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Paola Ventrone

Paola Ventrone,
S. Antonino e la sacra rappresentazione:
il teatro nella formazione del cittadino devoto

Data di pubblicazione su web 11/01/2010
Attavante, Processione del Corpus Domini, 1505 ca., miniatura del Graduale diurno domenicale, parte IV, dalla festa della SS. Trinità alla XXIV domenica dopo Pentecoste, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Corali 4, scrittura datata al 1410

Pubblichiamo la relazione letta da Paola Ventrone al convegno internazionale di studi storici: Antonino Pierozzi OP (1389-1459). La figura e l’opera di un santo arcivescovo nell’Europa del secolo XV (Firenze, 25-28 novembre 2009)

 

 

L’interesse di Antonino Pierozzi per il teatro fu segnalato da Ireneo Sanesi, ormai quasi settant’anni fa, in un saggio su Sant’Antonino e l’umanesimo[1]. Il suo coinvolgimento nella riforma delle compagnie di fanciulli, e nell’inserimento della sacra rappresentazione nel programma pedagogico riservato ai loro membri, è stato in seguito confermato dalle ricerche, in particolare, di Richard Trexler[2], Nerida Newbigin[3], Ilaria Taddei[4], Lorenzo Polizzotto[5] e di chi scrive[6]. In questi studi, tuttavia, le posizioni dell’arcivescovo sul teatro sono state tendenzialmente considerate più di accettazione (come nel caso delle recite di sacre rappresentazioni), o di regolamentazione e contenimento (come in quello delle feste di San Giovanni), che di attivo e propositivo intervento. Al contrario, a mio avviso, esse sono la testimonianza e il risultato della lucida riflessione compiuta da Antonino sulle potenzialità del teatro come strumento di comunicazione e di istruzione: una riflessione profondamente innovatrice, che lo indusse a intervenire concretamente per definire limiti e liceità dell’uso di questo mezzo espressivo, non soltanto al livello pratico, ma anche sul piano teologico, politico e morale.

L’obiettivo di questa relazione vuole, dunque, essere quello di assegnare il giusto valore al ruolo che il Pierozzi svolse tanto nel recupero ideologico e nella legittimazione teologica del teatro nella cultura quattrocentesca, quanto nella sua pratica applicazione alla formazione etica e morale dei giovani e dei cittadini, con l’invenzione e l’istituzione del genere drammaturgico della sacra rappresentazione, secondo un disegno che mi appare non solo coerente con l’impegno pastorale così come l’arcivescovo l’aveva concepito ed esercitato, ma anche profondamente consapevole e partecipe dell’importanza della cerimonialità e dello spettacolo nell’articolazione dei rapporti fra i fiorentini a tutti i livelli sociali.

Mi soffermerò in particolare su due punti: il primo relativo agli interventi di Antonino sulle usanze cerimoniali e spettacolari di Firenze; il secondo dedicato, più in particolare, alla sacra rappresentazione e alle specifiche modalità della sua funzione educativa.

 

Veniamo al primo punto. Quando Antonino Pierozzi divenne priore del convento domenicano e mediceo di San Marco, nel 1438, il sistema dello spettacolo e della cerimonialità fiorentini si stava definendo in maniera meno discontinua che nei decenni precedenti, a seguito, prima, del riassetto oligarchico del regime albizzesco, a cavallo fra XIV e XV secolo, poi del regime più duraturo, benché non sempre stabile, inaugurato dal rientro di Cosimo il Vecchio dall’esilio nel 1434. Le tradizioni spettacolari, istituite nel Trecento e agli inizi del Quattrocento e legate alle scadenze del calendario liturgico, si andavano via via consolidando, come le celebrazioni di San Giovanni Battista, che annualmente ordinavano tutti i fiorentini in un susseguirsi di processioni oblative al Santo Patrono destinate a rappresentare l’identità civica dei corpi sociali riuniti nel segno del ‘bene comune’; oppure le feste dell’Ascensione, dell’Annunciazione e della Pentecoste, messe in scena dai laudesi di Oltrarno con l’ausilio delle ‘meravigliose’ macchine sceniche perfezionate da Filippo Brunelleschi; o, ancora, il corteo dei Magi, che l’omonima confraternita, insediata proprio nel convento di San Marco, realizzava periodicamente lungo alcune vie cittadine, facendo sfoggio di ricchissime vesti e paramenti. Accanto a questi spettacoli si dispiegava il fasto della cerimonialità cavalleresca, che informava i comportamenti delle élites cittadine, esprimendone la preminenza nelle occasioni di rilevanza politica, per celebrare, con banchetti, danze, armeggerie e giostre, le vittorie militari, le acquisizioni al dominio di nuovi territori, le visite di ospiti illustri e così via.

