riabilitation not devolution. Non c’era e non ci sarà mai in URSS l’Arcigay. Solo nel 1977 il frocio armeno-ucraino venne liberato, dopo una mobilitazione internazionale guidata dal surrealista francese Louis Aragon. E fu così che per una volta, il surrealismo riuscì a battere il realismo senza socialismo e senza testa.

Paradzanov non riuscì più a girare i suoi affreschi a Kiev. Il progetto fu divorato dalle cimici della Mosfilm. Il regista ottenne di tornare sul set per La leggenda della fortezza di Suram (1984) e per Asi Kerib (1988, a due anni dalla morte). Un film fiabesco, scrissero i critici che cominciarono a scoprirlo anche all’estero, con protagonista un menestrello.

La caduta del Muro di Berlino (1989) era vicina. L’uomo delle fiabe non fece in tempo a vederla. Gli sarebbe piaciuta. Neanche Andrej Arsenevic Tarkovskij è riuscito a vedere a caduta del Muro. E’ morto tre anni prima, nel 1986 a Parigi.

Parigi, la città dove per anni hanno trovato rifugio i russi di ogni provenienza sia di ceto sociale (i nobili fuggiti con il comunismo) sia di attività artistiche e culturali (come non ricordare il violoncellista Mstislav Rostropovic). Ricordo anche un grande film con Greta Garbo Ninotschka in cui la diva era un’inviata del governo sovietico sotto la Torre Eiffel per fare un controllo su personaggi poco affidabili, comunisti incaricati di vendere gioielli spediti anche loro dal governo. Ninotschka si innamora di un bellimbusto francese…

Parigi, dove Tarkovskij si recò dopo avere girato il mondo: da New York a Roma, per lavoro prima e poi per una definitiva scelta di residenza e di vita.

In che cosa consisteva la persecuzione che toccò al regista che si rivelò nel 1962 a Venezia vincendo un Leone d’oro con L’infanzia di Ivan, atroce narrazione di un bimbo rimasto orfano e costretto a maturare in fretta sullo sfondo della seconda guerra mondiale. Il film aveva trovato un equilibrio, scrissero i critici, fra la esaltazione dei valori sovietici e un insolito lirismo visivo.

Era in corso anche una veloce maturazione nel regista. Lo dimostrò nel 1966 con Andrei Rubliov, otto momenti della vita del monaco e pittore di icone Andrei Rubliov vissuto tra il 1370 e il 1430: un viaggio a Mosca; una prima discussione col pittore greco Teofane sul rapporto tra uomo e Dio; una seconda su come dipingere la Passione; una festa pagana tra i boschi; il lavoro di Rubliov e un affresco sul Giudizio Universale; l’invasione dei tartari e la difesa da parte di un monaco di una sordomuta; il ritiro in convento; la fusione di una campana per fare capire a Rubliov l’importanza dell’arte per il popolo. La fusione della campana. Un riferimento a uno strumento di richiamo e di fusione, a una voce ritenuta valida e sicura nel tempo in cui si è fatta sentire, una sveglia rispetto all’oppio di quelle religioni laiche che sono state e sono le ideologie del Novecento.

Perché ho tenuto ad elencare gli otto momenti? Perché ancora una volta, come per Paradzanov, il tema della libertà dell’arte e dell’artista è fortemente ripreso; e perché ad esso s’intrecciano i temi della spiritualità (certamente sgradita al regime nonostante i compromessi cercati dallo stesso regime con il clero) e quello del popolo e del tradimento delle sue tradizioni, oltre che della sua sensibilità dovuta in gran parte alla fede dei padri e dei simboli.

Ecco qualcosa di inaccettabile per i capi del cinema sovietico, e per i loro capi politici. Le fessure di un comunismo fischiavano, a causa di venti diversi: l’URSS si avvicinava ad una stagnazione economica, al disastro ambientale (le centrali nucleari poco sicure: Chernobyl seminerà la morte nel 1986), alla disgregazione burocratica e ad una controproducente politica estera (l’occupazione dell’Afghanistan nel ’79), alla stasi culturale, alla perdita dei consensi nell’Est europeo (dopo la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia). Tarkovskij sentiva bene, come altri intellettuali (Josif Brodski), questi venti e cercavano di segnalarli al loro pubblico e al mondo. La censura intervenne e diede il permesso di proiezione del film in URSS soltanto nel 1972.

La rottura del regista con le autorità si delineava sempre più netta e l’aria alla Mosfilm diventava sempre più irrespirabile. Per fortuna, la persecuzione praticata con il boicottaggio e la freddezza verso il suo lavoro ebbe l’effetto di rinforzare in una vittima che non era una vittima ma stava trasformandosi in un campione della protesta, una protesta civile, senza strepiti, senza slogan; una protesta che si fece rapidamente possente e conquistò consensi in molti strati della popolazione russa stanca di subire.

Tra i film di questo profondo, straordinario autore (che realizzò in Italia nel 1983 Nostalghia) vorrei scegliere un’opera del 1979: Stalker, una sorta di proposta fantascientifica con i piedi per terra, un’allegoria sulla tensione dell’uomo moderno verso qualcosa – non solo la spiritualità o la fede – che possa alleviare le sue sofferenze e la condizione di pedina di poteri che pretendono di cancellarlo come persona. Vissuta attraverso il viaggio compiuto da uno scienziato e da uno scrittore, accompagnati da una guida, attraverso un misterioso luogo e fino a una stanza dove si esaudiscono i desideri.

Il film conferma, e amplifica, l’intenzione dell’autore di fare un film, come lui stesso afferma, capace di «scolpire il tempo», allontanandosi da una dimensione narrativa contingente e puntando sui valori eterni della vita, del tempo e della conoscenza.

 

Un progetto ambizioso, insolito, provocatore. Quanto basta per scatenare di continuo la persecuzione dei boss del potere sovietico, i quali arrivarono al punto da rifiutargli la libertà di movimento, ostacolando anche il rimpatrio in URRS e raggiungere il figlio, la moglie.

Tarkovskij si ammalò di tumore. Lottava contro i boss del potere e le loro cimici, sia per continuare a lavorare all’estero (nella sua terra, nacque in un paesino sul Volga, non lo volevano più), sia per mostrare i suoi film e presentarli (era un parlatore incantevole).

La persecuzione è una tortura a fuoco lento. Magari, per paradosso, risveglia voglia di reagire e di lottare, e se si è nelle condizioni fa scendere meglio l’inchiostro nella penna e la pellicola nella macchina da presa. Ma l’ispirazione viene da un altrove, dalle convinzioni che i pensieri e le emozioni distillano. Il boia o l’aguzzino non aiutano.

Aveva solo 54 anni quando calò la ghigliottina.



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