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Carla Bino

Carla Bino, Dal trionfo al pianto

Data di pubblicazione su web 13/12/2008
Dal trionfo al pianto. Immagine di copertina

La verità dell’incarnazione ha lacerato la verosimiglianza dell’imitazione,
l’avvenimento della carne ha lacerato l’aspetto ideale del corpo.
Ma quale è questo avvenimento?
È la morte, la morte che il dio cristiano esige per la sua stessa incarnazione.
[…] L’incarnazione esige di aprire l’imitazione.
[…] Aprire l’imitazione, non vuol dire escludere la somiglianza,
ma pensare e far lavorare la somiglianza come un dramma
e non come il semplice effetto riuscito di una tecnica mimetica [1].

A Cerveno, il piccolo paese dirimpetto a quello in cui sono cresciuta, ogni dieci anni viene messa in scena una colossale passione vivente – la Santa Crus - che impegna pressoché tutti gli abitanti e li tiene occupati per mesi nella preparazione di apparati, costumi, oggetti, tecnica e prove. È una tradizione centenaria che probabilmente è collegata alla realizzazione di un singolare Sacro Monte, scolpito tra il XVII e XVIII secolo, una ‘scala santa’ ai fianchi della quale si aprono tredici cappelle con le stazioni della Via crucis e alla cui sommità si trova il Sepolcro, la quattordicesima stazione. Chi ha l’occasione di visitare il santuario e di assistere alla decennale rappresentazione non può che cogliere lo stretto rapporto che li lega: noterà che i volti foggiati nel legno delle sculture settecentesche assomigliano in modo stupefacente a quelli degli attori in carne e ossa, quasi a lasciar pensare che il maestro e gli aiutanti della sua ‘bottega’ abbiano preso come modello dell’opera la gente del posto, forse gli avi stessi di quanti, ancora oggi, vivono lì. Su questa somiglianza viene giocata tanta parte della messa in scena, puntando su una traduzione nella carne dell’immagine, cioè sulla riproduzione di quei quadri fissi e passati in azioni che accadono nel presente. La comunità si identifica con le sue cappelle e con la sua Santa Crus a tal punto che quanti partecipano alla rappresentazione ‘assumono’ anche nella vita quotidiana il nome del ruolo che interpretano spesso tramandandolo di generazione in generazione, divenendo cioè il Gesù, la Madonna, la Maddalena, Longino, Disma e via dicendo. Questa sorta di meccanismo ‘immedesimativo’ diviene fortissimo durante la messa in scena, cui generalmente assistono migliaia di persone, e raggiunge il punto di maggiore intensità ovviamente nel momento della crocefissione, eseguita su un’altura molto suggestiva con tanto di ladroni urlanti, di Romani a cavallo, di donne in lacrime e di vocio della folla (vera) in subbuglio. Nell’istante della morte, dopo che Cristo ha emesso il suo ultimo grido, la ‘tradizione’ vuole che il cielo si rannuvoli e si metta a piovere. Il senso di realtà, garantisco, è fortissimo ed è la chiave di tutto. Si ha l’impressione di assistere a qualcosa che accade davvero. Si prova decisamente il desiderio di mandare via gli aguzzini, di soccorrere il condannato, di piangere con sua madre. Alla fine ci si ritrova tristi e si sta insieme sulla strada del ritorno da quel Golgota alpino.

Quello che è chiaro è che non si è semplicemente assistito a uno spettacolo – seppur popolare - e che non lo si può né vedere né giudicare con le categorie critiche che appartengono al teatro in senso moderno. Indubbiamente chi vi cercasse uno stile o un intento estetico rimarrebbe deluso, perché quello non è certamente ciò a cui tende. È altrettanto chiaro, però, che non si è partecipato a una celebrazione liturgica, anche solo per il fatto che tutto è gestito dai laici fuori dalla chiesa e che, nonostante sia presente, il clero è da sempre in contrasto con l’organizzazione della rappresentazione.

A cosa si è assistito, dunque? Cos’è quella sensazione di presenza e di realtà che si è provata? Perché quel forte coinvolgimento emotivo?

Quando, nel 2002, partecipai all’ultima edizione della Santa Crus stavo raccogliendo e studiando un discreto numero di codici provenienti dal nord Italia appartenuti a confraternite di disciplini, con l’intenzione di occuparmi della drammaturgia laudistica di passione e di come essa, tra XIV e XV secolo, veniva tradotta in azione. Mi interessava capire quale fosse l’ordine del racconto, se esistesse una griglia comune entro la quale gli episodi venivano collocati e se, dunque, ci fosse una ‘struttura’ precisamente identificabile. Ero stimolata, in questo, dai molti paralleli che la critica storica aveva individuato tra lauda e rappresentazione, artistica e drammatica, in primo luogo dalle riflessioni di Mario Apollonio sui concetti di ‘coro’ e sulla dimensione ‘teatrica’ della parola [2] e da quelle di Hans Belting e David Freedberg sulla funzione e il potere delle immagini della passione [3].

