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Italo Moscati

Pasolini Teatro, nell'epoca dei manifesti e del brodo primordiale

Data di pubblicazione su web 11/11/2010
Pasolini Teatro, nell'epoca dei manifesti e del brodo primordiale

Il 5 e 6 novembre 2010 si è svolto a Casarsa della Delizia nel Friuli, per iniziativa del Centro Studi Pier Paolo Pasolini, un incontro dal titolo Pasolini teatro. Sono stati proiettati filmati dedicati a Calderon, un testo del poeta del 1967; e sul teatro pasoliniano sono intervenuti in vario modo registi e studiosi tra cui Luca Ronconi, Federico Tiezzi, Giorgio Pressburger, Antonio Sixty, Andrea Adriatico, Roberta Nicolai, Paolo Puppa, Angela Felice, Italo Moscati, Nico Naldini, Renato Palazzi, Oliviero Ponte di Pino, Stefano Casi, Loris Lepri, Luigi Virgolin. E’ in corso di pubblicazione, presso l’editore Marsilio con saggi e altri contributi, un volume dedicato al lavoro di Pasolini in teatro che porterà lo stesso titolo dell’incontro. Anticipiamo il saggio di Moscati. 

 

Pasolini stava per andare in scena. Era un giorno di marzo del 1968. Il testo scelto era Orgia, l’ottavo lavoro teatrale di un artista veloce, attivo, incontenibile, gran pasticheur come lui stesso si definiva, in bilico fra tradizione e appassionate idee di futuro, non più di progresso, vecchie bandiere rosse dispiegate a prendere colpi di vento. Idee di futuro in un’epoca fitta e ambigua in cui il futuro si chiamava avanguardia.

Era tutto pronto nella sala decentrata a Torino dove sulle pareti riverniciate di fresco erano state incollate alcune frasi tratte dal Manifesto per un nuovo teatro pubblicato su “Nuovi Argomenti” nel numero di gennaio-marzo nell’anno della contestazione, in cui Pasolini per due volte avrà provato amarezze alle quali non era preparato. Tremori ad occhio asciutto.

Frasi come queste: “I destinatari del nuovo teatro non saranno i borghesi che formano generalmente il pubblico teatrale ma saranno invece i gruppi avanzati della borghesia”; “Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai alle principali ‘prime’ di Strehler, di Visconti, di Zeffirelli, è vivamente sconsigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro”; “Il nuovo teatro si definisce di ‘Parola’ per opporsi al teatro della Chiacchiera…”; “Il teatro della Chiacchiera e il teatro del Gesto e dell’Urlo sono due prodotti due stessa civiltà borghese…”; “Il teatro di Parola è il solo che possa raggiungere, non per partito preso o retorica, ma realisticamente, la classe operaia”.

C’era attesa per lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Torino, in una zona decentrata della città. Il Manifesto pasoliniano aveva suscitato interesse e curiosità. “Un uomo appeso alla corda, con l’osso spezzato, e già freddo” dice: “… sono stato con tutti gli altri, dalla parte del potere… ho accettato senza alcuna riserva che ci fosse il potere e mi sono adattato”.

Così l’autore introduce il protagonista che si confida in un flashback con una ragazza. Un uomo dalla parte del potere che ha vissuto un conformismo necessario e si è impiccato. Pentimento, suicidio, nell’epoca degli slogan della rivoluzione. Il sogno di una cosa, anzi di tante cose.

Ero presente alla serata di uno scandalo che non ci fu. Tornerò sull’argomento. Il pubblico di abbonati del Teatro Stabile, mescolato a un pubblico decentrato in quella periferia, era stato scelto dallo stesso Teatro che bruciava dal desiderio di mostrarsi anfitrione per un autore chiacchierato, scandaloso (l’omosessuale comunista espulso dai comunisti dal partito e dall’Unità), in polemica con il suo Manifesto con gli altri Manifesti teatrali.

Carte volenterose che a volte si stampavano col ciclostile, come per un lavoro di militanza, tra i gruppi delle avanguardie di un ampio ventaglio sventolante (dalla sperimentazione di forme alle proposte di impegno politico, sociale); o venivano stampate sulle colonne di riviste specializzate, rimanendo spesso in ombra, mentre non era rimasto in ombra, anzi, perché aveva fatto molto rumore, il Manifesto pubblicato nel novembre del 1966, due anni prima del leggendario ’68, da “Sipario”, la più prestigiosa nell’ambiente teatrale.

