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Italo Moscati

Italo Moscati, Dylan Dog e le “beatitudini” dell’avanguardia

Data di pubblicazione su web 23/01/2009
Carmelo Bene

Questo saggio di Italo Moscati apparirà prossimamente nel volume collettaneo Memorie dalle rovine. Il teatro di ricerca a Roma negli anni Sessanta e Settanta, a cura del Dipartimento arti e scienze dello spettacolo dell’Università di Roma La Sapienza. Ringraziamo l’autore per avercelo anticipato.

 

Come spero che molti sappiano, Dylan Dog è il personaggio dei fumetti creato da Tiziano Sclavi, disegnatore e scrittore appartato e silenzioso, che cominciò la sua attività di “indagatore dell’incubo” nel 1986 ed ebbe subito un grande successo. Tanto che Umberto Eco, sempre pronto a cogliere aspetti promettenti e curiosi nel grande mondo dei mass media, scrisse queste precise, impegnative parole in un libro intitolato Dylan Dog, incubi e sentimenti - Un dialogo di Umberto Eco e Tiziano Sclavi (Edizioni Euresis, Milano 1990): «Posso leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog senza annoiarmi». Eco leggerebbe oggi le avventure di Dylan Dog con uguale profitto? La domanda è destinata a restare senza risposta. Devo dire subito perché ho cominciato citando l’“indagatore dell’incubo”. Dylan Dog, al solo ricordare il nome, suggeriva un neanche tanto sottile sentore di lezzi o profumi cimiteriali. Sclavi amava per il suo personaggio i paesaggi della morte e delle tombe. Il ricordarlo, a distanza di tempo, associa questo esempio solitario di “horror” italiano (Dario Argento con i suoi film stava e sta sullo sfondo) alle buffe maschere e atmosfere di Halloween, la festa esportata in tutto l’Occidente con zucche vuote e scheletri che brindano con la Coca Cola.

Accade che quando sento o debbo raccontare quel che conosco e penso della avanguardia teatrale italiana, romana (la più nota) e non, sento arrivare purtroppo alle narici quell’odore di morte e di defunti, ossa spolpate dal tempo, memorie esaurite nelle celebrazioni funebri ad immediata memoria. Ne spiegherò, tenterò, di spiegarne le ragioni. Per un lungo periodo, dall’inizio degli anni Sessanta fino agli sgoccioli degli anni Ottanta, mi sono interessato, appassionato, divertito, persino commosso con l’avanguardia, anzi con le avanguardie perché ci furono quella americana (il Living Theatre prima di tanti altri gruppi o singoli artisti), quella polacca (con Jerzy Grotowski e Kantor), quella inglese, francese, tedesca, i cui spettacoli ed esperienze si videro ai Festival di Nancy, Amburgo, Caracas, a Londra, Parigi, Berlino, la stessa New York. Fatti, personaggi, rappresentazioni, performances, fantasiose stravaganze, straordinarie invenzioni, potenti romanticismi e provocazioni che provai a raccontare in una serie di documentari televisivi fra cui A New York! A New York! A New York! del 1978 trasmesso lo stesso anno da Rai2 , in un libro La miseria creativa (Cappelli Editore, Bologna, 1978), in trasmissioni radio e in centinaia di articoli e critiche pubblicati dai giornali, da prestigiosi settimanali, da importanti riviste di teatro.

Mi trovai insieme a molti altri sullo stesso pianerottolo del tempo. Generazioni che avevano dai diciassette ai trent’anni, giovani interessati non tanto al teatro o al cinema quanto a tutto quanto le arti potessero dare di novità e soprattutto di passione, compresa la passione più irresistibile che non è solo quella del cuore e dei sentimenti ma quella delle idee, delle rivolte, dei pensieri romantici, tra cui il pensiero più romantico e imperioso: la rivoluzione, qualcosa che ha il sapore di una parola più forte di una droga, utopia fra ragione e sogno. Parola e percorsi diversi, tutti in partenza da un senso di esigenza insopprimibile che si trasforma spesso in sogno e talvolta in incubo. L’esigenza di essere diversi e, poi, di essere diversi tra i diversi, nella tensione verso il futuro, verso la giustizia sociale, verso la città fatta da uomini per altri uomini, verso una felicità che non fu mai scritta, se non nel desiderio della felicità stessa. Tenendo conto di tutto questo, che rappresentava un grumo di esigenze e bisogni nutriti da contraddizioni, ecco il racconto delle “memorie dalle cantine” che riaffiora.

