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Italo Moscati

Italo Moscati,
Quando l’Italia underground
uscì dalle catacombe dei rotocalchi e della tv


Data di pubblicazione su web 14/04/2010
La dolce vita

Uscirà a giugno il libro La Dolce Vita negli Archivi della Rizzoli, il racconto dei giorni che vanno dal novembre 1958 (quando Federico Fellini cominciò a preparare il suo celebre film) al febbraio 1960 (quando il film uscì e cominciò il suo cammino fra scandali e discussioni appassionanti). Il racconto è composto di testi di giornali, grandi e piccoli, rotocalchi, settimanali, non solo editi da Rizzoli, in cui affiora una storia sorprendente e, oggi, inedita. Compaiono i densi e spesso curiosi retroscena del film che illumina la fortuna della Dolce Vita, pellicola memorabile, delle molte facce, tutte interessanti e significative: dal divismo alle polemiche ideologiche e politiche in cui furono coinvolti i più grandi intellettuali e critici dell’epoca, da Moravia a Pasolini, a Calvino, a Montanelli e a tanti altri. Del libro anticipiamo l’introduzione dal libro di Italo Moscati.

 

 

Questa è una storia di cinema e delle sue memorie. Tra ricordi letterari e marce di zombi deliziosi (ma non sempre). Tutto si svolse nel giro di due anni buoni, dal 1958 al 1960.

Sono gli anni del “miracolo economico” che trabocca ancora per un poco di tempo per poi inabissarsi, e sopravvivere. Sono gli anni della Dolce Vita il film di Federico Fellini che stampò un’epoca, congedandola, in un vivido affresco che ha compiuto nel 2010 il mezzo secolo. Sono gli anni che profumano di carta stampata grazie ai rotocalchi illustrati che irrompono dalle rotative nelle mani degli italiani, italiani assetati di glamour e di retroscena.

Gli anni della televisione agli esordi in sordina, quella della Rai del monopolio, dei telegiornali freddi come i frigoriferi che entravano nelle case (Eduardo De Filippo dirà: «La tv? Un elettrodomestico»), dei sorrisi delle signorine Buonasera e della brillantina di Mike Bongiorno con la sua spettacolare “scuola dell’obbligo” costruita con i telequiz, e delle prime, timide inchieste nel paese che cambiava.

Qualcosa di estremamente importante si stava preparando. Stava arrivando uno tsunami travolgente, sorprendente, sconosciuto, inaspettato, gioioso, esaltato dall’amore e della lacrime che fanno bene al cuore. Portava via i segni della guerra e dei ritorni. Passava con i suoi venti potenti, scaldando l’anima. Negli occhi si accendevano luci mai viste, scacciando il buio e smorzando le urla e i colpi d’arma del cinema neorealista.

 

Date importanti, fatte di niente, di sentimenti banali e carichi di ebrezza come una innocua droga e soprattutto di pellicole come Pane, amore e fantasia (1953) o Poveri ma belli (1956). Date di canzoni popolari, dal Festival di Sanremo alla radio dal 1951 e poi in diretta in televisione (1955).

Erano ebbrezze seminuove, come vedremo. Che scorrevano in fiumi profondi nelle esigenze e nei gusti degli italiani vecchi e giovani.

I più vecchi ricordavano gli anni di Alberto Rabagliati, il sosia di Rodolfo Valentino, andato a Hollywood con la speranza di essere un secondo Rudy; ma capì subito che era meglio lasciare la Mecca del cinema e trasferirsi a Cuba per entrare nel Lecuona Cuban Boys e poi rientrare in patria, prima della seconda guerra mondiale, e trasformarsi in cantante confidenziale.

I più giovani, dopo le notti nei campi di battaglia o nei rifugi per i bombardamenti alleati, tendevano le orecchie perché Natalino Otto con il suo jazz all’italiana sopportato dal fascismo non c’era più, spodestato da Giacomo Rondinella con Luna rossa o da Nilla Pizzi con Grazie dei fior.