A tutto questo vario e complesso panorama festivo, che impiegava linguaggi spettacolari diversi e adeguati, di volta in volta, ai precisi messaggi che voleva trasmettere e ai precisi destinatari che voleva raggiungere, Antonino, fin dai tempi del priorato, rivolse la propria attenzione, con il proposito di determinare i confini tra il lecito e il non lecito e di intervenire modificando, rinnovando o eliminando le pratiche spettacolari in base al proprio giudizio pastorale. Assunse, cioè, verso lo spettacolo, l’atteggiamento che gli era proprio nei confronti di tutte le manifestazioni del vivere civile, e che aveva resa nota la sua equità e la sua saggezza con il significativo soprannome di “Antonino dei consigli”.

Un primo livello di intervento, di carattere morale e individuale, è offerto dai suggerimenti sui comportamenti più appropriati per le donne e per le fanciulle da marito contenuti nell’Opera a ben vivere, la guida spirituale alla vita cristiana che l’arcivescovo compose, fra il 1450 e il 1454, per Dianora Tornabuoni, moglie di Tommaso Soderini:

 

Quando voi fussi invitata ad alcuno convito di nozze o di balli, o d’andare a vedere feste, o giostre, o altri spettacoli, o d’andare a sollazzo con altre donne vane, come se ad orti, o ad altri luoghi per ispasso, o simili cose; tutte queste cose, figliuola mia, vi nego e vieto e contradico, e comandovi, in virtù di santa obbedienza, che non vi dobbiate andare […]. Ma se credete che, per non volere andare, avesse a uscire scandalo, o indegnazione verso lo sposo vostro con voi, o altro notabile scandalo, andatevi. E quando vedete quella vanità di suoni o di balli, o d’altre vanità, ingegnatevi di recare ogni cosa a spirituale intelligenza. Reputatevi di essere in paradiso e di udire i suoni delli angeli, e quelli belli canti reputate siano quelli cori delle sante Vergini, le quali ballino e danzino dinanzi al trono dell’Agnello immaculato, andando con festa e gaudio e canti ad offerire le loro corone dinanzi a Dio, come dice San Giovanni nella Apocalisse.[7]

 

Ciò che colpisce, in questo brano, è l’enunciazione della regola morale da seguire e la contemporanea concessione della trasgressione della stessa: prendere parte a balli, nozze, giostre, spettacoli e a qualsiasi altra occasione ricreativa è vietato in quanto induce al peccato e alla perdita di tempo in cose fatue. Feste e trattenimenti vari, infatti, solleticavano la vanità delle donne consentendo loro di vestirsi con un lusso inusuale nella vita quotidiana e di mettersi in mostra «imbrattando», per usare un termine antoniniano, il loro pudore. Nella medesima opera il Pierozzi arrivava addirittura a proibire a Dianora di stare affacciata alla finestra o all’uscio, proprio per evitare di dare mostra di sé. Eppure, questo stesso rigido censore, indica la scappatoia per poter partecipare alle mondanità senza compiere peccato, qualora il sottrarvisi rischiasse di causare scandalo al marito o alla famiglia. Bastava, infatti, fare appello alla «spirituale intelligenza» e rivolgere la mente al paradiso e a suoi angeli: un riferimento, questo, non puramente astratto, ma concretamente riferito alle macchine sceniche brunelleschiane che, nelle chiese di Oltrarno, costruivano l’immaginario dei fedeli mostrando loro la ricostruzione tridimensionale e realistica dell’empireo animato da suoni e danze celestiali[8]. Un tale atteggiamento è indice di quanto profondamente Antonino avesse compreso la funzione di questo tipo di trattenimenti come mezzo per consolidare, talvolta anche stabilire ed esibire, le alleanze consortili, vale a dire come modo per rendere pubblici i sempre delicati e fluttuanti equilibri politici delle élites, e avesse capito, dunque, e accettato, il fatto che questo tipo di comportamenti non avrebbe mai potuto essere estirpato ma, al massimo, contenuto, nei suoi effetti corruttori, dall’ausilio dei consigli morali.

