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Italo Moscati

Italo Moscati, Hitchcock. Il laboratorio del brivido

Data di pubblicazione su web 27/10/2009
Kim Novak e Alfred Hitchcock

E’ in uscita il nuovo libro di Italo Moscati, Hitchcock - Il laboratorio del brivido, Roma, Ediesse – Eri. Il  libro, a quasi trent’anni dalla morte del grande regista, ne racconta la vita e la carriera, analizzandone il  lavoro e i  metodi creativi. Particolare attenzione è dedicata ai primi anni di un fecondo laboratorio espressivo che risulta, ancora oggi, originale e  vanamente imitato. Anticipiamo il primo capitolo. 

Sul set di Vertigo, in una foto, Hitchcock conversa con Kim Novak…traspare una relazione base: il regista parla e mostra qualcosa; la star lo sta ascoltando e forse sorride. Il regista dà forma a un fantasma. Non in modo materiale e violento come il suo mitico “antenato”, Pigmalione, che usava l’arte del mazzuolo e dello scalpello, ma come un mago dotato del potere di infondere della nuova vita in un attore, cosa che con Hitchcock avveniva - se si presta fede alle fonti - non senza accenti di crudeltà".

Victor I. Stoichita, L’effetto Pigmalione    

Alfred Hithcock, in là con gli anni, ad un certo punto della sua vita,  decise di  celebrare un funerale a se stesso, anzitempo. Perché no? Più o meno a tutti, specie fra  la gente dello spettacolo, capita d’ immaginare il momento del trapasso: affacciarsi dalla bara per vedere che effetto che fa. Si tratta di un gioco, ma  soprattutto di una faccenda seria. Il colpo di coda di un artista che , in nome di un imprescindibile narcisismo, sente il bisogno di mettere in scena, o almeno di fantasticare sulla dipartita e soprattutto sui momenti del congedo definitivo, per prepararsi e per verificare lo show definitivo. Un modo di spiare, con il pretesto del funerale, le reazioni degli spettatori. Nel racconto di quel giorno di pompe funebri non è detto che, provando la cerimonia, Alfred abbia resistito alla tentazioni di stendersi vestito nella bara foderata e di avere chiuso, sempre a titolo di prova, gli occhi e persino  di aver incrociato le mani sul petto. Si sa invece che la cura posta nella cerimonia, da parte del regista,  fu notevole e   commossa,  come se le esequie fossero dedicate ad un caro amico, se stesso, al quale destinare il massimo dell’impegno. Un gioco, il gioco del “doppio”, molto caro al regista. Per il funerale tutto fu scelto con l’aiuto di persone competenti - lo scenografo, l’arredatore, il  costumista - e la consulenza di amici prelati, accompagnati da chierichetti e sagrestani. Tutte persone pagate con generosità (non da Hitch) per garantire alla cerimonia il decoro degno di un regista fra i più famosi del mondo, un genio a cui non poteva che essere dedicato un funerale d’eccellenza. Come andò quello straordinario show, con l’illustre defunto in grado di controllare da vivo il suo stesso cadavere? E, soprattutto, qual era il vero scopo della sfarzosa cerimonia in piena Hollywood? Non anticipo nulla. La notizia è vera. Si  potranno avere maggiori informazioni al riguardo nel corso della lettura, si spera piacevole, di un libro che intende aggiungere senza pretese qualche tassello al grande mosaico dei tentativi di comprendere i segreti del grande maestro del cinema, a cominciare da quello ben noto proposto dal regista francese, François Truffaut. Il finto funerale di Hollywood era qualcosa di più di una semplice messa in scena, di una scherzosa trovata. Era il  modo per confermare in pubblico che si stava avvicinando il tempo del bilancio di carriera intensa, dai film dal muto al sonoro, lungo tre quarti del Novecento. Con un colore simbolo: il nero, o il noir, valido anche quando il cinema scoprì i colori? Nessuno, nella Hollywood degli anni Settanta, mentre la televisione portando via spettatori al cinema, avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe stata prodotta una serie di successo , Six Feet Under, storia di pompe funebri, anzi storie dell’ultimo viaggio a sei piedi sottoterra; che sarebbe stata esportata in tutto il mondo e avrebbe avuto successo. Ci si doveva arrivare. Il cinema aveva preparato, seminato la terra. Il regista Cesar A. Romero nel 1968 aveva realizzato il suo La notte dei morti viventi, il primo di una serie di film approdati fino ai giorni nostri. File di morti viventi o di zombies   sopravvissuti. Ma, prima ancora di Romero, la storia del cinema, aveva già imbandito i suoi schermi-tavoglie di morti e di nosferatu, i  “mai morti”.