Ma era il cinema a far rivivere o vivere le energie e a scatenare i muscoli del cuore attraverso i suoi effetti ottici. Sbarcavano a migliaia nel porto di Napoli i film che erano stati bloccati perché americani e che, adesso, subito, dal 1946 avevano preso d’assalto gli spettatori a cui gli aerei avevano steso le case per aprire la strada ai Liberatori.

Una storia intensa, forte, incisiva. Solo apparentemente minoritaria, irrilevante.

Negli anni Cinquanta, giorno dopo giorno, in un intreccio di film e di musiche si avventava sugli spettatori, ansiosi, adoranti, semplici come un bucato a mano, una produzione creativa impressionante. Un bagno nella felicità. Un salto nella piscina dei sogni in cui soffiava il respiro di una realtà ancora dura ma pronta a balzare avanti, ad immaginare un nuovo destino.

Questo volume intitolato La Dolce Vita raccontata dagli Archivi Rizzoli arriva dopo due precedenti- Otto ˝ e Giulietta degli Spiriti che hanno le stesse caratteristiche.

I due volumi precedenti sono dedicati, com’è evidente, a film successivi di Federico Fellini e della sua La Dolce Vita. Se si trattasse di un film o di una serie di telefilm potremmo chiamare il presente volume illustrato come i precedenti un prequel. Invece si tratta di un punto formidabile di partenza senza il quale non solo non ci sarebbe stato il regista che conosciamo con le sue opere ma neanche l’Italia in cui La Dolce Vita comparve con una tale efficacia da contrassegnare una intera epoca.

Quale epoca? Oggi la definiamo epoca della ‘Dolce Vita’, etichetta buona per ogni uso a distanza di tempo, uso rievocativo, celebrativo, storico, leggendario o semplicemente buono a riassumere tutto un periodo fatto di scandali, polemiche, ricordi, richiami, nostalgie, banalità di diverso tipo (dall’idea di una Roma e di un’Italia in rosa, mondana, turistica, patinata). Ma non basta.

 

Si tratta di un’epoca che questo volume ci aiuta a comprendere fino in fondo, meglio di altri documenti, commenti, saggi, dissertazioni, rievocazioni.

La Dolce Vita è un titolo che assorbe il passato a lei più vicino e rilancia il suo presente in un futuro che non si è ancora, persino ai giorni nostri, delineato, completato, definito. Le sue pagine sono ancora aperte.

Il film è una sintesi di una trasformazione della società italiana.

Di una “dolce vita” parla il giornalista-scrittore Arnaldo Fraccaroli nel suo libro Hollywood, paese d’avventura (1929) .Si riferisce a ciò che ha visto in America, rimanda al cinema, alle star, e all’effetto di questo Olimpo di celluloide. Sono gli anni Trenta e Fraccaroli conosce bene quel che sta avvenendo nel suo paese, in Italia, e non solo a Roma ma anche a Milano, capitale dell’editoria popolare. Sa che il cinema chiama a sé i letterati come Cesare Zavattini, i quali debuttano in questo tipo di editoria. Infatti, il futuro grande sceneggiatore collabora alle riviste satiriche come il «Marc’Aurelio», dove approderà dopo di lui il giornalista-vignettista Fellini, diventa direttore del «Bertoldo», presso l’editore Rizzoli che produrrà il film «La Dolce Vita», quindi passa nel 1939 alla Mondadori come responsabile dei settimanali. Già nell’aria si sente odore di bruciato poiché a settembre Hitler invaderà la Polonia con le sue truppe e accenderà il gran fuoco della seconda guerra mondiale.

Ma la vita deve andare avanti. Zavattini era un cultore del nuovo costume italiano che passava per le riviste come «Le Grandi Firme», illustratissime, con audaci copertine di donne procaci con rotondi seni e rotondi fianchi, le “signorine grandi firme” disegnate da Gino Boccasile che anticiparono di quindici anni le “maggiorate fisiche” (espressione nata dall’episodio intitolato Il processo di Frine del film Altri tempi (1952), di Alessandro Blasetti, in cui “l’avvocato” Vittorio De Sica che invoca clemenza alla corte togliendo lo scialle dal petto “maggiorato” di una giovane e bella Gina Lollobrigida).