Da quel Manifesto, intitolato Per un nuovo teatro, che fu presentato a Ivrea in un indimenticabile convegno, venne alla luce una bollente, appassionante, magmatica, situazione in cui si affollarono tutte le pulsioni, i desideri, le velleità, le speranze, le voglie di rissa, le proteste, gli attacchi al potere o meglio a tutti i poteri, istituzionali, compresi i Teatri Stabili accusati di essere la faccia addomesticata del teatro colto o d’arte, come piaceva venisse definito dai suoi responsabili, un nome per tutti: il grande regista Giorgio Strehler che anche lui si predisponeva a scrivere un suo Manifesto.

Fu una situazione davvero indimenticabile. Non soltanto per me che ero molto giovane ed ebbi il timore di perderlo poiché avevo bucato una gomma dell’auto su cui viaggiavo. Ebbi invece fortuna. Arrivando in ritardo, esauriti i saluti e le premesse, il confronto si scatenò. Tutti contro tutti, convinti che solo così le neo avanguardie, eredi di quelle cosiddette storiche (il futurismo di sinistra di Majakovskij, il dadaismo, l’espressionismo, il surrealismo), potevano stare insieme. Per il momento. Non per sempre.

Se il Manifesto di Pasolini proponeva gli spunti cui ho dato una esemplificazione, quello di “Sipario” era diverso, ne proponeva altri. Lo firmarono figure non solo di teatro, qualche nome: Corrado Augias, allora critico teatrale, come Franco Quadri, direttore di “Sipario”; Carmelo Bene, che si definiva anarchico, ed era il più geniale e amato di tutti; Cathy Barberian e Sylvano Bussotti, musicisti; Leo De Berardinis, regista e attore; lo scenografo Emanuele Luzzati; i registi Aldo Trionfo e Luca Ronconi; Marco Bellocchio e Liliana Cavani, registi di cinema. E altri.

Il Manifesto esordisce così: “La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica…”; l’attuale situazione nasconde molte cose: “… l’invecchiamento e il mancato delle strutture; la crescente ingerenza della burocrazia politica e amministrativa nei teatri pubblici (ndr, gli Stabili); il monopolio dei gruppi di potere…”. 

Seguivano, all’incipit, osservazioni sulla critica, sulle opere di autori nazionali, sulle tecniche arretrate di spettacolo.

Il cuore del Manifesto va però cercato in queste parole conclusive : “Il teatro deve poter arrivare alla contestazione assoluta e totale…”.

Il fitto documento presentato a Ivrea rispecchiava, senza saperlo, il brodo primordiale non tanto di un nuovo teatro, non a portata di mano, ma di esigenze diverse che partivano dai sempre più numerosi gruppi quasi tutti spontanei che stavano comparendo specialmente a Roma e dovunque (le cantine e i garage di Trastevere e dintorni, gli spazi improvvisati o recuperati che venivano adattati per la scena a Milano, Torino, Bologna, Napoli).

Un brodo poiché, nonostante i tentativi fatti per catalogare sul nascere gruppi, personalità, tendenze, soprattutto da un critico da ricordare - Giuseppe Bartolucci - il teatro lanciava di continuo in modo imprevisto getti attraenti e vivaci. Primordiale perché in esso, confusamente, sorprendentemente, accadeva che s’intrecciassero segni del passato (non solo le avanguardie storiche o  Bertold Brecht o Beckett) ma anche di un presente incalzante, quello del leggendario Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina.

L’America, New York, ragazzi belli e capaci di danzare, muoversi, fra luci magiche e musiche rock inebrianti come profumi orientali, guidati da Julian, magro, ispirato, carismatico e la sua compagna Judith, un piccolo grande corpo, un grande talento. Il Living portava con se una promessa: Paradise Now, paradiso ora, che arrivò nel bollore nel brodo primordiale che premeva i coperchi delle pentole conformiste. Nel fatidico e vilipeso, oggi, 1968.

Anche Pasolini fu conquistato dal Living e da Julian, volle il profeta del paradiso in arrivo solo sulla terra nel suo film Edipo re, un anno prima, e gli affidò il ruolo del cieco veggente Tiresia.

Lo snodo dei due Manifesti, quello di “Sipario” e poi quello di Pasolini, forse sta proprio nel personaggio Tiresia. Tutti, nel teatro come altrove, cercavano occhi per vedere cosa si stava preparando, cosa sarebbe accaduto. Usavano parole, formule, percorsi diversi, persino divergenti.