Le cantine erano i teatrini, più spesso locali-localacci-localini umidi e scomodissimi che sorgevano come funghi nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta. Queste cantine erano i cantucci che nascevano sulla scia di Carmelo Bene, ex allievo dell’Accademia d’arte drammatica da cui era fuggito dopo brevissima frequentazione. Ricordo, già a metà degli anni Sessanta, una botola in vicolo del Divino Amore, nei pressi di piazza Fontanella Borghese, dove Carmelo era approdato dopo essere andato ramingo da piccoli a piccolissimi teatri. Ero fra un pubblico il cui numero si poteva contare sulle dita ed era interessato, molto partecipe e subito convinto, un pubblico di fan. Carmelo non era una rock star, anzi, eppure era circondato da una ammirazione che cominciò presto ad assomigliare a un culto. Nello stesso periodo furoreggiava a Roma il Teatrino D’Origlia-Palmi con relativa compagnia di attori che agiva a pochi metri dal Vaticano, sala di proprietà di una parrocchia. La ditta dal doppio cognome dava spettacoli che conquistarono Alberto Arbasino e altri personaggi dell’intellettualità romana o approdata nella capitale come Arbasino. L’autore di Fratelli d’Italia (Feltrinelli, Milano, 1963), libro-ritratto di un’Italia stralunata dal miracolo economico della fine degli anni Cinquanta, era tra i fondatori con Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti, tutta gente del Nord, del famoso Gruppo ’63, gruppo nato per sprovincializzarsi e sprovincializzare la cultura made in Italy (erano allora tutti sedotti dall’America da dove inviava messaggi-libri Furio Colombo anche lui parte del Gruppo). Arbasino fu, insieme a Ennio Flaiano, scrittore e sceneggiatore di Federico Fellini, uno degli scopritori di Carmelo Bene, il quale si giovò di un’attenzione che proiettava su lui e il suo teatro un cono di luce fatto di snobismo intellettuale, di un pizzico di mondanità e di gusto elitario, oltre che d’ironia.

Fu un’attenzione esagerata? Questa attenzione esprimeva il desiderio di un teatro nuovo e originale? La risposta, pure a distanza di molti anni, non è facile. Non c’è ancora uno studio serio che abbia saputo analizzare il lavoro di Carmelo Bene fino in fondo, le sue qualità e soprattutto la sua influenza. Meglio non fidarsi dei libri in circolazione su lui e sulla sua opera: troppo immersi nella pentola dell’entusiasmo e della magia. In una leggenda. Carmelo faceva a suo talento magie sceniche ma, per capirle meglio, bisognerebbe mettersi o rimettersi a ripensare da capo una vicenda artistica che è stata creata dallo stesso Carmelo, talento magico e concreto, come una sorta di gioco, di rabbie e di prodigi, e che è stato accolto solo “personaggio”, come star di quel mondo appartato che è ed era il teatro in Italia. Acriticamente. Carmelo rovesciava i testi classici da Shakespeare a Pinocchio, reinventava e inventava un passato teatrale che esisteva grazie alla sua fantasia e alla sua abilità di attore-regista, di voce-corpo. Ma Carmelo era anche, e forse soprattutto, uno straordinario propagandista di se stesso e del suo lavoro. Esemplare il suo comportamento verso la critica. La adorava e la contestava. La insultava e la blandiva. Voleva i critici in teatro e alle conferenze stampa, poi li riempiva di contumelie e li metteva alla porta. Una “tecnica” di comunicazione irresistibile, che andava sempre a segno. Così come Carmelo insultava il pubblico disponibile a farsi insultare, curioso, masochista, grato della sfida, eccitandolo con le sue provocazioni. Purtroppo, Carmelo resta, ai nostri giorni, ai nostri occhi, prigioniero di uno schematismo rigido di cui sono responsabili coloro che ne parlano, raccontano la sua vita, rovistano tra i documenti.

