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Claudio Carabba

Claudio Carabba, Ridendo, all’ombra del Duce

Data di pubblicazione su web 02/12/2009
parte della copertina dell'Almanacco Guanda

Curato da Ranieri Polese è uscito l’«Almanacco Guanda 2009» (quasi duecento pagine a 23 euro). I precedenti numeri erano stati dedicati a La musica che abbiamo attraversato nel 2005, a Come si cambia. 1989 – 2006: la metamorfosi italiana nel 2006, a Il complotto. Teoria, pratica, invenzione nel 2007, a Il romanzo della politica. La politica nel romanzo nel 2008. Questa volta il titolo, annunciato da una copertina che celebra il nostro imprescindibile leader carismatico, è Satyricon. La satira politica in Italia, e ospita scritti e vignette dei nostri più accreditati umoristi (o quasi) insieme a saggi di tipo storico e analitico. Da Altan a Bucchi, da Disegni a Dario Fo, da Forattini a Vincino, da Giannelli a Giusti, da Elle Kappa a Pericoli, da Vauro a Serra, da Staino allo stesso Polese, autore di una brillante prefazione al volume. Pubblichiamo, su gentile concessione dell’autore e dell’editore, il saggio che Claudio Carabba ha dedicato alle riviste umoristiche in epoca fascista.

 

«Un cretino può scrivere un saggio, ma non viceversa» (Marcello Marchesi).

Erano gli anni del Potere e del Consenso. Con una serie di slittamenti progressivi il governo fascista aveva preso il totale controllo dei giornali e della radio; il cinema, che pure veniva definito “l’arma più forte”, era usato con più discrezione. La formula ideologica per il grande schermo era semplice: propaganda fiera e ossessiva nei “cinegiornali Luce” e moderata libertà nelle storie di finzione e fantasia. Nella stampa l’ondivaga resistenza dei direttori di vecchia scuola liberale (si pensi agli Albertini del «Corriere della Sera») era stata domata, senza gravi difficoltà. Dunque l’informazione era sotto un controllo totale. Per parecchio tempo ne abbiamo saputo poco, nessuno aveva voglia di scavare in profondità nel passato assai prossimo. Così, dopo qualche interessante, ma un po’ reticente, viaggio dentro al fascismo, non privo di un vago senso di colpa (i libri-diario di Zangrandi, Piovene e Lajolo), la prima monumentale antologia che non lasciava spazio a dubbi e incertezze sulla qualità delle cronache e dei servizi (spesso doppi, per così dire), intitolata simbolicamente «Eia ,Eia, Eia, Alalà», la curò Oreste del Buono per la Feltrinelli nel 1971. Da allora, fra mille raccolte di “veline di stato” e dotte analisi testuali, neppure il più tenace revisionista ha messo in dubbio il grado zero della stampa italiana di quel periodo. Restano però maggiori incertezze e zone d’ombra (o magari di luce) sulla satira e il giornalismo umoristico. Fu soltanto comoda evasione o di tanto in tanto graffiò con delicatezza, sino al primo sangue del regime? Qui bisogna fare più attenzione, guardare nello specchietto retrovisore, sapendo che le immagini possono uscire deformate. Né risulterà inutile un istruttivo passo indietro.