L’enunciazione teorica di questa convinzione, profondamente aderente alle necessità complesse della società fiorentina del tempo, si ritrova in un passo della Summa Theologica, che si interroga sulla peccaminosità dell’esercizio e della fruizione delle pratiche teatrali:

 

Se gli spettacoli siano peccato. Dice Alberto [Magno] che partecipare a spettacoli – sia che essi vengano ideati per allontanare la noia ed a consolazione della nostra mortalità, sia anche che contengano in sé una qualche utilità, per quanto vi si mescolino delle vanità (come cacce e cose del genere) – è cosa tollerabile quando si tratti di persone secolari e purché non vengano dati in periodo proibito o in luogo sacro. Tanto più, per questo, dovrà essere tollerato – come meno grave – l’assistervi. Non si tratta, dunque, di peccato mortale. Lo stesso Tommaso [d’Aquino] non dice che sia cosa puramente e semplicemente peccaminosa, ma in quanto spinge al male. Si potrà allora fare questa distinzione: o gli spettacoli rappresentano fatti pii (come l’adorazione dei Magi, la strage degli innocenti, la Passione di Cristo, l’Ascensione, la venuta dello Spirito Santo e simili) – ed è in sé cosa lecita tanto parteciparvi quanto assistervi, a patto che ogni vanità, del tipo di quelle che talvolta vi vengono inserite, sia tagliata via, specialmente e molto di più se i giovinetti che li allestiscono vi commettessero atti turpi –; o non sono di questo tipo: nel qual caso essi possono essere espressamente proibiti dalla legge (come i tornei, i duelli ecc. […]); se invece vengono rappresentati altri fatti vani e spassosi per concederci un divertimento, che tuttavia non sia in disonore della Chiesa o del clero o della religione, non sembra che sia peccato mortale né l’intervenirvi né l’assistervi, come far le maschere, i draghi, i re e simili; ugualmente guardare persone che danzano, corrono in palestra o altri giochi, in sé non sembra peccato mortale, sebbene sia una vanità e una perdita di tempo. Vi può, però, essere peccato mortale per accidente, a causa di qualche male che sopravviene o mala intenzione negli stessi, come se qualcuno fosse attirato dall’aspetto delle donne danzanti a concupirle[9].

 

Questo brano mostra evidentemente quanto Antonino avesse osservato le usanze spettacolari cittadine e si fosse interrogato sulla loro utilità o, al contrario, vanità, in relazione alle necessità della vita sociale, prendendole in considerazione una per una e dando risposte e spiegazioni adeguate alle diverse circostanze (come dicevo prima spettacoli differenti in relazione a precisi messaggi e ad altrettanto precisi destinatari). Se consideriamo che la Summa non era né una disposizione legislativa, come le Costituzioni sinodali che vedremo, né una raccolta di consigli morali, come quelli rivolti a Dianora Tornabuoni, ma una guida per i predicatori su come valutare e illustrare il settenario dei peccati ai fedeli, il valore della posizione dell’arcivescovo sulle arti sceniche assume proporzioni ancora maggiori, in quanto non rimane limitato alla sfera della sua opinione personale, ma si prospetta come una sentenza con la quale il clero cittadino sarà chiamato a misurarsi anche in futuro, quando si troverà costretto a prendere decisioni relative alla vita spettacolare della città, esattamente come lo stesso Antonino aveva fatto richiamando le auctoritates di Alberto Magno, e di Tommaso d’Aquino, ben consapevole che, sul piano dottrinario, per i posteri egli si sarebbe collocato come terza auctoritas al seguito dei due grandi teologi.

Proiettata sullo sfondo delle ripetute condanne emanate dai concilii e dai Padri della Chiesa che, dalla caduta dell’Impero Romano, avevano costantemente colpito l’esercizio delle arti performative, radicandosi nelle coscienze al punto che, ancora nel 1325, gli statuti fiorentini vietavano agli istrioni perfino di sostare nelle vicinanze del palazzo dei Signori, la posizione di Antonino appare, evidentemente, di assoluto ribaltamento: egli non solo non riteneva peccato assistere a spettacoli che non offendessero la Chiesa o la religione, ma addirittura approvava la messinscena di storie sacre e pie – che non a caso coincidono quasi tutte, negli esempi da lui riportati, con i soggetti di alcune delle rappresentazioni in uso a Firenze –, sempre a patto che l’operazione si svolgesse onestamente.

Sul piano politico-ecclesiastico, invece, l’arcivescovo intervenne sugli usi spettacolari cittadini con due Costituzioni sinodali. L’una, intesa a vietare qualsiasi forma di spettacolo durante la quaresima per non turbare il periodo di penitenza e di raccoglimento che essa richiedeva, stabiliva:

 

Con ciò sia cosa che ’l tempo sacratissimo della quaresima sia maximamente diputato ad penitentia e udire le sante prediche e uficii divini assiduamente, comandiamo a tutti e ciaschuno che non si faccia alchuna rapresentatione dal principio della quaresima per insino alla età di Pasqua di resurrexo[10].