Da subito avevo notato che le laude, così come le preghiere, le meditazioni e gli uffici previsti per il tempo quaresimale e ancor più per la settimana santa erano incentrati su due elementi irrinunciabili (che ritornavano anche nella coeva raffigurazione artistica, pittorica e scultorea), ossia la puntale e realistica descrizione delle violenze perpetrate su Cristo e il pianto inconsolabile di sua Madre. Questi due aspetti si univano in una drammaturgia che ricostruiva il percorso della passione attraverso gli occhi di Maria e da questa prospettiva restituiva l’immagine della carne piagata del Figlio, la quale, oltre che vista, era sentita come dolorosa. Davanti a questo nuovo racconto che veniva ‘agito’ in modi diversi, cantato in privato durante la flagellazione comune o in pubblico al venerdì santo o, più tardi, messo in scena con attori e costumi, i fedeli dovevano provare un sentimento di profondo coinvolgimento emotivo e un senso di partecipazione così forte - quasi fisicamente esperita – da essere turbati e contemporaneamente indotti a una risposta concreta di compassione. Non era una cerimonia liturgica e non era uno spettacolo: si trattava di una ‘drammaturgia della pietà’ per un ‘teatro della misericordia’ che rendeva presente qui e ora il ricordo di quello che era accaduto rendendolo accessibile, trasformandolo in un’esperienza.

Sennonché tanto la descrizione vivida del corpo massacrato, quanto l’accento sulla condivisione materna della pena non fanno parte del racconto evangelico della passione che, omettendo del tutto il dolore della Vergine, si limita a riferire i fatti occorsi in quelle ore senza indugiare sui dettagli di quanto accade, senza mai parlare di ferite e di sangue [4], addirittura senza dire in che modo fu messo in croce: crucifixerunt, è quanto sappiamo [5]. Per tutto l’alto medioevo la tradizione esegetica neotestamentaria commenta l’evento della passione, crocefissione e morte di Cristo con sobrietà retorica e semmai con poche aggiunte tratte dall’Antico Testamento (unica fonte autorevole), onde dimostrare quanto quello sia il momento culminante della storia della salvezza, ossia il compimento delle Scritture. Al contrario, tanto l’ampliamento della narrazione passionista quanto il realismo delle rappresentazioni artistiche altro non sarebbero che espressioni di quella devozione per l’umanità del Signore che, a partire dal IX secolo, pone sempre di più l’attenzione sulla carne sofferente del Dio-Uomo facendone il cuore della spiritualità dell’Occidente cristiano, sino a divenire il centro di una visione affettiva e imitativa che da sant’Anselmo in poi, permea la preghiera, la liturgia, la letteratura per tradursi in una rinnovata concezione delle relazioni tra gli uomini [6].

A questa «estetica dell’incarnazione» [7] andrebbero rimandate, dunque, anche le istanze del teatro passionista, la sua stessa raison d’être, il suo nascere tardo e fiorire tra i laici e il suo essere finalizzato al coinvolgimento simpatetico dello spettatore. La presenza di Maria ai piedi della croce sembra iscriversi perfettamente in questo quadro e, anzi, esserne la migliore espressione, poiché porta all’interno della passione «l’umanità, una umanità anche violentemente carica di passioni non divine come il risentimento e che disegna plasticamente […] una madre fortemente impregnata di contemporaneità, che si offre come punto di congiunzione tra il passato e l’atemporale della rappresentazione evangelica […] e l’oggi e il qui di una condizione umana vissuta concretamente nella sua contingenza» [8]. Luigi Allegri si riferiva qui al più antico dei drammi di passione quello di Montecassino, ma il suo discorso, andando oltre, giungeva alla svolta confraternale e individuava nella potenza drammatica della Madre la nascita di una nuova drammaturgia e, poi, di un nuovo teatro [9]. Già Karl Young aveva visto nella sequenza latina del planctus mariano un nucleo germinativo, intuendo l’importanza del vuoto lasciato nella narrazione evangelica e ritenendolo quasi un ‘varco’ per passare dalla liturgia al dramma [10]. Gli studi sul teatro sacro italiano condotti sin dalla fine del XIX secolo da D’Ancona [11] e Monaci [12], più tardi quelli di De Bartholomaeis [13] e Toschi [14]e da ultimo la monografia di Sandro Sticca sul planctus mariano[15] hanno reso evidente che il dolore della Vergine per la condanna e la morte del Figlio costituisce uno degli snodi centrali e più interessanti nello studio della rappresentazione della passione nel medioevo, soprattutto in Italia. La stessa centralità alla figura di Maria compatiens viene riconosciuta dagli studi sulla storia della spiritualità medievale: tra di essi, il recente saggio di Rachel Fulton sulla devozione all’umanità paziente di Cristo dedica un’ampia sezione a discutere come la relazione ‘parentale’ perfetta, quella materna, determini un cambiamento radicale della percezione della sofferenza del Signore e, di conseguenza, il mutamento della sua restituzione letteraria. Attraverso un’ampia disanima delle fonti teologiche dei secoli centrali del medioevo, la Fulton traccia un percorso originale e individua una prospettiva dalle ricadute interessanti per lo studio sul dramma sacro – di cui non si occupa – poiché ponendo una distinzione tra passione e compassione stimola a indagare la specificità di diversi impianti drammaturgici, connettendo forme e funzioni [16].