La satira politica nacque con l’Italia unita, nella seconda metà dell’Ottocento. Gli specialisti ricordano ad esempio l’irriverente campagna di un infuriato Casimiro Teja contro la parsimonia soffocante e l’indigesta “tassa sul macinato” di Quintino Sella. E nel Novecento furono ancora più feroci le invettive disegnate contro Giolitti-Palamidone su «L’Asino». Ma già alla vigilia (o nel mezzo) della prima guerra mondiale, alcuni disegnatori di punta della scuola “socialista” (la coppia Podrecca- Galantara, detto in arte “Ratalanga”) diventano accesi interventisti; come capitò a Benito Mussolini del resto. Prima o poi, col fascismo avanzante, cedono e si allineano quasi tutti. Alberto Giannini ad esempio se ne era andato in esilio in Francia col suo combattivo «Becco Giallo» per continuare l’ironica opposizione, ma a un certo punto diventò un fascista convinto provocando lo sdegno di Gaetano Salvemini: «Era il più faceto della compagnia, finché non passò, armi e bagagli, nel campo dei fascisti, il più svergognato caso di voltafaccia che io abbia mai visto». Salvo sviste ed errori, in pochi seppero resistere: a suo modo Galantara che, dopo varie tribolazioni se la cavò collaborando (tanto per sopravvivere), senza il diritto di firma, al «Marc’Aurelio» delle prime annate (poi la censura bloccò anche questo rapporto anonimo ma riconoscibile per lo stile); e specialmente il coraggioso Giuseppe Scalarini che affrontò a muso duro le persecuzioni, sia nella bella età giolittiana, sia durante il fascismo, sino alla fine, del regime e della sua umana esistenza. Ma, come ormai sappiamo bene, non è che si difesero meglio i più alti intellettuali e gli illustri accademici.

I “redenti” furono più dei “resistenti”, capita spesso. Non per niente già il 26 agosto del 1943, sul «Corriere della Sera» a nuova dignità restituito dopo il lungo avvilimento da camicia nera, l’autorevole Francesco Flora (che in verità prima del fatale 25 luglio si era messo orgogliosamente in disparte ma non si era mai sbilanciato troppo contro la dittatura) si scatenò in una requisitoria priva di sconti: «Se molti avessero formato testuggine a resistere, la forza e l’intimidazione sarebbe stata sconfitta. Ma venne un tempo in cui anche l’umile coraggio di starsene da parte, rinunziando magari ai grandi giornali, alle cattedre universitarie, ad altri uffici, alla vita veramente comoda di coloro che predicavano la vita scomoda, fu appunto compatito come eccessivo zelo di moralisti. Chi vorrà trovare le ragioni di tanto scrivere snervato, viscido e aleatorio, le cerchi in quella decaduta dignità dello scrittore: nella rinunzia a pensare, a discutere idee e azioni, nella promessa, tacita o esplicita di adulare i potenti […]». E’ più o meno questo il quadro in cui nel decennio trenta cresce una nuova generazione di scrittori-disegnatori che viaggiano in acrobatico equilibrio fra umorismo surreale e timide puntate nel campo proibito della satira politica: di più, presumibilmente, non si poteva fare, senza essere eroi. Ed è su loro, su questi fantasisti da raccontino e vignetta, tipi strani che nel democratico dopoguerra seguirono varie piste e diversi mestieri (compresi il cinema e la narrativa) che il dibattito è ancora aperto, il giudizio diviso e sospeso. Non senza vecchi veleni e non sopiti rancori.

Alla fine degli anni Venti, spazzati via ««L’Asino» e il «Becco Giallo», anche la stampa umoristica è appiattita o svagata; si va dal vivace squadrismo del «420» al battutismo allegro e “piccante” del «Guerin meschino» o del «Travaso». Nel marzo del 1931 la nascita del «Marc’Aurelio», fondato a Roma da Oberdan Cotone col sostegno operativo di Vito De Bellis, è perciò un avvenimento di qualche rilevanza culturale. Se ne accorse anche il competente ministero fascista che già nel 1932 spinse Cotone, ritenuto troppo indipendente-irriverente, a dimettersi, e a vendere la proprietà della testata all’avvocato Alberto Lupo (più sicuro e allineato). La direzione passò al solido e tranquillo De Bellis, che restò a lungo stabile al suo posto di comando, addirittura nello stanco revival del dopoguerra. Il successo della rivista romana, che usciva con cadenza bisettimanale, fu notevole (si arrivò a 350.000 copie a numero) e indusse Angelo Rizzoli (“il Commenda”) a tentare di invadere il campo con «Il Bertoldo», che dopo un lungo travaglio (a cui partecipò attivamente Cesare Zavattini) uscì a Milano nel luglio del 1936. Nonostante la vivacità del nuovo concorrente, il «Marc’Aurelio» continuò a dominare nelle vendite, tanto che nel 1938 Rizzoli se lo comprò. Le testate non furono unificate, ma lo scambio dei collaboratori fu fecondo e continuo, sì che oggi si può parlare di un’unica scuola di allegri umoristi: uno squadrone che mescola i nomi di Steno e di Fellini, di Giovannino Mosca e di Carletto Manzoni, di Attalo e di Giaci Mondaini; non senza il rinforzo fondamentale di Giovannino Guareschi, che entrò nel gruppo de «Il Bertoldo» come caporedattore e uomo d’ordine ad avventura iniziata.