 

L’altro intervento, rivolto alla regolamentazione delle feste patronali di San Giovanni e databile al 1453, ordinava:

 

Item con ciò sia cosa che a onorare la festa dil glorioso Baptista, ab anticho sia ordinato, e che ssi observi di continuo la matina della vigilia della sua santissima festa e natività, di fare sollempni processioni di tutti i cherici e religiosi della terra e di fuori vicini, con sollempne apparato di paramenti e reliquie di sancti, a inducere il popolo ad divotione; e da certo tempo in qua vi siano stato mescolato molte cose di vanità e mondani spettacoli che starebono male per carnasciale, non che nella processione; pertanto comandiamo sotto pena di scomunica, che fra i cherici e religiosi non vadino alcuno di compangnia o d’altra gente con alchuni artificii, o ordingni, o rapresentationi, o altri spettacoli con gente, ad piè o ad cavallo, acciò che la detta processione si possa fare più divotamente, e continuamento, e per la salute dell’anime e non perdictione d’esse. Altrimenti la processione non si permetterà che vada. E chi pur vuole fare rapresentatione, la faccia in altro luogo e tempo.[11]

 

Gli «artificii» cui il Pierozzi faceva riferimento in queste due Costituzioni erano gli edifizi di San Giovanni, delle piattaforme portate a spalla da facchini, sulle quali alcune confraternite e associazioni di fiorentini inscenavano episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sul tipo dei misteri ciclici in uso altrove in Europa[12]. Queste macchine, accompagnate da folte schiere di figuranti a piedi e a cavallo, erano inserite nella processione del clero, creando una confusione poco consona alla solennità richiesta dalla presenza delle reliquie. Erano state probabilmente introdotte circa una ventina di anni prima («da certo tempo in qua» dice Antonino: la prima attestazione a me nota, infatti, è quella di un corteo dei Magi nel San Giovanni del 1428), ma dovevano essere velocemente aumentate di numero, come risulta da diverse testimonianze. In particolare, voglio citare il breve stralcio di una lettera del camaldolese Agostino di Portico, recentemente pubblicata da Daniela Del Corno Branca, che fotografa l’esatta situazione della processione ecclesiastica criticata dalla Costituzione antoniniana. Si tratta dell’ultimo segmento della processione:

 

Di poi venne un altro edificio del Giudicio e stava Cristo in aria e di sotto erano molti sepolcri. Di subbito che sonò la tromba di ttutti uscirono fuore molta gente e così facea tutte quelle parole e atti che si scrivano, e fu cosa da piangere, ben che facesse ridare la brigata perché v’erano alcuni che non volevano entrare in Inferno e quivi fu grande battaglia. Di poi andavano gli giusti in Paradiso e San Piero apriva. Drieto venne tre re a cavallo molto ornati con gran gente, e con le reine molto ornate e avevano nuove forgie, e drieto loro venne uno edifitio che v’erano su tre re morti e uno romito che stava in una cella; e que’ morti parlarono ad vivi e convertironsi[13].

 

Anche solo da questo breve stralcio si può evincere quanto l’alternarsi di edifizi e di cortei di questo genere potesse provocare confusione nella processione delle reliquie. Ciò nonostante l’arcivescovo, pur avendo ritenuto necessario intervenire perentoriamente a riportare l’ordine e la dignità nel corteo del clero, non aveva proibito in assoluto di fare le rappresentazioni, ma si era limitato ad invitare i fiorentini a farle «in altro luogo e tempo», a testimonianza, ancora una volta, di quanto profondamente egli avesse capito l’importanza civica della celebrazione patronale, e avesse scelto la strada della mediazione e della collaborazione con le autorità cittadine, piuttosto che quella della drastica opposizione.

Non a caso l’intervento del Pierozzi ebbe effetto immediato: già dal 1454, infatti, l’organizzazione della festa fu riformata secondo le sue richieste, come registra l’umanista Matteo Palmieri nella sua Historia Florentina:

 

Per san Giovanni 1454 si mutò forma di festa, la quale era usata a farsi a dì 22 la monstra; a dì 23 la mattina la processione di compagnie, frati, preti e edifici; la sera l’offerte <de’ gonfaloni; e poi il dì di San Giovanni la mattina l’offerte>,[14] e el dì el palio. E riordinorsi in questo modo cioè: che a dì 21 si facesse la mostra. A dì 22 la mattina la processione di tutti gli edifici […][15].

 

Segue la descrizione di 22 elementi fra edifizi e gruppi a cavallo che illustravano la storia della redenzione umana dalla Creazione al Giudizio Universale.