Il presente lavoro ha dunque preso avvio principalmente da quel ‘pianger la passione’ caratteristico del tardo medioevo e tratto specifico della produzione laudistica italiana e si è posto alcuni interrogativi circa i presupposti teologici e spirituali, le matrici letterarie e poetiche, il fine cui esso tendeva. Per tentare una riposta che motivasse la ‘rivoluzione drammaturgica delle lacrime’ è stato necessario vedere come era stato declinato il racconto passionista nei secoli precedenti e quali fossero le sue traduzioni rituali, letterarie, eucologiche e figurative; l’indagine, allora, ha dovuto intrecciare la storia del pensiero e della spiritualità medievale con lo studio delle forme e delle funzioni della rappresentazione.

Su questo secondo fronte l’orizzonte principale è costituito dalle riflessioni che la teatrologia ha svolto nell’ultimo cinquantennio a proposito del dramma sacro alto medievale. Michal Kobialka ad apertura del suo lavoro sulle «representational practices» di quell’antico periodo [17] ha messo in evidenza le più recenti linee di ricerca del nuovo medievalismo europeo, sostenendo che i due elementi di maggior rilievo sono da un lato la ridiscussione del corpus delle fonti per la storia del teatro e del dramma, nel quale vanno inclusi oltre ai testi scritti anche i «physical events»; dall’altro una lettura che tenga conto di un fruttuoso scambio interdisciplinare, attingendo in modo particolare alla storia del pensiero, della liturgia, della devozione e dell’arte, e poi alla teologia, all’antropologia, alla semiologia. In questo senso gli anni Sessanta del XX secolo sembrano essere decisivi; da allora in poi gli studiosi sono divisi in due distinti e incompatibili periodi che non possono essere conciliati per via delle radicali differenze metodologiche. All’approccio filologico o linguistico che legge il dramma medievale principalmente come un genere letterario (proprio di studiosi come Chambers [18], Young, Cohen [19]) si oppone l’analisi fenomenologica che studia azioni e contesti (come ad esempio fanno Hardison [20], Wickham [21], Kolve [22], Berger [23]). Si tratta di due sguardi contrapposti che originano da diversi punti di vista e delineano due distinte idee del teatro e del dramma medievali: entrambi dipendono tanto dal metodo quanto dall’oggetto della ricerca. È soprattutto l’uscita del volume collettaneo The Theatre of the Medieval Europe nel 1991 [24] ad aprire il fronte della ricerca internazionale, considerando il dramma medievale più come una performance che come un testo letterario. Su queste nuove basi gli studiosi hanno cercato di tracciare un’immagine complessa delle ‘attività mimetiche’ che caratterizzarono il medioevo, interrogandosi sul significato della rappresentazione tra liturgia e dramma.

Tuttavia il nuovo approccio deve continuamente avere a che fare tanto con le definizioni di ‘teatro’ e ‘dramma’ quanto con le categorie di lettura e la distinzione delle fonti in contesti e ‘generi’ introdotte in particolare dagli studi di Chambers nel 1903 e di Young trent’anni dopo e poi ‘tràdite’ agli studiosi delle generazioni successive. Questa prima impostazione della ricerca – che ha il grande merito di aver reso disponibile alla comunità scientifica una mole si fonti pressoché insuperata - ordinava i documenti secondo un’impostazione essenzialmente evoluzionista, cioè dalle forme più semplici alle più complesse, anche a scapito del rispetto cronologico. Con l’intento di assemblare nella loro forma autentica le composizioni drammatiche che erano usate nella Chiesa dell’Occidente cristiano all’interno delle proprie pratiche rituali, entrambi gli studiosi andavano alla ricerca delle origini del teatro religioso, fissando termini di nascita e testi capitali, e inoltre, ponendo l’assunto della derivazione del teatro dalla liturgia [25].