CENA AL CIMITERO

Uno dei film più conosciuti tra cimiteri e obitori  risale al 1922 ed è Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, regista tedesco dell’espressionismo ammirato da Hitchcock.  Una pietanza diventata poi sempre più richiesta, al passo con i tempi e le esigenze del cliente-spettatore. Hitchcock può essere considerato in questo senso uno chef  che, più degli altri, ha interpretato il ruolo che si era scelto e ha cercato di servire il cliente con arguzia e fantasia. Un ruolo che il maestro prese molto sul serio. La dimostrazione di quanta importanza desse nel voler soddisfare il pubblico fu l’allestimento, direttamente curato dallo chef,  di una cena molto speciale una raffinata cucina a base dei seguenti piatti: crocchette di cadavere, tenere cozze alla morgue, omicidio fatto in casa; e altre delizie, come si potrà scoprire più avanti in queste pagine. Hitchcock, fuori e dentro il set, in  nome di una spettacolarizzazione della sua vita, ci dice con queste idee curiose, con queste trovate,  qualcosa d’altro, rispetto alla curiosità e al divertimento che il regista vuole suscitare. Non era un regista di messaggi, Hitchock, non lo era e non lo è. Chi ha provato a farlo, si è messo su un terreno scivoloso e ha portato lui e noi spettatori lontano dal suo lavoro e dalla sua vita. Che cosa cercava Hitchcock? Provo a dare una prima risposta partendo da una sua foto, scattata nella piena maturità. La foto lo ritrae all’aeroporto, mentre è fermo davanti alla scaletta di un aereo e non si capisce se sta per partire o è appena sceso. Ma non importa. Si lascia riprendere dai fotografi e verso di loro, come fosse una maschera, solleva una lente d’ingrandimento. Ad ingrandirsi è un suo occhio. Il suo occhio destro che ci appare a sinistra. Enorme. Mostruoso.  Penetrante, venato da ironia. Un occhio indagatore. Viene da chiedersi, di fronte all’immagine, ma quale tipo di indagini il regista svolgeva, e ci propone, nei suoi film? Che cosa ci vuole mostrare e farci conoscere? Non ho una risposta valida per sempre. Ma, stimolato e incantato dal suo stile e dalla abilità dei suoi racconti, ho la percezione che dai fili creativi del suo lavoro artistico, intrecciati con la sua storia personale e con la storia, possa affiorare una  profondità non del tutto esplorata. Pochi, come Hitchcock, sono riusciti a far convivere gli spettri dell’Europa del secolo in cui è nato, fine Ottocento, con la voglia di stare al centro delle cose create, a quelle che non si vedono e a quelli invisibili. A cominciare dalle persone, tutte le persone, dai demoni della criminalità alle loro vittime, dagli uomini infelici per amore alle donne che travolgono con un fascino misterioso gli uni e gli altri. Hitchcock è rimasto fedele ad un atteggiamento, ad una vena d’autore che possono essere accostati  alla figura, se non alla lezione, di un suo quasi contemporaneo: lo scrittore Gilbert K. Chesterton, anche a lui inglese, anche lui sensibile ad una visione della esistenza divisa fra il giorno della allegria, della ebbrezza e dell’ironia, e la notte dei delitti, dei complotti,  lunghe notti senza fine. Pietro Citati, in un suo breve, acuto saggio su Chesterton, pubblicato  da “La Repubblica” del 20 luglio 2009, sostiene che lo scrittore, autore delle avventure del prete-investigatore Padre Brown, era abituato ai capricci degli angeli (le vittime, gli innocenti) e nello stesso tempo aveva rispetto per Satana e per i suoi messaggeri. Trovava il male molto più divertente del bene, sebbene non lo avesse mai confidato al suo confessore. E si identificava con i grandi malvagi, secondo l’arte di Fedor Dostoevskij, progettando con la fantasia violenze e crimini. Sono parole e suggestioni che si possono trasferire su Hitchcock, le sue opere, la sua arte in bilico, quella del Novecento e fino ai giorni nostri.  