 

Zavattini aveva l’occhio aguzzo e i sensi vigili. Fu tra gli ideatori del primo concorso di bellezza in Italia bandito dalla rivista «Il Milione». Si chiamava “Cinquemila lire per un sorriso”, lo vince una quattordicenne torinese e nessuno la definì “velina”, nonostante che le “veline” circolassero davvero ed erano le circolari che il regime fascista diramava per la stampa affinchè regolasse cosa doveva o non doveva pubblicare.

Era un paese, quello che si preparava ad entrare in guerra nel giugno 1940 dietro il cattivo esempio di Hitler, che si voleva divertire e cercava la spensieratezza malgrado le sfilate in divisa e l’ostentazione mussoliniana di corazzate, aerei e carri armati (il conflitto dimostrerà il coraggio dei soldati italiani ma anche il loro scarso equipaggiamento di combattenti).

Steno, ovvero Stefano Vanzina, regista e sceneggiatore, padre dei fratelli Carlo ed Enrico Vanzina, scrive in «Fotogrammi» (1946) sul paese che gli italiani si erano appena lasciati alle spalle dopo la guerra : «Era…un’Italia che si limitava al sogno di un bacio sotto la galleria durante il viaggio domenicale di un treno popolare…Oltre all’Italia di Mussolini esisteva, sotto sotto, l’Italia di Vittorio De Sica. L’Italia ‘ufficiale’ era quella dei gagliardetti e dei discorsi, delle teste pelate all’antica romana e delle rivendicazioni; l’Italia ‘ufficiosa’ invece - quella di Vittorio - era quella delle villeggiature in Riviera e a Montecatini, quella del Lotto e del panettone Motta, quella della «Settimana Enigmistica», quella delle servette che, lavando i piatti, facevano rintronare i cortili delle case popolari con le languide parole di ‘Oggi il mio cuor è pieno di nostalgia’»

Memorie di un paese che faceva sogni proibiti di potenza in un giardinetto di tanti sospiri sessuali e di tanti baci d’amore. Vanzina, Zavattini (sceneggiatore di De Sica tra l’altro di Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano e Umberto D.), Mino Maccari, il giovane Fellini in viaggio verso Roma e molti altri quasi sempre di estrazione letteraria ben disposti a considerare quell’Italia “sotto sotto” che era figlia dei periodici, della radio delle canzonette e del varietà parodistico come I tre moschettieri.

 

Un Italia “sotto sotto” che cercava i modelli lontani dei divi in abito da sera e, naturalmente, i relativi film dei telefoni bianchi e delle commedie sentimentali come Gli uomini, che mascalzoni (1932) o Grandi magazzini (1939) di Mario Camerini, protagonista il giovane De Sica.

Un’ Italia “sotto sotto” con le sue storie scure, controverse e paradossali. Come quella di Dino Segre detto Pitigrilli, di padre ebreo, fascista della prima ora, convertitosi al cattolicesimo, autore di romanzi scandalosi. Romanzi dai titoli espliciti, pubblicati tra gli anni Venti e Trenta: La cintura di castità, Cocaina, Mammiferi di lusso. Quest’ultimo titolo, sepolto dalla storia che passa, viene ricordato nel film Divorzio all’italiana (1962) di Pietro Germi nella scena nel cine-teatro dove si proietta La DolceVita davanti a un pubblico eccitato dalla danza di Anita Ekberg nella taverna romana al ritmo rock cantato dal giovane Adriano Celentano arruolato nel gruppo “I Campanino”. La fidanzata del personaggio interpretato da Lando Buzzanca, per frenare lo sguardo geloso della ragazza, dice con una smorfia di automatica repulsione: «Un mammifero di lusso»; aggiunge: «… ma senz’anima»). L’ eco in superficie e ipocrita affiorata da una Italia “sotto sotto” presa allo spasimo dalle forme di Anita e dalle lusinghe della ‘Dolce Vita’.