Da una parte, lo si evoca, quando lo si fa, sulla base di flash di ricordi sempre più labili riguardo le effervescenti o rissose cronache delle sue imprese fuori dal palcoscenico; dall’altro, lo si celebra fermandosi sulla soglia del suo lavoro di attore, regista, autore fra teatro, cinema, tv, rimandando per insensibilità o incapacità la svolta decisiva, lo scavo da fare, con puntiglio e competenza. Lo si celebra con enfasi compiaciuta, accreditandolo di una figura che non gli si addice e non lo spiega, soprattutto non illumina i suoi percorsi creativi: l’Eroe di un maledettismo che può fare ancora notizia, la sola notizia su di lui. Lo si celebra talvolta con fastidio, perché le sue opere non hanno inciso realmente in profondità e vengono, di regola sono, assimilate alle stravaganze di una stagione di avanguardismi generosi ma confusi. Carmelo viene presentato sempre come il reuccio della Roma dei cantucci sperimentali, ruolo, chiamiamolo così, che lo stesso Carmelo rifiutava con sdegno.

Ma allarghiamo la prospettiva. Roma non era sola a far ricerca con i suoi molteplici e sgangherati cantucci, paradiso peraltro di vivaci proposte creative e di audaci prove di fantasia. Era però, e lo è stata fino agli Ottanta, la vera capitale della ricerca, nonostante la nascita e quindi il diffondersi a Milano, Torino, Napoli e Palermo di gruppi e di iniziative ispirate dalle suggestioni romane (che non sono mai state un modello vero e proprio). A Roma si faceva teatro con intensità e alla brava, si andava a caccia di sensazioni e di protagonisti inediti nelle pieghe di una dolce vita che si era estinta. Non c’era un solido teatro stabile romano che verrà solo nel 1965 e vivrà stentatamente al Teatro Argentina, mentre erano ben più forti gli Stabili di Milano, Genova e Torino, con il Piccolo di Milano di Giorgio Strehler e di Paolo Grassi a fare da motore di questo tipo di istituzioni fin dal 1947. Milano aveva il Piccolo e una rete di teatri privati e aperti alle compagnie di giro con le ditte di attori e attrici famosi; aveva le case editrici di testi teatrali, qualche scuola di recitazione, un pubblico abituato a frequentare le sale. Il teatro di ricerca nascerà non spontaneamente ma come una impresa guidata da un desiderio di contrapposizione a istituzioni pubbliche (il Piccolo) o private che stavano nell’ambito della tradizione (le commedie leggere, i drammi di Pirandello, i Goldoni più graditi) o di un riformismo importato (il Piccolo che guardava alla Francia e alla Germania, al Teatro Popolare di Parigi o al Berliner Ensemble di Berlino Est).