Appare dunque evidente, anche da questa sintetica esposizione, che la profonda comprensione del Pierozzi per una società come quella fiorentina, fondata sulla cultura della partecipazione, per riprendere la felice espressione di Peter Howard[16], lo aveva indotto a cercare, in linea teorica, una via di mediazione fra la morale cattolica e le esigenze del vivere civile, che si era tradotta in una collaborazione concreta con le autorità e con le élites cittadine e aveva portato ad una concordata regolamentazione della cerimonialità pubblica.

 

Passiamo ora al secondo e ultimo punto: la sacra rappresentazione.

Rispetto al tenore degli interventi antoniniani in materia di spettacolo che abbiamo considerato finora, la sacra rappresentazione si pone, a mio avviso, come l’apice della riflessione dell’arcivescovo tanto sui sistemi della comunicazione del tempo quanto sulla loro efficacia nel raggiungere la sensibilità dei cittadini.

Come è ormai noto, il genere drammatico della sacra rappresentazione fu ‘inventato’ e messo a punto, nelle sue caratteristiche strutturali e di contenuto, negli stessi anni della regolamentazione delle compagnie di fanciulli sancita dalla Bolla di Eugenio IV del 1442, nella quale queste nuove confraternite, riservate ai giovanetti fiorentini, venivano poste sotto il controllo diretto dell’arcivescovo in carica. Nel 1444 gli statuti di una di queste, la Compagnia della Purificazione, protetta da Cosimo de’ Medici e allogata presso il convento di San Marco dove Antonino era priore, prevedevano esplicitamente che una rappresentazione sul soggetto della Purificazione della Vergine venisse recitata ogni anno per celebrare la ricorrenza eponima della confraternita, e i libri di spese confermano la regolarità con cui queste recite, e quelle di testi dedicati ad altri soggetti religiosi, fossero allestite dalla compagnia[17].

L’inserimento del teatro nelle attività di queste “scuole di virtù cristiane”, come le definiscono alcuni Statuti era conseguenza della riscoperta umanistica della pedagogia di Cicerone e di Quintiliano, secondo la quale la recitazione era il mezzo più adatto a favorire l’apprendimento dei messaggi educativi, sia perché allenava le facoltà mnemoniche dei giovani, sia, soprattutto, perché le tecniche della comunicazione teatrale si dimostravano più efficaci di altri media (in primis la predicazione e la pittura), nell’indurre quel meccanismo di immedesimazione degli attori nei personaggi sacri che potenziava le capacità di persuasione degli exempla recitati. Infatti il teatro fondeva insieme mezzi espressivi diversi (pittura, retorica, predicazione, letteratura, musica, gestica ecc.) conferendo loro un impatto emotivo enorme[18].

La partecipazione del Pierozzi all’ideazione di questo nuovo strumento pedagogico si deduce a mio avviso, oltre che da evidenze documentarie che ora ometto per brevità ma che segnalerò negli atti, da alcune sue osservazioni relative alle tecniche di costruzione retorica delle prediche al fine di renderne più efficace il messaggio. La Summa sottolinea, infatti, che la finalità primaria del sermone doveva essere quella di imprimersi (è la parola usata dallo stesso Antonino) nell’animo degli ascoltatori, perché ciò che è «impressum animo» difficilmente si dimentica[19]. A questo scopo il Pierozzi raccomandava una serie di espedienti che dovevano sollecitare la memoria dei destinatari: espedienti che avevano a che fare con l’ars memorativa di tradizione medievale, ma anche con la retorica classica.[20] Così veniva raccomandato l’uso degli exempla che, commuovendo, rendono più facile ricordare gli insegnamenti ricevuti; l’impiego occasionale della rima e del verso, la cui musicalità favorisce naturalmente la memorizzazione, e anche dell’iteratività numerica, in particolare proponendo schemi ternari, quaternari e settenari[21]. Inoltre, dato che il compito del predicatore è quello di convincere le persone a fare ciò che egli predica loro, per assolverlo efficacemente deve in primo luogo parlare chiaramente (“clare loqui”) per riuscire ad ammaestrare l’intelletto dell’uditorio e ad istruirlo; in secondo luogo deve parlare in modo da dilettare il pubblico così da smuoverne i sentimenti al punto da farsi ascoltare volentieri; in terzo luogo deve commuovere[22]. «Docere, delectare, flectere»: questo, dunque, doveva essere il compito della retorica omiletica secondo Sant’Antonino[23].