Anni che scorrevano. Anni di contraddizioni tra costume e politica, come dimostrava la storia esemplare di Pitigrilli. Lo scrittore fondò, d’accordo con Zavattini, la rivista «Grandi Firme» di cui abbiamo detto. Nel 1938 la rivista fu chiusa non tanto per le forme maggiorate delle signorine in copertina quanto la promulgazione leggi razziali. Pitigrilli, ricordiamolo di cognome e di origine ebrea, fuggì all’estero, ma non cambiò le sue idee fascistoidi. Inconvenienti di quella Italia, tollerante ma inesorabile per ordini nazisti. Pulizie razziste.

Esisteva dunque, in quella Italia con le sue contraddizioni, innescate dallo spettacolo e dai nuovi intrattenimento per il grande pubblico, una strana forma di underground, una parola che non circolava e che verrà invece di moda proprio negli anni della Dolce Vita. Underground, ovvero proposta di gesti e segnali artistici sotterranei anche in senso metaforico, vere e proprie nascite o vagiti di futuro in gallerie d’arte, teatrini, cineclub, sale da ballo e danza, jazz club. Tutt’altra cosa rispetto al “sotto sotto” di cui parlava Steno.

Eppure, l’uso paradossale e solo indicativo di underground appare appropriato, significativo, se si tiene conto del fatto che in Italia il distacco fra la cosiddetta cultura alta e quella popolare era notevole. E soprattutto se si ricorda come di rado vien fatto che il “sotto sotto”, al di là di chiacchiere al vento, è sempre stato bocciato o ignorato fra anteguerra e dopoguerra dalla separatezza, dallo snobismo intellettuale, dall’antipatia se non dal rifiuto dell’ Italia “ufficiosa”.

Questo libro dedicato alla Dolce Vita, e i due precedenti, arrivano a confermare una storia, anzi le storie che le tendenze che hanno serpeggiato fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta , dai “telefoni bianchi” al “miracolo economico” e alla “commedia all’italiana”. Trent’anni di vite e di sopravvivenza, attraverso la fase irripetibile e feconda del neorealismo: da Roberto Rossellini a De Sica, da Luchino Visconti a Giuseppe De Santis, a Carlo Lizzani, Renato Castellani, Alberto Lattuada.

Esaurita la grande stagione neorealista, con eredità raccolte in Italia e all’estero, gli anni di Cinecittà ricostruita si fanno tumultuosi. A Totò, comico principe, si affiancano decine di attori d’ogni provenienza, dal nord e prevalentemente dal sud, che suscitano ilarità con le loro cadenze e mimiche dialettali, parodie di un italiano di nuovo conio dopo la “italianizzazione” obbligatoria del precedente ventennio. I “nordici”: Macario, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, Walter Chiari (origini pugliesi), Tino Scotti, Carlo Dapporto; i “centristi”: Aldo Fabrizi, Renato Rascel e soprattutto Alberto Sordi; i “sudisti”: Peppino De Filippo, Giacomo Furia, Guglielmo Inglese e Virgilio Riento. Tanto per citarne alcuni. Una carovana di talenti.

 

Ai comici si mescolano i registi venuti dalle nebbie: Michelangelo Antonioni, Dino Risi, Mario Monicelli, Luigi Comencini. E tanti altri. Un’altra carovana che, in nome del cinema, conquistava una Roma dei “telefoni bianchi” e dei film epici spediti nei magazzini dei ricordi, fra costumi e scenografie sfasciate.

Il libro La Dolce Vita raccontata dagli Archivi Rizzoli è un terzo contributo per capire meglio non solo il cinema ma il sommerso del nostro Paese, attraverso una grande quantità di documenti. Si va dagli articoli e trafiletti dai piccoli giornali di provincia ai servizi e alle immagini di grandi autori, scrittori e fotografi (non solo paparazzi felliniani). Un campionario, sistematico cronologicamente,che va oltre la cronologia.

