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Sara Mamone

Il Re è morto, viva la Regina

Data di pubblicazione su web 20/07/2010
Pieter Paul Rubens, "La felicità della Reggenza" (1625. Paris, Musée du Louvre)

La morte improvvisa del re Enrico IV, il 14 maggio del 1610, a causa dell’attentato di Ravaillac, fu un avvenimento di portata storica enorme ma non fu minore quella che oggi si chiamerebbe la portata mediatica dell’evento. Certo le ragioni che dettero vita al ciclo estremamente complesso degli episodi funebri furono sostanzialmente di carattere politico, e certamente politico ne fu il motore e il fine, ma ciò che interessa non meno la storia della cultura è la ricchezza armoniosa e interdipendente di quello che si può definire come un vero ciclo celebrativo nel quale raggiunge forse il suo vertice la concezione barocca della vita come rappresentazione. Della politica come teatro della storia, e dell’ars representandi come strumento della sua comunicazione. Sull’immenso palcoscenico della storia si giocò uno dei più straordinari esempi di retorica del lutto come spettacolo. Come “opera totale”, fatta di un discours espresso attraverso la capacità metaforica e allusiva dei suoi artefici, con la messa in funzione di tutti gli strumenti fino ad allora elaborati dalla civiltà di corte. Lo scopo è senza dubbio politico e appartiene alla grande Storia: è in gioco il destino della giovane dinastia dei Borboni, di tutta la politica pacificatrice di Enrico, il destino della Francia stessa, e questo destino si fonda su un unico nucleo, che potremmo definire “drammatico”, quello della legittimità. Su questa fondamentale missione si concentrano tutte le forze, politiche e creatrici, in gioco. L’obiettivo è chiaro, e sarà centrato perfettamente. Facendo di un re non unanimemente amato un mito nazionale, e dei suoi fragili eredi i garanti della continuità dinastica che verrà posta a base della monarchia moderna.

La maestria del percorso intrapreso dalla regina e dal suo entourage (parimenti fedele alla memoria del re defunto e alla sua vedova nel rischioso compito di legittimazione dinastica) ci pare ormai storicamente riconosciuta[1] come ci pare in altre sedi sufficientemente dimostrato l’apporto della formazione artistico-spettacolare ricevuta nella madrepatria al fecondo e tormentato itinerario di regno di colei che, chiamata al trono di Francia più con compiti riproduttivi che di governo, si trovò invece, dopo dieci anni, in proscenio a dover difendere i diritti della dinastia da lei cosi fertilmente impiantata.

La scena di questa grande rappresentazione funeraria, che durerà circa sei mesi, raddoppiando la durata del già lunghissimo e complesso ciclo nuziale, ha un grandioso prologo nella cerimonia di conferimento della Reggenza. In essa Enrico (in partenza per la guerra nel conflitto che opponeva i principi tedeschi all’imperatore per la successione nei territori di Clèves e Juiliers, dove avrebbe preso il comando della coalizione antiasburgica) assegnava finalmente alla consorte un ruolo vicario, importantissimo sebbene provvisorio. La città, parata a festa per l’evento, celebrerà il 13 maggio la cerimonia della consacrazione della regina nella basilica dei re a Saint Denis, in attesa di mostrarsi in tutta la complessità figurativa e ideologica dell’apparato allestito per l’entrata trionfale del 16[2]. Il 14 Ravaillac sconvolge ogni disegno politico ma non svuota la monumentalità stereotipa del disegno trionfale, accelerandone soltanto la validità resa, per cosi dire, definitiva, dall’irreparabile scomparsa del re. Il sovrano che avrebbe dovuto farsi garante dell’assunzione di Maria al rango di reggente provvisoria si fa mallevadore, per virtù memoriale, e quindi indiscutibile, della sua legittimità di governo. Quello che il disegno iconologico degli archi trionfali intendeva esprimere per via di retorica figurativa[3] si rese peraltro effettivo e politicamente valido nell’affannato accavallarsi del rituale confirmatorio che attraverso il riconoscimento del potere del nuovo sovrano da parte del Parlamento, e il lit de justice inaugural che aveva proclamato Luigi re dei francesi, conferì legittimità alla Reggenza della madre, dal figlio confermata nel ruolo grazie all’autorità di re riconosciuto nella pienezza dei suoi poteri.  