Fuori linea e fuori campo, scrivevano e giocavano alla loro maniera altri maestri dell’umorismo come Giuseppe Marotta e Achille Campanile. Molti di loro sono da tempo ben valutati dalla critica letteraria; su altri pesa ancora una sorta di diffidenza politica; e visto che tanti anni sono passati (quasi ottanta se si considera l’anno di fondazione del «Marc’Aurelio») il particolare sembra stravagante. Ma forse è solo la conferma che il fascismo, inteso come fenomeno storico legato a un breve ventennio, è ancora uno scheletro da sistemare con cura, senza chiuderlo in nessuno armadio. A rileggerle con attenzione, le collezioni dei due giornali, rivali e gemelli, sono brillanti e piene di invenzioni. Sicuramente parecchie cose erano proibite. Non solo gli affari dello Stato e dell’Impero, ma anche la vita sentimentale del Duce, su cui pure già fiorivano gloriose leggende orgogliose (della virilità del Capo, sono cose che capitano ciclicamente) e maliziose barzellette, era un argomento caldamente sconsigliato. Il massimo dell’irriverenza lo raggiunse semmai un giornalista-scrittore, non legato alla satira, come Curzio Malaparte con due versi secchi «spunta il sole, canta il gallo, Mussolini monta a cavallo», che evocavano altre furenti cavalcate. Ma di norma le belle donnine disegnate potevano essere accoppiate a disinvolti gagà, non a fieri gerarchi in divisa. Semmai l’unico ad essere di tanto in tanto sbeffeggiato era il re, Vittorio Emanuele III, facile a finire in caricatura, per la sua bassa altezza sovrastata nei disegni dal corpo monumentale del Duce.

Pur non essendo (non sentendosi) eroi, i migliori protagonisti dell’umorismo anni trenta ostentavano atteggiamenti scapigliati e disobbedienti, all’interno di aziende di solito ben ordinate (magari un tantino grigie) come la vecchia Rizzoli. Le memorie autobiografiche, buttate giù nel corso del tempo, che ricostruirono la fondazione di quei giornali, evocano un’atmosfera simpatica, quasi libera oserei affermare. Ad esempio Carlo Manzoni (il padre dell’irresistibile Signor Veneranda) scrisse pagine nostalgiche e travolgenti nell’introduzione al bel volume Gli anni verdi del Bertoldo, curato da Oreste del Buono e stampato dalla Rizzoli medesima nel 1964. Il più attivo protagonista della preparazione del «Il Bertoldo», voluto dal “Commenda”, e affettuosamente seguito da suo figlio Andrea, è Cesare Zavattini, convintissimo del progetto: «Faremo un giornale e la gente farà a pugni per comprarlo». Manca ancora il nome della testata (la prima scelta di Zavattini era il troppo involuto «Valà che vai ben») ma il clima nella sede centrale di piazza Carlo Erba è esaltante, con una febbrile campagna acquisti. Il più imprendibile è Giovanni Mosca, che «sguscia via dalle mani dell’editore come un pezzo di sapone» e firma contratti con diversi editori, come un calciatore troppo richiesto. Il più rassicurante è Guareschi, che pur ancora impegnato nel servizio militare (con il grado di sottotenente) aderisce subito all’idea e butta giù le prime proposte di rubrica, in attesa di arrivare a Milano come caporedattore. Il gruppo ruspante, refrattario alle regole e agli orari dell’ufficio, in effetti sembra aver bisogno di un uomo d’ordine. Racconta Manzoni: «Gli impiegati ci guardano con sgomento quando scendiamo a prendere il caffè durante le ore di lavoro. Bisogna rispettare l’orario. Un giorno io e Metz troviamo l’amministratore che ci sbarra il passo in cima alla rampa delle scale. Il signor Ferrazzuto tira fuori l’orologio dal taschino del panciotto: “Sono le dieci e un quarto” dice. “Appena le dieci e un quarto? - dice Metz – Allora andiamo a prendere un caffè». Volta le spalle all’amministratore e scende le scale. Io gli vado dietro […]».