Questo campionario è montato in modo drammaturgico, ossia come una sceneggiatura in cui a poco a poco prende quota sì la rievocazione dell’epoca del film felliniano; ma è importante sottolineare che, parallelamente, emerge sempre a poco a poco l’ Italia “sotto sotto” della seconda parte degli anni Cinquanta tra “miracolo economico” e approdo agli anni Sessanta. I “mitici anni Sessanta” più volte decantati dalla televisione e dai suoi conduttori, fra consumismo incalzante e contestazione studentesca, fra il 1968 all’italiana e le sue prime degenerazioni violente, sviluppi e base dei successini “anni di piombo”.

La pellicola di carta e immagini parte dagli ultimi mesi del 1958 e arriva al 1960, febbraio, mese dell’uscita della Dolce Vita, fra commenti di critici, famosi giornalisti e intellettuali, una serie di interventi che continuò a lungo, e che torna di attualità nel 2010 per via dei cinquant’anni dal debutto del film di Fellini e della sua dirompente apparizione.

La pellicola di carta e immagini ha un andamento che prende valore dalla carica esplosiva del film e la moltiplica; rovescia interessi, approfondimenti, temi, personaggi, curiosità, gossip dal grande fiume del film a innumerevoli affluenti. Ciò è insolito nel cinema in genere e in particolare in quello italiano in cui la capacità di affresco e, nello stesso tempo, di offerta di spunti risulta ridotta, se non inesistente.

Si resta colpiti dagli episodi della fase di preparazione del film. Uno per tutti: la scelta della ragazzina che incontra, nel finale, Marcello Mastroianni alias Marcello Rubini. Quattromila candidate. Quanto quelle che ogni anno si presentano per i reality o per Striscia la notizia. Eterna saga del tuffo nei luoghi rutilanti dello spettacolo che Visconti mise in scena davanti agli obiettivi di Bellissima (1951) la bambina obbligata a fare un provino a Cinecittà dalla madre Anna Magnani, mossa dalla frustrazione personale e dalla voglia di rivincita per la sua spaurita creatura. Saghe che si modificheranno nel tempo, fino alle esasperazioni dei giorni nostri.

Foto e testi dei settimanali già presentavano Valeria Ciangottini, quattordici anni, come il bocciolo in fiore di una nuova diva. La Ciangottini sarà poi una brava attrice ma mai una diva. Questo fatto acquista risalto dalla possibilità di comparare la scelta della ragazzina venuta dal nulla con le notizie e le foto, sempre nei settimanali, sulla ricerca della protagonista della Dolce Vita. La stampa indicava Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Sophia Loren, tutte le nostre “maggiorate” a cui venivano mescolate dive americane come Susan Hayword. Indiscrezioni enfatizzate a carattere di scoop che vivevano pochi ore di gloria.

Circolava nel giornalismo cartaceo, peraltro in gara con quello dei cinegiornali tipo «Settimana Incom» - regno di ironie pesanti sulle “vecchie” Marlene Dietrich, Gloria Swanson, Joan Crawford in visita a Roma - una gran fretta di afferrare l’attualità, di inseguire e strattonare i vip della Hollywood sul Tevere per monetizzarli in apparizioni amorose, scandalose e rissose: i baci nelle trattorie fra Jayne Mansfield e Michey Hargitay; i pugni di Walter Chiari ai paparazzi per proteggere la sua relazione effimera come un mattino con Ava Gardner; le notti all’Hotel Excelsior fra Rosanna Schiaffino e il play boy Baby Pignatari.

 

In questa massa di informazioni leggere, licenziose, melodrammatiche, ironiche, godibilissime,si trovano infilate nel libro realizzato con i fantastici archivi della Rizzoli altre notizie o frammenti nella stampa provinciale o in quella della sera. Quest’ultima ebbe in quel periodo la maggior fortuna, basta ricordare qualche testata: «Stampa sera» a Torino, il «Corriere di Informazione» e «La Notte» a Milano, «Paese Sera» o «Momento Sera» a Torino. Tutti giornali che verranno inghiottiti dalla televisione tra gli anni Sessanta e Settanta.