Il 27 maggio il rito espiatorio e purificatore dello squartamento del “parricida” nella piazza delle esecuzioni conferma sia l’inevitabile, e perciò esemplare, atto di punizione del regicida, sia la messa in moto della macchina propagandistica e confirmatoria della personificazione del re come padre della patria. Dopo la giusta vendetta la pietas. L’emozione popolare, aizzata in piazza della Grève, viene purificata due giorni dopo nel rito funebre di Nôtre-Dame in presenza del corpo del re, del giovane Luigi XIII, della Reggente e della corte al gran completo, e orientata dal sermone di Philippe Cospean, vescovo, dottore della Sorbona e primo consigliere della precedente regina Margherite de Valois[4]. Il dolore della sposa e dei figli, la responsabilità collettiva nella morte del re e l’invito alla conversione, la prudenza nell’evitare ogni allusione ad un possibile complotto e nell’assegnare quindi all’assassino responsabilità puramente individuali, l’invito alla conversione con l’esclusione di mezzi coercitivi, la clemenza del sovrano solo raramente piegata alla ragion di stato, il mantenimento della pace interna come premessa per quella internazionale, la discesa in campo e l’ostensione del valore guerriero come azione di giustizia (fino alla restituzione del marchesato di Saluzzo e alla rinuncia a conquiste che il valore avrebbe reso facili), il porre gli interessi della chiesa dinanzi a quelli stessi dello stato[5], la protezione dei luoghi santi, il valore incontestabile e il carisma della sua presenza guerriera[6], l’estensione dell’amore dei francesi per il loro re all’istituzione monarchica (e quindi ai suoi successori e alla regina reggente), l’eccezionalità del paese[7], l’insistenza sulla discendenza diretta da San Luigi, preso peraltro a modello e addirittura superato, la comparazione con altri modelli quali David e Ercole, tutto fa parte di un giudizioso programma concordato con la regina e i suoi consiglieri per servire gli interessi politici del figlio e della dinastia.

Lo stesso 29 maggio, la basilica di Saint Denis, che pochi giorni prima aveva ospitato la cerimonia solenne del conferimento della reggenza, ospita il servizio funebre del sovrano, che viene sepolto nella cripta. Il primo giugno il suo cuore viene portato con grandi onori al collegio gesuitico della Flèche a confermare spettacolarmente la sua devozione cattolica, aggiungendo un’altra pietra alla solidità dell’edificio della Reggente, a cui tutti avevano attribuito il merito della riammissione dell’ordine in terra di Francia. Il mese di giugno vede partire una vera e propria campagna di comunicazione che affida ai più illustri predicatori del regno il compito egregiamente inaugurato da Philippe Cospean, riempiendo le chiese di Francia (ma già il 28 la cappella pontificia romana aveva sentito risuonare nel servizio funebre in onore del re cristianissimo il commosso sermone latino del dotto teologo Jacques Seguier) di devoti che avevano prontamente sostituito il loro astio nei confronti del re con un’incondizionata commozione nei confronti della sua memoria e avevano pienamente assunto nella loro coscienza e nel proprio bagaglio immaginifico ed emotivo sia le personificazioni mitologiche ed eroicizzanti del defunto, sia l’indiscutibile nuova identità regnante de “La mère et l’enfant” sui quali si invocava la protezione divina, impegnando con questo i sudditi ad un fedele riconoscimento di legittimità. Questa endiadi governante sarà il sostegno della nazione fino alla maggiore età del re e costituirà la base di ogni accessione al potere della regina toscana. Apportatrice di pace fin dal suo arrivo in terra di Francia (l’arcobaleno che la simboleggia accompagnerà la vicenda della regina dalla programmatica iconologia delle festività nuziali almeno fino alla definitiva assunzione dell’apoteosi rubensiana[8]) associata da poco nell’immaginario popolare al suo sposo regale Maria è ora sostegno e luce del suo successore. “Ceste vertueuse Artemise des Gaules”, come viene esplicitamente definita nei sermoni del predicatore ordinario Martigny a Rouen[9] e del cappuccino Charles de Saint-Sixt[10], garantirà nel corso della minore età del sovrano fedeltà alla memoria del defunto e soprattutto si dimostrerà degna di educarne il successore, innalzando la fama della sua virtù a quelle della vedova di Mausolo e della virtuosa Bianca di Castiglia[11]