A fare da punto di riferimento milanese ci fu la rivista “Sipario” diretta da Valentino Bompiani, editore di una casa che porta ancora il suo nome, e di cui era caporedattore un giovane critico che conosceva Carmelo ed era curioso del nuovo, della ricerca: Franco Quadri. Grazie a lui e alla sua attenzione-passione per quanto si verificava a New York, nell’off Broadway e nell’off off, passava con continuità sulla rivista la speranzosa aspettativa soprattutto dei giovani verso il teatro sperimentale e le avanguardie americane che crescevano di continuo, sia pure all’ombra, e contro, le istituzioni teatrali vigenti all’epoca, il cosiddetto “teatro ufficiale”, compagnie di giro e Stabili. Sull’onda delle news, delle inchieste e delle interviste di “Sipario” arrivò il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Un vero e proprio ciclone nel piccolo mondo del teatro. Una sorpresa. Il Living: l’utopia a teatro, l’anarchia, la bellezza, il corpo, la musica, le luci, la denuncia. Tutto quanto faceva nuova l’avanguardia. Nuova perché l’avanguardia aveva la sua età. Compiva, proprio negli anni Sessanta cinquant’anni. Mezzo secolo. Data di nascita il 1909. Filippo Tommaso Marinetti pubblicò allora il manifesto del Futurismo e sul suo esempio germinarono altri movimenti, uno dopo l’altro, dal Cubismo al Surrealismo. Un terremoto. Un terremoto però nascosto o seminascosto. Un terremoto per specialisti, per addetti ai lavori,e poi più tardi per tutti, per il pubblico che ha preso e ripreso a provare interesse, ad amare le avanguardie. Scosse che però trovavano una motivazione nella cultura e nell’arte del Novecento, in quelle che verranno chiamate “avanguardie storiche” con correnti, artisti, opere che sono entrati nei musei e li hanno sconvolti. Queste avanguardie sconvolsero il modo di concepire, fare, vedere le arti visive, proprio negli anni in cui il cinema, arte del presente vissuto, accompagnava l’andare dei tempi, delle esigenze, dei gusti rigenerati. E senza di esse non sarebbero entrati in azione ovunque, in Europa o nell’America di New York, gli sperimentatori per un teatro nuovo.

Uno degli storici che ha riflettuto su questo punto è l’autore di Il secolo breve, Eric J. Hobsbawn (Rizzoli, Milano, 1995), il quale sottolinea quanto le avanguardie artistiche fossero radicate nel terreno rivoluzionario dell’Europa centrale e orientale. Se in Italia il Futurismo aderì alla cosiddetta rivoluzione fascista, in Unione Sovietica scelse il comunismo con Vladimir Majakovskij ma ben presto si dissolse inghiottito dal Costruttivismo di marca sovietica, meno dirompente, più disposto a collaborare. Una contraddizione percorreva sia le rivoluzioni fascista e nazionalsocialista (il Nazismo che prese ispirazione e forza anche grazie all’alleanza col Fascismo), come scrive Hobsbawn: «Il miglior vino dell’arte sembrava nascere sulle pendici striate di lava dei vulcani delle dittature. Ciò dipendeva in parte dal fatto che le autorità dei regimi rivoluzionari diedero maggior riconoscimento ufficiale, cioè un appoggio materiale, agli artisti rivoluzionari di quanto non avessero fatto i regimi conservatori che essi avevano rimpiazzato, anche se i capi politici rivoluzionari non mostrarono alcun entusiasmo per le avanguardie […], Lunacarskij, ‘commissario del popolo all’educazione’ in Unione Sovietica, incoraggiò l’avanguardia ma il gusto artistico di Lenin era piuttosto convenzionale».

Sappiamo come sono andate le cose. Le avanguardie, contestando il passato, vengono accolte e protette dal potere che promette rivoluzioni. Una volta, conquistato il comando, il potere si dimentica dell’arte e del servizio che le ha richiesto. A tempo. La storia non si ripete ma, cambiando, suggerisce analogie. Utili. Quando il teatro di ricerca, ovvero delle cantine o dei cantucci, fa i primi passi a Roma e in Italia, guarda alle avanguardie storiche compromesse con i poteri e finite nei musei, la situazione politica, in nome dell’antifascismo, ha dimenticato o cancellato il Futurismo, le avanguardie non interessano il potere. Il potere è caratterizzato dal dominio della Democrazia Cristiana. Per quanto riguarda la politica nel campo culturale, l’eredità di una presenza dello stato è quella del fascismo, con un forte accentramento dei centri di produzione e di distribuzione nella capitale. Come si sa, durante il fascismo nascono Istituto Luce, Centro Sperimentale, Cinecittà per quanto riguarda il cinema; nel teatro il centro di diramazione è l’Accademia di Arte Drammatica in cui si formano gli attori (ad esempio Vittorio Gassman per citare un nome famoso) e i registi. Un sistema che funziona a raggi verso il paese, raggi che partono regolarmente dalla capitale e che nel dopoguerra, e ancora a lungo, influenza e influenzerà la cultura, la produzione e la distribuzione, con esiti validi sotto vari aspetti, dalla qualità all’allargamento del pubblico.