Lo si sapeva benissimo allora, e ai nostri giorni si tende a dimenticare. Pasolini non era amato dalla avanguardia o neoavanguardia del Gruppo 63 e anzi era sotto accusa per il suo realismo, la sua tormentata fede ideologica al marxismo (pur avendo ben chiari i suoi limiti) e la fantasia di belle bandiere che potessero svelare i diversi,  non i funzionari di partito.

Questo non amore, anzi la separazione netta fra Pasolini e le avanguardie, si attenuò col tempo, solo dopo la morte tragica del 2 novembre 1975; ma negli anni dei Manifesti affiorò di continuo in polemiche, attacchi, spesso a mezza bocca, fra i tavolini delle trattorie romane.

Era un odio mascherato verso un artista che in una sua poesia scriveva, parole che rimbombano ancora: “Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore”.

La tradizione, bestia della contemporaneità d’allora, negata, spesso ignorata, mai capita se non dai registi della avanguardia che si rifacevano alla tradizione delle rivolte e delle proposte del Novecento.

Nel brodo primordiale non si perdeva un altro grande artista, Carmelo Bene, che aveva una sua estetica e soprattutto una sua forza espressiva in cui la tradizione creativa - da Shakspeare al melodramma, dai riti religiosi o superstiti del Sud alle mitologie delle apparenze e delle inquietudini della sua, nostra, contemporaneità  di allora - era una grande miniera per i suoi spettacoli e il suo pensiero filosofico, originale mai cupo, ironico, persino sarcastico quando invocava il suo bisogno di essere considerato morto in un mondo del potere che non lo capiva e che lui stesso rifiutava per principio. Come Pasolini.

La sera di Orgia, rappresentata nella periferia torinese, odor di operai alla catena di montaggio, ex contadini, gente venuta dal profondo Sud, non fu un successo ma neanche un vero insuccesso. Non fu nulla. Li vidi i volti presenti in bilico tra incertezza e mutismo, tra fastidio e applausi di convenienza. Li vide anche Pasolini. E i critici gli fecero la faccia, e le righe, della scarsa simpatia o della derisione.

Non se lo nascose e lo ha lasciato scritto:  “… un’esperienza sbagliata per colpa mia perché ho tentato di raggiungere con il teatro quel famoso decentramento che scavalcasse gli obblighi, ovvero gli indirizzi sbagliati della cultura di massa. Ma per questo bisognerebbe decidere di dedicarsi al teatro, come dei pionieri, per tutta la vita, altrimenti non vuol dire nulla”.

In questa dichiarazione su una esperienza considerata sbagliata per colpa mia, Pasolini mette a fuoco un problema cocente, irrisolto. Tutto racchiuso in una parola, che divenne uno slogan, inquinando il brodo primordiale: decentramento. Non era un falso ma lo divenne. Reclamarlo, in nome delle periferie abbandonate o delle zone vuote di tutto e anche di respiri vitali, era giusto. Molto presto però il decentramento fu praticato senza convinzione, sbrigativamente, sbagliando scelte e compagnie, mescolando senza criterio cinema, musica, teatro, favorendo una circolazione svogliata o distratta, peraltro costosa.

Pasolini lo aveva provato di persona il cinismo del progetto senza costrutto, accettando di partecipare a una finzione nella finzione: uno spettacolo trasferito fra persone poco abituate al teatro, persino digiune del suo valore e delle proposte che magari esse avrebbero potuto scoprire. Lo aveva pagato sulla pelle, tremando per l’equivoco, per l’errore in cui era incorso, anche se l’esperienza sbagliata non poteva essere fatta risalire a lui ma al Teatro Stabile che non aveva previsto l’assurdità, la forzatura commessa pur di mostrarsi à la page.

Era un sintomo grave, la pretesa del Teatro torinese che metteva in campo una iniziativa poco pensata, poca calibrata. Dimostrava, questo errore, la retorica demagogica e populista in senso opportunistico di istituzioni, gli Stabili, che si stavano allontanando definitivamente dalle grandi stagioni del Piccolo Teatro di Milano, regista Strehler, o del Teatro Stabile di Genova, regista Luigi Squarzina, o di altri Stabili, quello stesso di Torino, di Trieste, dell’Aquila.