La necessità, l’urgenza di affiancare alle molte prevedibili celebrazioni dentro e fuori dal regno anche quelle della patria d’origine della sovrana, viene immediatamente còlta dal governo fiorentino granducale che tanto e tanto bene aveva operato per la promozione familiare al trono di Francia attraverso l’opera sapiente di Ferdinando I, padre del granduca in carica e appena defunto. Il dovere affettivo e morale dell’omaggio al gran re si coniuga immediatamente con le necessità dinastiche del sostegno alla parente regina e con l’occasione politica di un esordio su una ribalta internazionale per il nuovo e giovane granduca. Alla sua inesperienza farà fronte la grande esperienza di governo della madre Cristina e, soprattutto, quella dell’apparato di corte. La sollecitudine con la quale alla notizia della morte segue l’immediata elezione dei deputati alle esequie, che verranno allestite nella chiesa medicea di San Lorenzo, mostra sia l’importanza attribuita dalla corte all’evento cerimoniale, sia l’efficienza dell’apparato stesso. Il 23 maggio giunge a Firenze la notizia e, dopo due giorni di riflessione in cui non si occupa di alcun altro negozio, Cosimo II affida il compito organizzativo a quattro fiduciari: Niccolò dell’Antella e Agnolo Niccolini erano già stati tra i responsabili dei festeggiamenti nuziali della cugina Maria ed erano quindi i più adatti ad illustrare l’opportuna continuità di relazione delle due dinastie. La corte granducale, inoltre, era ormai giunta ad una formalizzazione delle esequie non meno articolata e funzionale di quella raggiunta nella varietà delle festività nuziali e i suoi apparati funebri avevano già acquisito la fama di una rispettabile tradizione nella quale l’opera degli Accademici del Disegno si poneva come garanzia non solo di felici individuazioni iconologiche ma anche di impeccabili esecuzioni tecniche. Infatti la modellizzazione del funerale granducale (migrata in seguito anche nei felici risultati in effigie) aveva preso avvio dalle esequie di Michelangelo, per assestarsi poi in quelle del primo granduca Cosimo, più come festa d’apparato che servizio religioso. A queste erano seguite, tra le più rilevanti, quelle del granduca Francesco, padre della regina di Francia e, in effigie, quelle del re di Spagna Filippo II. E si erano assestati anche i moduli organizzativi e, addirittura, quei depositi di materiali che, opportunamente immagazzinati e schedati, saranno alla base dell’efficienza del sistema mediceo, sia nel campo della spettacolarità pura che di quella funeraria. Le esequie di Enrico avranno come espliciti riferimenti quelle di Cosimo e di Filippo, comporteranno anche una ricognizione tra le grandi tele dei precedenti apparati (siano essi per entrate nuziali che per visite illustri che per esequie o altre occasioni dinastiche) ma alla fine, sottoposte all’attento e fin troppo zelante vaglio del giovane granduca, saranno onorate da un apparato iconografico completamente nuovo, rinunciando per una volta, intenzionalmente, alla proficua pratica del riuso. Affidata al coordinamento generale dell’architetto granducale Giulio Parigi già dal 27 maggio, l’esecuzione dei lavori vide impegnato praticamente tutto lo staff mediceo. Questo spiega una certa differenza qualitativa tra le opere ma spiega anche l’approntamento di ben 26 tele di grandi dimensioni in un tempo decisamente ridotto, limato tra l’altro dall’opportunità di una scelta dei soggetti oculata e funzionale (anche questa sottoposta dai deputati al vaglio prudentissimo del granduca, verosimilmente in stretto contatto attraverso i suoi residenti e ambasciatori con le parallele intenzionalità confirmatorie della corte francese). Tra i nomi di maggior spicco figurano quelli di Fabrizio Boschi, Remigio Cantagallina, Francesco Curradi, Giaches Bilivelt, Cosimo Gamberucci, Jacopo da Empoli, Valerio Marucelli, Giovanni Nigetti, Zanobi Rosi, Matteo Rosselli.

Il ruolo decisivo dei soggetti scelti viene ribadito anche nella valutazione consuntiva dell’evento e nella storicizzazione programmatica della descrizione a stampa, affidata alla penna sicura di Giovanbattista Giraldi e alla trascrizione figurativa delle incisioni di Alovisio Rosaccio. Il libretto, che avrà per chiara volontà granducale grandissima diffusione e che non sarà affatto estraneo alla definizione iconologia del grande ciclo rubensiano, è la fedele trascrizione della volontà del sovrano:

Ma quello che più di ogni altra cosa muoveva gli uomini a meraviglia, e la grandezza chiariva di questa perdita, si era una scelta delle più segnalate prodezze del re Arrigo, dalle quali chiaro s’argomentava, lui non una sola o poche virtù, o in grado mediocre, ma di tutto essere corredato in somma eccellenza[12].