Ebbene, la sacra rappresentazione corrisponde a tutti questi requisiti non solo perché usa un linguaggio chiaro, perché diletta e commuove, e perché spinge ad amarne e ad emularne i contenuti, ma anche perché il coinvolgimento emotivo degli interpreti e degli spettatori sollecitato dalla recitazione di quei testi, e dunque dalla specificità comunicativa del mezzo teatrale, induce entrambi ad una profonda immedesimazione nelle vicende dei personaggi, predisponendoli ad una più profonda e duratura assimilazione dei contenuti educativi del testo. Sul piano strutturale gli ingredienti adoperati per ottenere questi risultati furono: la scelta dell'ottava endecasillaba, in quanto metro per eccellenza legato alle tecniche della comunicazione orale; la drammatizzazione di soggetti religiosi, agiografici o di exempla predicatorii; e la presenza di un prologo, detto "Annunzio", e di un epilogo, detto "Licenza", finalizzati a facilitare la memorizzazione del messaggio.

Sul piano dei contenuti, invece, fin dai primi testi recitati intorno al 1450 (le rappresentazioni del Dì del giudizio di Antonio Araldo e Feo Belcari, di Abramo e Isac ancora del Belcari, del Vitel sagginato di Piero di Mariano Muzi guardiano della compagnia della Purificazione, della Purificazione) appare evidente la volontà degli autori, tutti uomini personalmente legati al Pierozzi, di agire su un duplice livello: quello catechetico relativo alla memorizzazione del settenario dei peccati, delle principali preghiere (Confiteor, Pater noster, Ave Maria) e dei fondamenti della fede cattolica, e quello civile relativo alla denuncia dei comportamenti riprovevoli che ammorbavano la società fiorentina. Fra questi i più condannati erano: la sessualità (sodomia e prostituzione), il lassismo concesso ai giovani dalle famiglie (frequentazione delle taverne con la conseguente indulgenza ai peccati di gola, al gioco e, ovviamente, alla lussuria), e ogni forma di ipocrisia e di corruzione del vivere civile.

In positivo, invece, questi drammi affrontavano il problema dell’obbedienza alle autorità superiori nelle sue più sottili sfumature e con le implicazioni politiche che vi si possono leggere sotto metafora: l’obbedienza e la disobbedienza dell’uomo verso i Comandamenti, e dunque verso la legge di Dio; quelle del figliuol Prodigo e del fratello maggiore al loro padre; l’obbedienza di Abramo a Dio e di Isacco a suo padre. Inoltre, in molte di queste rappresentazioni l’associazione di giovani e fanciulli alle compagnie viene esplicitamente indicata come un antidoto efficace contro tali perversioni, a conferma di come la sacra rappresentazione costituisse proprio il nuovo strumento didattico ideato apposta per assolvere al progetto pedagogico confraternale.

Questo genere drammatico fu dunque il risultato della concorde progettazione, da parte dell’arcivescovo e delle autorità civili, dell’educazione delle future generazioni dei fiorentini nel segno della fusione fra i valori morali dell’educazione cristiana e quelli civili dell’ideale umanistico repubblicano che permeava il pensiero della classe dirigente: un’educazione, si badi bene, non solo riservata ai rampolli dell’aristocrazia, ma a tutti i giovani fiorentini, secondo un progetto di formazione di una coscienza civica del bene comune sentita dai cittadini a livello tanto individuale quanto collettivo.

Vorrei, ora, concludere con due osservazioni. In primo luogo, sottolineando la coerenza e la continuità degli interventi di Antonino sullo spettacolo fiorentino, sia sul piano teorico che su quello normativo, che testimoniano di una riflessione sistematica, e non casuale, sul teatro come mezzo di comunicazione. Essi, infatti, iniziarono dal concilio del 1439, quando, fresco della nomina a priore, egli ospitò nella sua chiesa di san Marco la Rappresentazione dell’Annunciazione, che propagandava la dottrina della Chiesa occidentale sul problema del Filioque, fino a concludersi con la riforma della festa patronale di San Giovanni del 1454 e con la riabilitazione del teatro come attività non peccaminosa nella Summa theologica. Un atteggiamento del genere non solo fu eccezionale per il Quattrocento, ma, se non mi inganno, bisognerà aspettare l’opera di San Carlo Borromeo prima di trovare un altro arcivescovo così insistentemente e attivamente coinvolto nel sistema della produzione spettacolare della sua città.