Esplose la crisi nel più importante Stabile: il Piccolo di Milano. Strehler, più volte contestato, gradito al pubblico milanese per le sue magiche regie dei classici e di Brecht, suo autore prediletto, ruppe con Paolo Grassi, famoso co-fondatore e direttore del Piccolo, e creò una compagnia autonoma. Ma, soprattutto, scrisse anche lui un suo Manifesto.

Ne diede notizia con enfasi nel settembre sempre del ’68 la rivista “Dramma”, la concorrente di “Sipario”, culturalmente spostata verso il centro e la destra, nella logica tipica italiana delle distinzioni obbligatorie da premettere. Il titolo della presa di posizione pubblica di Strehler era questo: Esplosione Manifesto Strehler.

Il regista prese di petto, con passione, la realtà in cui si sentiva a disagio. Sentì il bisogno, per prima cosa, di attaccare.

“La rivoluzione – scrisse - come ‘atto distruttivo in sé’ la rinnego e la combatterò sempre. Come sempre combatterò la ‘rivoluzione perbene’. Quella degli intellettuali a parole: travestiti da rivoluzionari (i peggiori); e quella dei non rivoluzionari che fanno finta di muovere le mani, di muovere qualcosa e non muovono niente:  la rivoluzione nell’ordine, discutiamo tutti insieme”.

Il Manifesto strehleriano non entrava nello specifico teatrale, si accaniva dentro lo spazio angusto dell’ideologia, rivendicava per se stesso una distanza da “un inno di amore unitario, datori di lavoro, capitalisti, proletari, attori cani, attori bravi, ladri e onesti, teatro pubblico e teatro privato”. Si mostrava paladino di una purezza senza tentennamenti: “Combatterò sempre la ‘forma’ della rivoluzione per la fama, cioè gli slogan rivoluzionari (parole e fatti, autogestioni, cogestioni, democratizzazione, finte discussioni dialettiche) per poi continuare tutto come sempre, con l’alibi che si è discusso, che si sono cercati i nuovi strumenti…”.

Strehler vedeva, ecco la spiegazione della sua rivolta contro la rivolta, nel brodo primordiale una miscela avvelenata per il suo modo di fare teatro e cercò di uscire dai rovelli che lo affliggevano con spettacoli diversi da quelli ricavati dall’opera dell’amato Brecht,  come ad esempio Cantata del mostro lusitano di Peter Weiss, testo contro il colonialismo, contro lo sfruttamento capitalistico.

Il Manifesto – Esplosione - Sfogo, nella sua veemente sincerità, era una boa, al di là della quale ci sarà la coda di una lunga carriera fatta soprattutto di ricordi, rievocazioni, atmosfere, teatro malinconico, contrito, con il ritorno al Piccolo che gli diede un’energia, una volontà nuova, ma le sue regie pur inappuntabili non avevano più il fascino degli anni migliori, disturbati e inghiottiti da quel brodo che lo disgustava.

Quel brodo esalava. Pasolini, a differenza di Strehler, aveva tentato di capire nel suo Manifesto ciò che era accaduto, che stava accadendo. La vivacità dei gruppi delle avanguardie, spesso febbrilmente attratti da modelli stranieri (il Living, l’Open Theatre, formazioni inglesi, tedesche, polacche che giravano nel mondo di festival in festival) portava magari generosamente gli stessi gruppi nella generalità di attività clandestine, underground, a risolvere gli spettacoli e loro forme in fragili drammaturgie, fatte di immagini e luci, parole sincopate, smozzicate, fiati, suoni; o fatte di danze scoordinate, di fisicità esasperate, sgraziate, senza plasticità, gettate sulla scena caoticamente.

Pasolini, nel Manifesto, evoca tutto questo con la definizione di teatro del Gesto e dell’Urlo, “un teatro dove la parola è completamente dissacrata, anzi distrutta, in favore della presenza fisica… il piacere della provocazione, della condanna e dello scandalo (attraverso cui, infine, non ottiene che la conferma delle proprie convinzioni)… un teatro come prodotto dell’anticultura borghese che si pone in polemica con la borghesia”, restando borghese.

Borghese, una parola che tornava - “borghesi ancora pochi mesi”, diceva uno slogan molto diffuso - e diventava una realtà in cui provocazione e conferme  restituivano il senso di un qualcosa di insostituibile, vanificando la parola rivoluzione, il suo gusto alto, traducendola in un vessillo stinto.