La Democrazia Cristiana, partito di maggioranza, ha un atteggiamento che diventa subito chiaro nella politica culturale. Non pensa al cinema che, grazie ai registi e agli sceneggiatori del Neorealismo, diventa un territorio che ha come punto di riferimento la sinistra, sia comunista che socialista. La Dc si dedica e si dedicherà, finché ne potrà disporre (metà anni Settanta) prima alla radio e poi alla tv  mediante il monopolio Rai, destinato a finire all’inizio degli anni Ottanta grazie alle televisioni Mediaset e alle altre tv commerciali e poi satellitari. Alla Dc il teatro interessa poco o nulla. Le compagnie di giro private, con gli attori creati in gran parte dall’Accademia romana, a poco a poco vedranno ridursi spazi e non favoriranno nuovi autori, gli autori si chiuderanno nel revival dei classici, il triangolo Shakespeare-Goldoni-Pirandello. Sopravvivranno. Vivranno a lungo, come si è detto, i teatri stabili, nati sulla scia del successo del Piccolo di Milano e dello Stabile di Genova: in tutto ne entreranno in attività una decina fra morti risorti e nuovamente morti; otterranno molte sovvenzioni attraverso la politica, e dalla politica riceveranno richieste e persone da mettere in carica nelle direzioni. Un’avventura o disavventura che continua. Nel silenzio e nella disattenzione generale. Ma una domanda cominciò a circolare negli anni Settanta: i teatri stabili sopravvivono, sopravvivranno?

Se lo chiese un libro intitolato Teatro di regime (Mazzotta, Milano,1976) a cura di Quadri, con vari interventi, tra cui uno del sottoscritto. Il libro raccoglieva uno sforzo collettivo per capire la situazione e metterla a confronto con quella della avanguardia che stava conquistando a poco a poco posizioni, fra discussioni, polemiche, dibattiti avvelenati o di fondazione (sulle orme de Convegno di Ivrea del 1967), tournée del Living e di altri gruppi stranieri che passavano al Festival di Spoleto o negli spazi dell’Unione Culturale di Torino o a Firenze e a Bologna. Roma divenne il punto di riferimento, di passaggio e di promozione di questo traffico che raccoglieva pubblico e consensi al punto da cominciare a trovare sensibilità presso i partiti. Tutti i partiti, anche se la Dc fra essi risultava essere il più blando, obbligato quasi ad agire per non farsi superare dai partiti, specie quelli di sinistra, nel momento in cui si cominciò a parlare di aiuti e di sovvenzioni dello Stato attraverso il Ministero dello Spettacolo. Si andava formando una piccola torta che lieviterà. La rivoluzione soft dell’ avanguardia o neoavanguardia, o della ricerca, chiamava dunque interessi politici. Il teatro di ricerca a Roma, denominato Scuola Romana secondo la definizione di un critico particolarmente attivo, Giuseppe Bartolucci, con esperienze dirigenziali al Teatro Stabile di Torino, era il perno di un sistema nato alternativo che aspirava a fare e anche a sistemarsi.

Da Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Perla Peragallo al “teatro-immagine” di Simone Carella del Beat ’72, Memè Perlini e Giancarlo Nanni, alle prime proposte di Carlo Cecchi e di tanti altri, ognuno per conto proprio o per provvisorie tangenzialità, affiorava un intreccio composito di intenzioni e appunto di ricerche. Carmelo pescava nel melodramma e nei sottofondi della cultura pagana, popolaresca del suo Sud, quello pugliese; Leo guardava alle suggestioni dell’India e ai fantasmi di un altro Sud, la Campania, il repertorio della vecchia Napoli e di Eduardo; Giancarlo Nanni tornava ai surrealisti, alle rivisitazioni dell’arte irruente, alternativa, beffarda ma non troppo. Intorno ad essi una miriade di personalità e di gruppi (tra cui il fiorentino Carrozzone di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi) che vivevano una o due stagioni e poi sparivano, piccoli e medi festival che si moltiplicavano, registi che creavano le basi per una lunga durata, Giancarlo Sepe la sua Comunità). Un’anagrafe che tra nascite e decessi mostrava una impetuosa vitalità. Roma città aperta per teatranti di varie provenienze che trovavano un buco per esibirsi, piccoli e medi impresari che cominciavano ad organizzare il piccolo e medio mercato delle sovvenzioni e degli incassi.