Tra i frammenti, righe che ricordano gli “scapolari”. Cosa sono o meglio cosa erano gli “scapolari”? Sono, o erano, immagini sacre o di reliquie che i bambini della prima comunione portavano al collo appese al collo sotto il vestito. Segni di una devozione che ancora viveva in un’Italia neanche tanto “sotto sotto”, l’Italia dei “baschi verdi” di Luigi Gedda, i giovanissimi dell’Azione Cattolica o i boy scout. “I baschi verdi” e le loro adunate di massa a piazza San Pietro ebbero un gran peso nel clima e nel proselitismo creato dai “Comitati Civici”, promossi sempre da Gedda, che aiutarono la Democrazia Cristiana a vincere le elezioni del 18 aprile del 1948 che segnarono l’uscita del Partito Comunista e del Partito Socialista dall’area del potere.

Quando Fellini prepara la sua Dolce Vita gli scapolari sopravvivevano, i “baschi verdi” e i Comitati Civici stavano eclissandosi. Quella vecchia e nuova Italia “sotto sotto” stava cedendo spazio a un’altra Italia che, dal centrismo guidato dalla Dc s’incamminava già verso il centro sinistra con i laici e socialisti, e scopriva un underground fatto di immagini non più solo cinematografiche ma anche televisive. Messaggi diversi, più audaci, sensuali, desideri sepolti e più espliciti bussavano alla porta della stampa popolare, dei rotocalchi e anche dei settimanali di denuncia e di analisi del costume come «L’Europeo» e poi «L’Espresso».

Una valanga di parole, documentate in questo illustratissimo volume, incastonata in una valanga ancora più ampia e irresistibile di immagini seducenti, eros urbano e periferico, trucchi e gambe scoperte, seni e natiche strette più di quella ormai impolverate delle “signorine grandi firme”.

 

Scelgo una di queste immagini “sacre”, sacralizzate dall’uso e dal mito. Anzi due.

Eccone una. Anita Ekberg in una delle sue notti romane. Si è tolta l’abito talare che indossava quando guardava in compagnia di Marcello il mondo dalla cupola di San Pietro, fra terra e il cielo, il cielo dove era passato l’elicottero a cui è appesa una statua del Cristo all’inizio della Dolce Vita. Veste un abito molto scollato, lo stesso che porta quando si immerge nella Fontana di Trevi nella famosa scena. Èsorridente, luminosa. Sui capelli biondissimi e luccicanti come neon regge un piccolo gatto bianco. È la foto che nel libro ricorre di più. Una icona tenera. Il “mammifero di lusso” e la candida bestiola. La gran donna del peccato e il suo giocattolo. Cose di ieri, cose di oggi.

Ecco l’altra. Anita-Sylvia è nella Fontana. Chiama “Marcello!”. Marcello va, mormora qualche parola di adorazione. Il “mammifero” prende dell’acqua e battezza il latin lover, il giornalista ormai senza ambizioni che s’inchina davanti alla irresistibile bellezza di Sylvia, immagine sacra. “Scapolare” del cinema e di quella società romana, metafora di un’Italia che da “sotto sotto” sta per entrare in un mondo diverso, inesplorato, incomprensibile. Un battesimo di immagini, foto, film. Destinato a durare. Asfissiante. Potente.

Storie e personaggi che così acquistano posto nella memoria,anzi nelle memorie degli spettatori e di chiunque. Questo libro, a cura di Domenico Monetti e Giuseppe Ricci, ci mostra i corsi e i percorsi visti, letti e comunque carichi di segreti da scoprire, da cui è uscito il nostro Paese. Autostrade o sentieri di carta e di foto, da cui basta togliere la patina di polvere per incontrare un passato che riguarda il presente,e chissà…

Dice il regista della Dolce Vita: «Mi sono sempre rifiutato di mettere la parola “fine” ai miei film…Mi sembrava una vera e propria violenza non solo contro gli spettatori ma anche contro gli stessi personaggi di cui stai raccontando la storia. Non ci può essere una fine per questi personaggi che comunque continueranno a vivere a tua insaputa, all’insaputa dell’autore».

Questo libro è coerente con queste parole, attraverso altre parole, attraverso un album fitto di emozioni e di pensieri da riprendere. Visita alle catacombe del cinema e della tv. Strabiliante.

 


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