La teoria evoluzionista è stata programmaticamente contestata e rifiutata da Hardison Jr. [26], il quale, seguendo soprattutto teorie antropologiche, ha posto in evidenza le connessioni tra rito e dramma cristiano, sostenendo che i riti religiosi possono essere intesi come il dramma dell’antico medioevo. La messa, allora, è letta come un dramma in due atti con ‘ruoli’ definiti e con una ‘trama’ basata sul piano di redenzione attuato dalla vita, morte e resurrezione di Cristo. E cosi anche la liturgia pasquale, nella quale Hardison ritrova la medesima struttura, la medesima associazione storica e il medesimo portato emotivo: ciò che cambia è ‘solo’ il tempo che se nella messa è assoluto, nelle cerimonie pasquali è ciclico. Ne consegue che il dramma liturgico è una modalità di rappresentazione che conserva una relazione vitale con il rito e non l’esito di un cambiamento casuale determinato da un istinto mimetico.

Quello delle origini del dramma sacro è stato uno dei temi chiave per gli storici del teatro che ne hanno indagato sia i rapporti con il mondo classico e pagano (come ad esempio i recenti studi di Catherine Dunn, che ha lavorato sulle omologie tra le rappresentazioni della vita dei santi e le antiche strutture rappresentative romane [27], e di Jody Enders, che ritrova nella retorica classica la radice del dramma medievale [28]) che quelli con la liturgia.

Su questa linea si pone il lavoro di Rainer Warning che sottolineando «l’assolutezza del dramma moderno, cioè la scissione tra la situazione interna del dramma e quella esterna dello spettatore», la distingue dal «come se» del dramma religioso che non istituisce una vera e propria finzione ma rimane «sempre una forma di celebrazione rituale» nella quale «la situazione interna e quella esterna coincidono». Il dramma religioso, dunque, pur non essendo «autonomo nel senso di una finzione in sé conclusa recitata davanti ad un pubblico», lo è però «nel senso di una esecuzione drammatico-rituale istituzionalmente a sé stante. Questa sua autonomia rituale segna una bella distanza da quel rito istituzionalizzato della Chiesa da cui ebbe origine»[29]. Anche Campell ritiene che la questione basilare sia il rapporto tra Chiesa e teatro medievale e che per comprendere la forma e la funzione del dramma liturgico sia necessario analizzare il contesto delle pratiche rituali nelle quali è inserito [30]. Su questa premessa non bisognerà porre l’assunto di una semplice e naturale evoluzione dal rito, ma considerare invece la specificità di ciascun dramma all’interno del proprio contesto liturgico, senza schemi preordinati, ricercandone la singola funzione [31].

Drumbl ha spostato l’attenzione rivolta al teatro medievale dal problema delle sue origini liturgiche e rituali a quello della natura e della funzione dei documenti. Avvertendo il ricercatore del pericolo di studiare il teatro medievale «tenendo in mente un progetto teatrale finalizzato al divertimento e/o all’istruzione osservando la storia del moderno teatro europeo», poiché «non si può studiare una qualsiasi forma di teatro tenendo in mente una qualche forma definita di teatro», Drumbl ha cercato di «ricostruire la duplice estraneità che separa il dramma sacro medievale sia dall’osservatore moderno che dalla cultura religiosa dell’alto medioevo», mostrando la specifica funzione e natura delle cerimonie drammatiche [32].

Il capitale rapporto tra drammaturgia rituale e drammaturgia teatrale è alla base della ricerca di Claudio Bernardi che avvertendo del precario equilibrio tra liturgia e teatro in quanto «poli di attrazione opposti, il più delle volte in conflitto», ha distinto il materiale documentario per ambienti (monasteri e cattedrali per la drammaturgia in latino, confraternite e corpo cittadino per la drammaturgia in volgare) non volendo così individuare generi diversi di rappresentazione, ma piuttosto «cogliere ragioni e forme di due modalità della celebrazione pasquale», l’una, quella del clero, incline alla gioia della resurrezione, l’altra, quella dei laici, alla passione di Cristo [33]. Nel contesto del teatro sacro cristiano, però, la relazione tra rito e teatro, che lo studioso vede come due facce della stessa medaglia, non può prescindere dalla specificità del «rito cattolico di ieri e di oggi […] di essere un teatro misterico, la mediazione sensibile di un fatto trascendente. Nell’azione liturgica Cristo è presente con la sua vita, morte e resurrezione», che motiva l’impulso della religione cristiana alla drammatizzazione: «lo statuto teorico della rappresentazione cristiana» è l’incarnazione [34].