Roma era città aperta, una città aperta ovviamente rispetto a quella raccontata da Roberto Rossellini, la Roma del 1944 in attesa della Liberazione. Era la Roma del dopoguerra con molta voglia di vivere, con un cinema seminato dai neorealisti (una breve e intensa stagione), con artisti che arrivavano per Cinecittà e per i teatri (il “ragazzo” Piero Tosi, il grande costumista e scenografo, che seguiva Luchino Visconti per fare Bellissima con Anna Magnani). Subito dopo, la Roma felliniana de La dolce vita  e di Cleopatra – la leggendaria e flebile Hollywood sul Tevere –, dei divi che lasciavano scandaletti, gossip e foto nelle trattorie. Un crocevia che accelerava gli arrivi. Proprio nel periodo del “ teatro di ricerca”, così come lo abbiamo decritto, cinema e teatro s’incaricavano di portare dall’estero massicce iniezioni di novità e di stimoli. Soprattutto intorno al 1968, l’anno della contestazione studentesca, approdarono i giovani o meno giovani dell’avanguardia, da Jean-Luc Godard a Glauber Rocha, mentre Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci si mescolavano a loro. Era una folla di talenti a caccia di altri talenti. Roma sembrava il territorio giusto. La promessa di una “dolce vita”, che tanto dolce non era, visti gli scontri con la polizia, le censure o i timori delle censure, i desideri di insultare un pubblico ritenuto incapace di capire, si trasferiva e creava anzi un humus che non era mai esistito e che non esisterà più.

Le memorie che discendono dalla realtà di Roma come la interpreto, sono memorie eccitate che hanno trasmesso e trasmettono uno strano avvertimento finora non troppo indagato. Se è vero che le rivoluzioni autoritarie del Novecento hanno dapprima aiutato e poi sfruttato e tradito le avanguardie storiche, ci si può domandare a questi punto che cosa ci sia alla base della storia delle avanguardie confluite a Roma dall’Europa e dal mondo. Da inviato ai festival internazionali posso dire che le componenti di questa storia breve e intensa erano numerose, vivaci e felicemente contraddittorie nei rapporti col potere o compromesse con le utopie sociali (i sogni delle rivoluzioni) o esistenziali (il sogno di ebbrezze e di energie senza fine). Stava arrivando una rivoluzione invisibile o meglio molto visibile e comunque irresistibile per diventare invisibile e impadronirsi di ciò che voleva, dalle persone alle istituzioni, dalle arti alla comunicazione. Le parole di Pasolini – la rivoluzione che omologa e s’insinua in modo subdolo senza ostacoli nelle menti e nelle coscienze – possiedono ancora una loro forza d’urto, ma se vengono messe in relazione, come faceva lo stesso Pasolini, con un tempo delle “lucciole”, tempo della nostalgia e del rimpianto, ecco che si rivelano al di sotto di quanto è accaduto e sta accadendo. Se Pasolini poteva parlare di potenza rivoluzionaria della tradizione, ci si accorgeva che questa potenza, questa tradizione erano solo fantasmi suggestivi o linguaggi o forme destinati a restare nei musei, e non altrove.