 

Naturalmente la civiltà fiorentina è una civiltà che esprime se stessa non solo attraverso le intenzioni ma anche attraverso un’esecuzione compiuta e impeccabile e si esprime, oltre che attraverso la complessità del discorso intellettuale, attraverso la comunicazione per via di suggestioni visive ed emotive: quello che al popolo francese veniva comunicato attraverso la forza evocatrice della parola ai fiorentini viene comunicato anche attraverso la forza del racconto per immagini. E il racconto è una biografia, la storia di un re generoso e grande, eroico in guerra ma soprattutto pietoso: la grande suggestione delle scene di battaglia è sempre mediata dalla didascalia orientativa che mette in risalto la pietas del sovrano, degno figlio della Chiesa di Roma anche prima della conversione grazie al suo amore per il prossimo (valga per tutti La presa di Parigi, “ Servata potius quam espugnata Lutetia”[13]). Naturalmente l’episodio della conversione e della firma della pace con la Chiesa ha grande rilievo e viene affidato a Jacopo da Empoli[14]. In un crescendo biografico che è anche un crescendo agiografico si illustra la celebrazione della pace di Vervins in Notre Dame a Parigi (con il trattato che poneva fine alla guerra Filippo II aveva riconosciuto Enrico di Navarra come re di Francia); un’ultima azione di guerra con la presa di Montmélian all’arrogante duca di Savoia e poi pace, pace, pace. La pace coincide con l’arrivo della regina dalla Toscana: con il quadro memoriale che celebrando l’incontro dei sovrani a Lione rievoca alla mente dei fiorentini le grandi “allegrezze” fatte nell’occasione nuziale, oltre a rammemorare anche l’altra grande regina Medici, Caterina, che aveva preceduto Maria sul trono di Francia. Il ciclo si conclude col grande trittico della pace, che, ormai legati indissolubilmente i due sovrani, assume i chiari connotati dell’influenza della cattolicissima sovrana: alla pace si affiancano la giustizia e la carità. Enrico e Maria, ripristinata la pace, restaurano la giustizia, poi ottengono il mantenimento dei diritti cristiani sul Santo Sepolcro. Sigillo del trittico finale il conferimento della reggenza provvisoria alla regina, consacrata in Saint Denis come vicaria dalla volontà dello sposo. L’ultima tela, dedicata appunto alla registrazione della sontuosa cerimonia di incoronazione, non forza il plausibile realismo dell’evento, già di per sé grandioso. La trasformazione di questo adempimento cerimoniale in apoteosi avverrà più tardi, nella contemplazione auto-elogiativa della metafora del ciclo rubensiano. Nel 1610 basterà raccontare al popolo fiorentino (e in seguito in Europa a tutti coloro che verranno in contatto con la “testimonianza” assai ben distribuita del Giraldi-Rosaccio), la portata dell’evento e, soprattutto, segnalare con l’evidenza richiesta dall’urgenza politica del momento e forse da una precisa richiesta d’Oltralpe, il ruolo materno della regina che sale i gradini della legittimazione accanto ai figli, il maggiore dei quali sarà, appunto, il vero garante della sua legittimità. Il 17 ottobre il “sacre”, cioè la cerimonia finale di incoronazione di Luigi XIII re dei francesi nella cattedrale di Reims portava infatti a termine il ciclo confirmatorio che avrebbe portato il re e la madre reggente ad una piena potestas regnandi.

Il re è morto, viva la regina. E viva anche il cugino granduca.

 