In secondo luogo vorrei evidenziare la validità del modello educativo proposto con la sacra rappresentazione e con la regolamentazione delle attività devozionali e pedagogiche delle compagnia di fanciulli: una validità che non solo è dimostrata dalla continuità, nel lungo periodo, cioè fino alla fine del Settecento quando vennero soppresse, dell’uso del teatro nelle compagnie giovanili fiorentine, ma anche dall’influenza che quel modello educativo esercitò fuori Firenze, informando i caratteri della pedagogia post-tridentina dalle compagnie di dottrina alle Congregazioni Oratorie di San Filippo Neri, ai collegi gesuitici, trasferendo così l’esperienza alimentata dall’opera di un vescovo illuminato come Antonino, dal livello locale della formazione del civis florentinus, alla dimensione europea dell’educazione del cattolico riformato.

 

 



[1] In «Rinascita», III (1940), pp. 105-116.

[2] R.C. Trexler, Famiglia e potere a Firenze nel Rinascimento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 79-163; Idem, Public Life in Renaissance Florence, New York and London, Academic Press, 1980, passim.

[3] N. Newbigin, The Word made Flesh. The "rappresentazioni" of Mysteries and Miracles in Fifteenth Century Florence, in Christianity and the Renaissance. Image and Religious Imagination in the Quattrocento, ed. by T. Verdon and J. Henderson, Actes of the Symposium held in Tallahassee and Florence (spring-summer 1985), New York, Syracuse U.P., 1990, pp. 361-375.

[4] I. Taddei, Associazioni giovanili fra tardo medioevo e prima età moderna: metamorfosi di una forma tradizionale e specificità del caso fiorentino, «Annali di storia moderna e contemporanea», 3, 1997, pp. 225-241; Eadem, Fanciulli e giovani. Crescere a Firenze nel Rinascimento, Firenze, Olschki, 2001.

[5] L. Polizzotto, Children of the Promise. The Confraternity of Purification and the Socialization of Youths in Florence. 1427-1785, Oxford, Oxford U.P., 2004.

[6] P. Ventrone, Per una morfologia della sacra rappresentazione fiorentina, in Teatro e culture della rappresentazione. Lo spettacolo in Italia nel Quattrocento, a cura di R. Guarino, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 195-225; Eadem, La sacra rappresentazione fiorentina: aspetti e problemi, in Esperienze dello spettacolo religioso nell'Europa del Quattrocento, Atti del XVI convegno del Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale (Roma, 17-21 giugno 1992), Roma, Torre di Orfeo, 1993, pp. 67-99; Eadem, La sacra rappresentazione fiorentina, ovvero la predicazione in forma di teatro, in Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI, Atti del seminario di studi organizzato dalla Scuola superiore di studi umanistici (Bologna 15-17 novembre 2001), Firenze, Olschki, 2003, pp. 255-280; Eadem, Politica e attualità nella sacra rappresentazione fiorentina del Quattrocento, «Annali di storia moderna e contemporanea», 14 (2008), pp. 319-348.

[7] Opera a ben vivere di Sant’Antonino dell’ordine dei predicatori, arcivescovo di Firenze, con prefazione del p. L. Ferretti, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1923, pp. 155-156.

[8] Il riferimento è, ovviamente, alle rappresentazioni dell’Ascensione, dell’Annunciazione e della Pentecoste, sulle quali si vedano almeno i documenti pubblicati da N. Newbigin, Feste d’Oltrarno. Plays in churches in fifteenth-century Florence, Firenze, Olschki, 1996, 2 voll, e P. Ventrone, The Influence of the Ars praedicandi on the Sacra rappresentazione in Fifteenth Century Florence, in Predication et Liturgie au Moyen Âge, Études reunites par N. Beriou et F. Morenzoni, Turnhout, Brepols, 2008, pp. 335-348; Eadem, La propaganda unionista negli spettacoli fiorentini per il Concilio del 1439, in La stella e la porpora. Il corteo di Benozzo e l'enigma del Virgilio Riccardiano, a cura di G. Lazzi e G. Wolf, Atti del convegno di studi (Firenze, 17 maggio 2007) Firenze, Polistampa, 2009, pp. 23-47.