Le avanguardie anni Sessanta e Settanta capivano che stava arrivando uno tsunami, un liquido di messaggi pubblicitari e tv, di comportamenti in cui il naufragio era inevitabile, e così è stato. La “tradizione del nuovo” – le avanguardie storiche – era matrice di modelli suggestivi ma ormai leggeri rispetto alla storia che arrivava, assurti ad una monumentalità diventata inutilizzabile; serviva come sponda, come lontana ispirazione, come remoto luogo delle rivisitazioni. A Roma, più che altrove, quel crocevia creativo che era sembrato vorticoso e destinato a durare oggi ci appare dissolto. Eppure varrebbe la pena di interrogarsi a fondo per capire se – come si può sospettare – quel crocevia sia stato solo il prodotto di una vitalità dovuta alla distrazione dei poteri e della cultura (quella in particolare che si sedeva a Via Veneto), o se sia servito a qualcosa magari, al di là dell’aver increspato le acque in superficie. Una fotografia della realtà teatrale è possibile. Il cosiddetto “teatro ufficiale” – compagnie di giro, stabili nazionali, altre tipi di stabilità regionale o cittadina o paesana – esiste, ma è un avanzo dei tempi andati. Può raccogliere spettatori, e lo fa attraverso l’immissione sulle scene di attori che escono dai piccoli schermi televisivi o di autori che si ispirano ai copioni del cinema di Hollywood e del suo musical (basta andare a verificare nei programmi quotidiani che pubblicano i giornali), ma la sensazione di un vuoto, della mancanza di idee capaci anche di rigenerare testi del passato, di una fragilità artistica complessiva, permane e si rafforza.

Ieri il “teatro ufficiale” era forte grazie ai registi e agli attori (la fase della cosiddetta “dittatura” dei registi da Strehler a Ronconi, o la “resistenza” degli attori di valore da Romolo Valli a Valeria Moriconi). Questa forza, pur messa a dura prova dal cambiamento incompreso degli spettatori e pur attanagliata da una precarietà più stabile degli Stabili, riusciva malamente a reggere, ma reggeva, in una situazione ancora indenne dalla massiccia invasione degli schermi televisivi e dei suoi modelli. Questa forza aveva trovato una contrapposizione nel teatro di ricerca, nel nuovo antagonismo che partiva dai teatranti ma anche da un pubblico che voleva senza sapere cosa e come proposte capaci di interpretare ciò che lo stesso pubblico non sapeva di chiedere, di desiderare. Che cosa è accaduto dallo scontro all’assenza di scontro? È accaduto che il “teatro di ricerca” ha fatto riflettere sulla figura dell’autore, e l’ha pressoché eliminata, continuando – ma sempre meno – a rifugiarsi nel rilancio dei classici; si è imposto con la “scrittura scenica” dimostrando che il teatro e lo spettacolo sulla scena devono tenere conto dei vari aspetti della rappresentazione (dalle immagini all’uso degli spazi, dalla recitazione alla regia) e devono integrarli; infine, ha proposto la duttilità dei mezzi teatrali fra i media e l’uso che i mezzi stessi possono fare senza annullarsi nei media.

Il “teatro di ricerca” ha visto registi uscire dalla sua porta, come Giorgio Barberio Corsetti o Mario Martone, per andare a dirigere la Biennale di Venezia, gli Stabili di Roma e Torino. Incidono nel vecchio corpo stabile degli Stabili? Ci provano, spesso con determinazione. Ci riescono? Il “teatro di ricerca” insiste e forse resiste con registi Pippo di Marca, Valentino Orfeo, Nanni, e pochi altri. Altri sono in larghe e lunghe zone d’ombra: Mario Ricci, Memè Perlini, Manuela Kusterman, e non solo per motivi d’età. Hanno perso senso le etichette: neoavanguardia, nuovo teatro, teatro performativo, teatri alternativi, antiteatro… E lo hanno perso, ogni senso, nel periodo in cui nel teatro accadeva quel che stava accadendo nelle arti visive, ad esempio per quanto riguarda la transavanguardia: l’invenzione di scuole o correnti o movimenti tenuti in vita il più delle volte dalla etichettatura. Ci si rifà alle etichette solo per distinguere meglio, a colpo d’orecchio, uno spettacolo da un altro, uno spettacolo rappresentato in un teatrino (le cantine o i cantucci sono in genere adibiti a pub o ristorantini, e non solo a Trastevere) o le sale tradizionali dei centri storici. La critica, esaurita la capacità di etichettare, langue. I suoi nomi sono sempre gli stessi, pensionati che giustamente tentano di arginare la noia della lettura dei giornali ai giardinetti scrivendo articoli noiosi per le rubriche di cui dispongono e di cui neanche i direttori dei giornali (quelli che non hanno eliminato le rubriche) ricordano l’esistenza.