Per spezzare il caos arriva finalmente il tenente di ferro, Giovannino Guareschi. Riprendiamo il racconto di Carletto Manzoni: «Il Commenda gli affida l’incarico di redattore-capo col compito di far rigare dritto la redazione, direttori compresi. Soprattutto far osservare l’orario e firmare l’orologio. Guareschi va a firmare l’orologio e invece della firma scrive “Culo”. Ma sul cartellino risulta in perfetto orario. Il Commenda rinuncia alla battaglia ma il signor Ferrazzuto ci guarda sempre con occhio severo e scuote la testa». Lo spirito libero (o comunque poco obbediente) dei redattori buffi, si rifletterà nel giornale finalmente pubblicato sin dal primo numero, con un dialogo rimasto celebre fra Bertoldo e un immaginario Granduca, abilmente giocato sugli stereotipi del linguaggio giornalistico, banale e inaccettabile sia quando racconta gli eventi di cronaca (un ciclone in Florida) sia quando affronta immaginati dibattiti parlamentari (“Com’è la seduta?” “Tumultuosa”. “E la foga dell’oratore?” “Travolgente”). Analoghe considerazioni si possono fare per il «Marc’Aurelio» di Steno e Fellini (tanto per citare due redattori molto famosi) anche se sul bisettimanale romano l’influenza della censura è più evidente grazie all’attenzione del prudente De Bellis, che ha un filo diretto col ministero. Eppure anche in quelle pagine non mancano articoli e vignette surrealmente fuori linea. Il problema, per noi posteri, è dare un giudizio complessivo su quel gruppo di stravaganti scrittori. Già a metà degli anni Settanta scoppiò ad esempio una fiammeggiante polemica fra ben preparati intellettuali schierati a sinistra.

Gli storici Ugo Alfassio Grimaldi e Gherardo Bozzetti in un saggio dedicato al tormentato ingresso in guerra dell’Italia (Dieci giugno 1940. Il giorno della follia, 1974) condannarono tutti senza concedere alibi: «‘Il Bertoldo’ era il giornale più intelligente d’Italia, più del ‘Corrierone’, del greve ‘Popolo d’Italia’, del fanatico ‘Regime fascista’, dell’immondo ‘Tevere’. Sotto la vernice intellettuale i giovani Mosca, Guareschi, Emmetizeta, erano incapaci di un gesto umano, di un qualsiasi impegno, di un rischio anche minimo; dotati di notevole intelligenza, la usarono cinicamente; e fu il cinismo, questa nefasta virtù, che trasmisero agli italiani. Niente fecero questi uomini intelligenti che certamente sapevano, capivano come andavano le cose, per arrestare i loro fratelli sull’orlo dell’abisso. Non seppero e non vollero aprire gli occhi a sé e agli altri». Oreste Del Buono, che proprio in quel periodo stava lanciando la nuova satira di sinistra su «Linus» difese invece con appassionata convinzione gli umoristi anni Trenta, in un veloce volumetto, C’è poco da ridere, emozionante “storia privata della satira italiana dall’«Asino» a «Linus»”. E prima di lui, anche Italo Calvino, parlando del giovane Fellini, aveva tessuto l’elogio dell’umorismo d’anteguerra, collegandolo al rinascimento del cinema italiano: «E’ l’apporto del giornale umoristico (forse più di quelli della letteratura, della cultura figurativa, della fotografia sofisticata, del giornalismo longanesiano) che fornisce al cinema italiano un tipo di comunicazione col pubblico già collaudato, come stilizzazione di figure e di racconto».