[1] Della vastissima bibliografia di riferimento ci limitiamo qui a citare essenzialmente le monografie di J.P. Babelon, Henry IV, Fayard, Paris 1982 e  Michel Carmona,Marie de Médicis, Fayard, Paris 1981 ma soprattutto il recente, imponente, Jean-François Dubost, Marie de Médicis, la reine dévoilée, Payot et Rivages, Parigi 2009 che imposta su basi nuove la valutazione dell’intera vicenda politica e culturale della regina. Ad esso si rinvia anche per l’aggiornamento bibliografico. Per quanto pertiene ai problemi di legittimità dinastica il riferimento d’obbligo è a F. Cosandey, La reine de France. Symbole et pouvoir auXVè-XVIII siécle, Gallimard, Paris, 2000. Per quanto riguarda il ruolo di Maria nella spettacolarità del suo tempo e le relazioni tra Italia e Francia:  S.Mamone, Firenze e Parigi, due capitali dello spettacolo per una regina, Maria de’ Medici, Pizzi, Milano 1987 [éd. francese, Paris et Florence, deux capitales du spectacle pour une reine Marie de Médicis, Seuil, Paris,1990], Le siècle de Marie de Médicis a cura di Franco Solinas, préface di Marc Fumaroli , Marie de Médicis, un gouvernement par les arts, catalogo della mostra a cura di P. Bassani 2003. Per le esequie fiorentine di Enrico è sempre di referenza, Eve Borsook, Art and politics at the Medici court, IV: Funeral Decor for Henry IV of France, in Mitteilungen des Kunsthistorisches Institutes in Florenz, Firenze 1969, pp. 201- 234 e relativa, tuttora funzionale, bibliografia. Alla studiosa americana va il merito, con i suoi saggi relativi anche alle esequie di Cosimo I e di Filippo II di Spagna, di aver per prima inserito questo tipo di cerimonia nel fluire articolato della spettacolarità di corte.

Per la spettacolarità funebre in antico regime si rinvia, oltre al basilare  Kantorovicz, a Sergio Bertelli, Rituale,cerimoniale, etichetta, Bompiani 1985, e le ricerche in corso sotto la guida di Gérard Sabatier nell’ambito del lavoro del Centre de recherche du Chateau de Versailles.

[2] Mamone, Firenze e Parigi, cit. pp.172-191

[3] ivi. in part. pp.189-90 e rel. note.

[4] Jacques Hennequin, Henry IV  dans ses oraisons funèbres ou la naissance d’une légende, Klinksieck, Paris 1977.

[5] “Rien ne peut trouver place, en son ame, que le desir de donner la paix au bien et au profit de l’Eglise, où il sembloit que la guerre deut faire celui de son estat. Il le veut par l’amour qu’il porte à la réligion, il le peut par la seule force de son authorité » , Ph. Cospean,  cit. in Hennequin, p. 135.

[6] Il tema sarà ripreso nell’orazione delle esequie fiorentine dal canonico Venturi.

[7] “Le jardin des fleurs de lys, ou le fils de Dieu prent tant de plaisir », Ph. Cospean,  cit. in Hennequin, p.170.

[8] Per le valenza politiche e il discorso autoelogiativo della commissione rubensiana si vedano J. Thuillier, La  galerie de Marie de Medicis: peinture, poètique et politique, in Rubens e Firenze, 1983, pp. 249-266,  Sara Mamone, Firenze e Parigi, cit. in particolare alle pp. 193-225 , F. Cosandey, Représenter une reine de France: Marie de Médicis et le cycle de Rubens au Palais du Luxembourg, in CLIO, Revue francophone d’ histoire de femmes, 2004. 

[9] I.L. deMartigny, Dédicace, Rouen, 11 juin, in Hennequin, cit, p.138

[10](Charles de Saint Sixt), 1 juin 1610, ora in Hennequin cit,p.138

[11] Sara Mamone, Caterina e Maria: due Artemisie sul trono di Francia, in  Caterina e Maria de’ Medici donne al potere, catalogo a cura di Clarice Innocenti , Mandragora, Firenze, 2008 pp. 31-42. Per quanto riguarda le reggenze femminili in antico regime si veda In assenza del re, a cura di Franca Varallo, Olschki,  Firenze 2009.

[12] G. Giraldi, Esequie d’ Arrigo IV, Cristianissimo Re di Francia e di Navarra, Celebrate in Firenze dal Serenissimo don CosimoII Granduca di Toscana, Sermartelli, Firenze 1610,  p. 4

[13] Servata potius quam espugnata Lutetia dum sine caede sine direptione eam armatus ingreditur nullam victoris iracundiam sed patris in se charitatem experitur  recita la scritta apposta ai piedi della tela raffigurante Enrico alla presa di Parigi, ivi, p.32.

[14]Nella composizione, uguale per impianto a quelle dedicate alle nozze di Caterina e di Maria nell’apparato nuziale del 1600, il re è tra due fiorentini: il cardinale Gondi e il Nunzio papale, Alessandro de’ Medici, futuro papa leone XI. A sottolineare ancora, se ce ne fosse bisogno, l’attivo  ruolo mediceo nella conversione del sovrano.

 


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