Alcuni dei critici vicini all’avanguardia delle cantine o dei cantucci si sono confusi, diciamo così, nei rapporti con il potere. Quando il “teatro di ricerca” tra gli anni Settanta e Ottanta aveva ancora un significato ed era ancora importante, e valido, nonostante i primi segni di sofferenza, questi critici sopravvissuti e immobili hanno trasformato questo teatro che aveva bisogno di libertà. Lo hanno trasformato pezzo per pezzo in un rigido schieramento con un’altrettanto rigida richiesta di militanza non solo artistica: o pro o contro “l’avanguardia” (si usava ancora con nostalgia questa parola ormai esausta). Un partito. Con aderenti o “traditori”. Nello stile delle sopravvivenze di un remotissimo abuso della ideologia di una sinistra bocciata dalla storia. Questo abuso ha avuto conseguenze pratiche. In circa venti-venticinque anni, il “teatro di ricerca” ha avuto sovvenzioni dal ministero dello spettacolo e dagli enti pubblici. Somme quasi mai ingenti, rispetto a quelle destinate agli Stabili o alle compagnie private più protette, ma capaci di stipendiare e poi di pensionare la “ricerca” assimilandola alle clientele artistiche e culturali. Soldi non per promuovere ma in molti casi per mantenere esistenze teatrali peraltro fragili fino a finanziarne la conservazione, l’inutilità.

C’è odore di cimiterialità in giro. Si torna all’inizio. Ai fumetti e alle atmosfere di Dylan Dog, anticipatrici di un certo clima di resa e di disfacimento di realtà come il “teatro di ricerca”. Le avanguardie muoiono per fortuna. Non possono essere condannate a esistere dalle macchine che attivano cuore e nervi. Ce ne saranno delle altre di avanguardie. Ma non nasceranno dalla polvere e dalla cenere di quello “storiche” o di quelle, più vicine a noi, a due passi da qui, che aspirano a essere storiche e non lo sono o non lo sono più. Quello che continuo, continuiamo, a chiamare “teatro di ricerca” ha trovato forza non solo in sé ma soprattutto nella forza del nemico da battere: il “teatro ufficiale”. La necessità di fare pesi e contrapporsi esiste. Ma dov’è il nemico? E se fosse in quel potere diffuso che protegge, assimila, garantisce e tutela? Domande. Paradossi. Carmelo, tu che amavi il teatro, che volevi il successo a tuo modo, che non ti dispiaceva – anzi, e per fortuna – il guadagno, che ti facevi cambiare il sangue nelle vene per rigenerarti, e ce l’hai fatta… tu, Carmelo, cosa suggerisci?

Ci sono troppe sedute spiritiche in giro. Il “teatro di ricerca” ha bisogno di desideri e di sogni, e soprattutto di idee appunto “di ricerca”. Aggiungo un dato di cronaca. Ho deciso di smettere con la critica teatrale del 1986, l’anno in cui veniva alla luce Dylan Dog. Non sopportavo più il teatro né ufficiale né di ricerca così come si stava trasformando. Non avevo ancora letto Hobsbawm. Sentivo però quel che sentivano le sue narici. Ora è tempo di “beatitudini”, memorie, rimembranze: ritorno al Beat ’72, piccolo territorio della ricerca dal 1964, casa per un certo tempo di Carmelo e di Simone Carella, luogo di ricordi generazionali e di imprese mai banali. Ex beatitudini.






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