Detto che personalmente, anche come appassionato lettore fanciullo dei romanzi di Guareschi (Il destino si chiama Clotilde, ancor prima del “Mondo piccolo” di Don Camillo e Peppone), di Mosca (Non è ver che sia la morte più che Ricordi di scuola), di Marotta (Gli alunni del sole più che L’oro di Napoli), mi sento vicino alla posizione di Oreste Del Buono, presumo che per molti abbia pesato il percorso compiuto dopo la guerra: hanno convinto e commosso l’impegno neorealista di Zavattini, la poetica solitudine di Fellini o la filosofia spesso ontologica di Campanile. Mentre non è stato facile per chi era a sinistra, accettare la nostalgia tardo-monarchica di Mosca o l’aggressività anarchica e reazionaria di Guareschi, che è uno di quelli che pagò più duramente pegno alla fine della guerra mondiale, con la lunga prigionia nei campi tedeschi (è uno dei soldati che l’8 settembre dice di no agli ex alleati nazisti). Lo scoglio maggiore è «Il Candido», fondato proprio sulle ceneri de «Il Bertoldo» il 15 dicembre del 1945. Eppure se si scorre l’editoriale pubblicato sul numero 1, non si intuisce la futura militanza feroce. Il nuovo giornale, si poteva leggere in prima pagina, «non ha la pretesa di apportare importanti riforme alla morale o di dire una parola nuova nel campo politico. “Candido”, insomma non ha la pretesa di voler salvare a tutti costi l’Italia. Perché “Candido” è un giornale perfettamente inutile: va comprato e letto con estrema indifferenza perché lascia il tempo che trova e i governi che trova. Perciò leggetelo, non aggrava la situazione». E invece poi nessuno restò indifferente, la situazione si aggravò, l’antipatia si trasformò in rancore. Gli uomini qualunque (già in qualche modo inventati dal primo Guareschi alla fine del decennio trenta), che pure hanno valide ragioni per protestare, non riescono a formare un movimento politico-culturale coerente e ben motivato. I giornali umoristici che puntano sulla formula antica (svagate ironie contro i potenti, e signorine” belleforme” eroticamente disegnate accanto ad epiche “racchie” e grasse “vedovone”) non sono più popolari: tutti muoiono a stento. Quando arriva il ’68 , i ragazzi selvaggi della nuova ondata, cresciuti nelle riviste indipendenti («Re nudo», «Ca Balà» […]), e poi maturati nella grande stampa quotidiana-settimanale o nella già citata scuderia del rinnovato «Linus» in versione tascabile, saltano un paio di generazioni e citano Galantara e Scalarini come loro modelli ideali. E, un po’ più tardi, nella contestazione generale, come si diceva in quei giorni, ai monelli più beffardi, l’unica via di uscita possibile sembra la fuga nel giardino del Male, dove fra crudeli delizie, tutto può essere buttato via, senza titubanze e turbamenti di cuore.

Molti ora si sono ritirati o coltivano altre arti; ma qualcuno di questi autori (Altan e Staino ad esempio) è ancora in campo, con quotidiano sforzo. Come lettore cresciuto insieme a loro (e schierato dallo loro parte) ho però oggi la sensazione di avere esagerato, in certi periodi dell’esistenza (come gentiluomini durante i migliori anni della nostra vita, canterebbero i poeti), di aver sbagliato nel buttare via in blocco le invenzioni dei padri irriverenti e fuggitivi.

Resta forse il segreto rimpianto di aver peccato nel detestarli tanto.


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