[9] Sancti Antonini archiepiscopi florentini ordo predicatorum Summa theologica, a cura di I. Colosio O.P., Graz, Akademische Druck – u. Verlagsanstalt, 1959 (facsimile dell’edizione: Veronae, Typografia Seminarii, apud Augustinum Carattonium, 1740), pars II, tit. III, cap. VII, n. 5: «Spectacula an sint peccatum. Albertus dicit quod spectacula sive sint inventa tantum ad taedium removendum et solatium mortalitatis humanae, sive etiam sint talia quod habeant annexam utilitatem, quamvis immisceatur vanitas, ut venationes et huiusmodi, in personis saecularibus sunt toleranda exercitia eorum, dummodo non fiant tempore interdicto vel loco sacro. Ergo multo magis inspectio huiusmodi est toleranda, cum minus sit. Ergo non est mortale. Etiam Thomas supra non dicit simpliciter esse vitiosam, sed in quantum provocat ad malum. Posset sic distingui: aut spectacula sunt talia, quod sunt repraesentativa piarum rerum (ut Adoratio Magorum, Occisio Innocentium, Passio Christi, Ascensio, Missio Spiritus Sancti et huiusmodi) – et horum exercitia de se sunt licita, et similiter inspectio eorum: vana tamen, quae aliquando ibi miscentur, sunt resecanda, et multo magis si qua turpia committerentur a iuvenibus, qui talia praeparant –; aut non sunt talia, et tunc aut illa sunt expresse prohibita a iure (ut torneamenta et duella […]): si autem alia vana et solatiosa repraesententur ob solatium, quod tamen non sit in opprobrium Ecclesiae vel cleri vel religionis, de se non videtur mortale nec exercitatio nec aspectio, ut facere larvas, dracones, reges et huismodi; similiter aspicere chorizantes, saltantes, currentes in palestra vel aliis ludis de se non videtur mortale, quamvis vanitas sit et amissio temporis. Posset tamen ibi esse mortale per accidens, propter aliquod malum superveniens vel malam intentionem in huiusmodi, ut si quis ex aspectu mulierum chorizantium trahatur in concupiscentiam earum».

[10] [Antonino PIEROZZI], Costituzioni dell’arcivescovo di Firenze, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Antonori 18 (il testo è stato pubblicato da R. C. Trexler, The Episcopal Constitutions of Antoninus of Florence, in «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven», a. lix (1979), pp. 244-272: 265 (ora ripubblicato in IDEM, Church and Community 1200-1600. Studies in the history of Florence and new Spain, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 441-466).

[11] Ibidem.

[12] Sulla festa di San Giovanni rimando solo a P.Ventrone, La festa di San Giovanni: costruzione di un'identità civica fra rituale e spettacolo (secoli XIV-XVI), «Annali di Storia di Firenze», II (2007), pp. 49-76, con bibliografia degli studi precedenti.

[13] D. Delcorno Branca, Un camaldolese alla festa di S. Giovanni. La processione del Battista descritta da Agostino di Portico, «Lettere italiane», 1, 2003, pp. 3-25: 10-11.

[14] Fra parentesi uncinate inserisco le parole che (omesse dall’editore per salto du même au même) sono state reintegrate – sulla base del manoscritto dell’Historia florentina, il Magl. XXV 511 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – da N. Newbigin nell’Introduzione al Nuovo corpus di sacre rappresentazioni del Quattrocento, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1983, p. xxviiin.

[15] Matteo di Marco Palmieri, Historia florentina (1429-1474), a cura di G. Scaramella, Rerum Italicarum Scriptores, Città di Castello, Lapi, 1906, vol. xxvi, pp. 172-74, con lievi interventi nella punteggiatura e nella grafia.

[16] P.F. Howard, Beyond the written word. Preaching and theology in the Florence of archbishop Antoninus, 1427-1459, Firenze, Olschki, 1995.

[17] Polizzotto, Children of the Promise cit.

[18] Ventrone, Per una morfologia della sacra rappresentazione cit.; Eadem, La sacra rappresentazione fiorentina cit.

[19] Howard, Beyond the written word cit., p. 166.

[20] Oltre al classico F.A. Yates, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1979, per il rapporto fra ars memorativa e predicazione si vedano i lavori di L. Bolzoni, Oratoria e prediche, in Letteratura italiana, III. Le forme del testo, II. La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1041-1074: 1041-1053; Eadem, Teatralità e tecniche della memoria in Bernardino da Siena, «Intersezioni», IV, 1984, pp. 271-287; Eadem, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi, 2002.

[21] Howard, Beyond the written word cit., pp. 164-170.

[22] «Predicator, quia ex sua praedicatione debet qaerere homines inducere ad faciendum quod praedicat, ideo ut efficaciter praedicet debet clare loqui ut instruat intellectum auditoris et doceat. Secundo, sic debet loqui ut delectet auditorem, ut sic moveat affectum ut libenter audiat verbum. Tertio, debet sic loqui ut flectat, scilicet amando quae dicta sunt, velit ea implere. Et quum quis hoc facit industria artis quam docet rethorica, ut declarat Augustinus in 4 libro De doctrina Cristiana, ad honorem Dei et salutem animarum, bonum est et humana operatio seu lingua»: Sancti Antonini […] Summa Theologica cit., p. III, tit. XVIII, cap. III, n. 3.

[23] Howard, Beyond the written word cit., pp. 114-115.






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