TRAVESTIMENTI

Funerali, cene. Finti. Hitchcock amava la finzione. Nella vita e per se stesso. Tra le sue storie personali, un’altra ha un’importanza straordinaria ed è il gusto per il travestimento, per il travestirsi. Capitò a Hitchcock in persona e in un’occasione, ma ignoriamo se ce fossero state altre in privato, ci furono i testimoni, compresa la moglie Alma, compagna di un’intera esistenza, la prima donna di Alfred e l’ultima al capezzale del regista il giorno della morte, la vera morte. Inaspettato, ad una festa, comparve Hitchcock in abiti femminili. Un episodio ai  più ignoto. Si trattava di qualcosa di simile al funerale e alla cena, finzioni, gioco, divertissement  di un regista, stanco delle fatiche del set e convinto di  dominarle a piacimento, facendone una parodia? L’idea che mi sono fatto riguarda  sia il gusto del regista di andare e venire dal set alla vita, e viceversa, sia il suo essere un nuovo Pigmalione. Victor I. Stoichita, che ha studiato la storia dei simulacri da Ovidio proprio a Hitchcock, propone un esempio che ha il valore di fare chiarezza, partendo dalla formazione del cast per uno dei film più interessanti, e memorabili, del regista, Vertigo - La donna che visse due volte. Vediamolo da vicino. Siamo al momento in cui  Hitch deve scegliere  la protagonista del film. Lui ha creato il  doppio  personaggio di Madeleine/Judy per una sua prediletta: Grace Kelly, che lascia il cinema e preferisce sposare il principe di Monaco. Per il ruolo viene contattata Vera Miles, che rimane incinta. Ed ecco che viene convocata una terza attrice:  Kim Novak, quasi sconosciuta. Hitchcock la sceglie ma subito la vuole rifare. Per il regista era davvero tutta da “rifare”: i suoi capelli erano castani e Hitch li  volle biondi; le sopracciglia erano sottili e diventarono folte; in breve, la volle “altra”. Fu un faticoso adattamento per recitare nel ruolo di  un personaggio che dovrà essere un “doppio”per motivi imposti dalla vicenda da raccontare. Nel film, dopo la trasformazione dell’attrice ottenuta da Hitchcock, il protagonista maschile, un investigatore interpretato da James Stewart, pretenderà di creare il “doppio”della donna che ha amato ed è morta, Madeleine, attraverso i cambiamenti nel trucco, negli abiti, nei gesti di Judy, la stessa Kim Novak, una donna che ha incontrato, una commessa che gli ricorda Madeleine. James Stewart è sul set un secondo Pigmalione, che lavora sul corpo e sulla psicologia di Kim Novak, applicando il disegno del personaggio già predisposto dal vero Pigmalione, Hitchcock. Un teorema di “doppi” fuori e dentro il film, prima del ciak e dopo i ciak. Si tratta di un profondo riadattamento del mito originario di  Pigmalione, creato da Ovidio e compreso nelle Metamorfosi. In questo affascinante testo, lo scultore scolpisce la statua di una donna  perché deluso dalle donne; e quindi, plasmando il corpo, s’innamora della statua. Chiede  alla dea Venere gli faccia incontrare una donna bella e dolce, come quella che ha scolpito. Pigmalione torna a casa, tocca la statua e si accorge che nella pietra pulsano le vene, che la bocca è una vera bocca, calda, appassionata. Venere lo ha  ascoltato.  Nel film, le trasformazioni seguono un tragitto diverso, fra la morte e le minacce di morte che accompagnano la vicenda, e le speranze di vita, di possibilità di non guardare oltre la morte. L’ “effetto”  Pigmalione è un effetto di morte, ma è nello stesso tempo un effetto di resurrezione, di circolazione di energie. La trasformazione  accompagna il desiderio di esistere. Attraverso il “doppio”  passa la realizzazione di questo rinnovato desiderio di vivere. Attraverso l’immaginazione che non rompe con la realtà e anzi ne ricava i suoi infiniti racconti. Oltre, al di là di questa prospettiva, c’è la Realtà Virtuale, ma è altra cosa.

Hitchcock è l’artista che ricorda e rilancia la posta in gioco:  raccontare significa scommettere nella forza segreta di quel che si vede e di ciò che si nasconde. La forza del “doppio” come rinascita, come energia. Il cinema e gli spettatori, la mitologia del “doppio” continua, intreccia e si moltiplica.   


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