Questi furono, per il teatro, gli anni dei Manifesti. Speranzosi, lancinanti, aperti, ammutoliti e chiusi. Con residui, anche resistenti, che non si sono dissolti, e che portano i nomi di Pier Paolo e Carmelo, e pochi altri. Ancora viventi. Mai zombi. Vive la loro eredità nei testi, nelle registrazioni radio e tv delle loro voci, in presenza quindi di presenze che non tramontano, anche se le pagine si ingialliscono.

1968. Tremava Pasolini in marzo per Orgia, tra ansia e inquietudine. Tremava in agosto alla Mostra del cinema di Venezia, travolta dalla contestazione. Pasolini stava dalla parte dei contestatori ma soffriva perché i contestatori gli chiedevano di non proiettare il film Teorema, in gesto di solidarietà con loro. Gli ero vicino, in entrambi i casi. Ne vedevo il pallore. Udivo, come gli altri, la sua parola seria, preoccupata, mai rovente o irritata.

Penso che il suo Manifesto vero, attuale, lo pubblicò cercando di spiegare a se stesso e agli altri cosa stava succedendo. Prima che arrivassero altre bufere, più pesanti, più tragiche. Pronte a soffocare lui, la forza che veniva dal passato e dalla tradizione, la tradizione accostata dal poeta alla strana parola amore, strana davvero a quei tempi, non meno che in quelli di oggi.

Ci fu, sempre in quel ’68, un altro manifesto, Il ventre del teatro di Giovanni Testori. Fu pubblicato dalla rivista “Paragone. Letteratura” diretta da Roberto Longhi, nel mese di giugno. Testori si considerava, voleva essere considerato, un isolato in campo artistico. Laureato alla università Cattolica con una tesi sul surrealismo nel 1947, sentiva un suo personale isolamento nella Milano teatrale, stretta attorno al Piccolo di Grassi e Strehler, brechtiano, impegnato.

Il suo lavoro interessò grandi registi, anche di sinistra, come Luchino Visconti che mise in scena nel 1961 L’Arialda, storie di popolane e di prostituzione nella periferia milanese. Lo spettacolo venne bloccato dalla censura per immoralità, suscitando un vero e proprio scandalo, un grande clamore sulla stampa.

Altri testi avevano in precedenza dimostrato la bravura, l’estro di Testori: Il Dio di Roserio, Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon, e molti ancora dopo l’anno fatidico dei manifesti. Tutti caratterizzati dalla presenza ossessiva del corpo, da drammaturgie complesse e presentate con un denso linguaggio. Qualcuno notò che questi testi facevano pensare ad Antonin Artaud, il teorico-regista-attore del “teatro della crudeltà”, a Jerzy Grotowski, polacco, lui pure teorico e regista di un teatro fondato sul corpo, sul corpo che diventa la meta di un viaggio al suo interno, un viaggio esemplare nella profondità a cui allude o mette in scena per essere esso stesso vita.

Testori, sulla base della sua esperienza, ascoltando echi del teatro che voleva gareggiare con tutte le arti per andare oltre, provocare e sedurre, scrisse il suo Manifesto. Dove si trovano le sue sfide al teatro che lo circonda, e da cui si sente accerchiato: “… il luogo in cui il teatro è vero teatro, non è quello scenico, ma quello verbale, e risiede in una specifica, buia e fulgida, qualità carnale e motoria della parola”; “… la funzione del teatro sta alle radici della indicibilità… nella meditazione del lacerto di carne sopra le assi del palcoscenico”; il ventre del teatro come mistero, come profondità, “capacità di calarsi… entro le viscere dell’umana natura”; “… è tutta la vita che tendo, perché non so, o non so far altro, tendo a passare oltre l’estetico”.

Nel Ventre del teatro, Manifesto dissonante dagli altri qui ricordati, Testori vuole svelare la nullità dell’essere, paragonata alla grandezza di Dio; e cerca la parola che si fa carne, parole che “abbiano un’intensità fisica”.

Fu una voce dissonante e, appunto, isolata in un teatro che cercava idee, forme, visioni nella società contemporanea di allora. Semi di religiosità entravano in questa ricerca laica per liberare suggestioni inedite, proibite, vietate. Pasolini, nel contesto, nell’orgia di pensieri e sentimenti, proposte e discussioni, rappresentò un moderno Tiresia, prendendo una posizione minoritaria, per nulla enfatica, carica di bilanci scabri e convinti: con l’idea-guida fondata su una parola nuova e libera. Una frustata utopica nell’epoca delle utopie.

 

 

 

 

 

 


 


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