Il significato del termine ‘rappresentare’ in relazione tanto alla liturgia quanto al dramma cristiani rimanda al concetto di imago nel medioevo (la quale riguarda direttamente l’antropologia cristiana nel suo complesso) e alla sua capacità di rendere «presente l’invisibile nel visibile, Dio nell’uomo […], il passato o il futuro nell’attuale», ripetendo così a suo modo «il mistero dell’incarnazione, cioè dando «presenza, identità, materia e corpo a ciò che è trascendente e inaccessibile» [35]. Questa capacità riattuativa dell’immagine pone in questione tanto il principio memorativo - proprio di una «religione del ricordo» quale è il cristianesimo [36]- quanto quello mimetico, rimandando cioè ai concetti di imitazione e di somiglianza.

In questa prospettiva sono stati di particolare interesse i contributi della letteratura critica sul ruolo delle immagini nel medioevo, che occupandosi del loro significato, del loro uso e delle loro funzioni, studia i rapporti tra immagini e parole e si pone il problema dei meccanismi della loro composizione (Belting [37], Schmitt [38], Baxandall [39]). Inoltre, si sono rivelati determinanti i più recenti studi sull’arte della memoria che in particolare focalizza i meccanismi di riattuazione mentale, la dimensione attiva delle immagini, il loro essere disposte in loci, il coinvolgimento fisico ed emotivo del processo memorativo e il suo legame con la ripresentazione rituale e artistica (Carruthers [40]e Bolzoni [41]).

A partire da questi contribuiti e sullo sfondo del pensiero teologico e della spiritualità coevi, la mia ricerca a cercato di comprendere i diversi significati che la passione e crocefissione di Cristo ha assunto nel medioevo, dall’epoca constantiniana sino alla spiritualità francescana, vedendo come è stata ri-presentata tanto nell’arte figurativa, nella letteratura poetica e meditativa, quanto nelle cerimonie liturgiche e nelle azioni devote, sino alle prime forme drammatiche. Ciò di cui intendo occuparmi, allora, sono i cambiamenti di una drammaturgia che sottostà alla costruzione di un’immagine e di una scena, cercando di individuare quali siano gli elementi che intervengono in quella composizione e che orientano lo sguardo e il movimento.

In linea con il magistero di Mario Apollonio il saggio propone una lettura della rappresentazione passionista medievale come drama, ossia come azione che accade in presenza, stabilisce relazioni e diviene esperienza. L’ordine drammaturgico che viene assumendo sembra influenzato dalle tecniche proprie della meditazione e rimanda alla funzione memorativa delle immagini e del rito, al suo stesso essere ri-presentazione qui e ora della realtà del sacrificio di Dio.

L’ampiezza cronologica dello studio può sembrare eccessiva o dispersiva. Tuttavia si è rivelata necessaria per tracciare un percorso che potesse restituire il contesto storico entro cui si è andata formando la ‘pia devozione’ per la passione di Cristo che ha sostanziato il ‘teatro della misericordia’ tardo medievale, i cui debiti con il passato erano sempre stati accennati e mai investigati.

Quello che ne è risultato è il racconto di un cammino, di una via che la Croce compie, simbolicamente, dall’essere segno del trionfo di Dio sul peccato e sulla morte a testimone del pianto d’amore e dolore dell’Uomo.

Il primo capitolo prende avvio dal silenzio sullo ‘scandalo’ del Dio crocefisso e giunge al modo di intendere la passione sino al VI-VII secolo, avendo per oggetto principale l’immagine della croce come teofania e segno di gloria splendente. A partire dal farsi del dogma cristologico calcedonese, vengono affrontati la nascita di un’iconografia della crocefissione, parallela alla fondazione della liturgia ierosolimitana della settimana santa. Dal punto di vista testuale porta l’esempio del Carmen paschale di Sedulio, che nel V capitolo, dedicato alla passione, traduce poeticamente la definizione teologica dell’umanità ‘gloriosa’ di Cristo e quindi della crocefissione come momento della storia della salvezza.

Il secondo capitolo verte sulla definizione carolingia della croce come mistero e res sacrata che la distingue dalle immagini e la affianca alle reliquie dei santi, alla Scrittura e all’eucarestia, conferendole uno statuto definitivamente altro rispetto alla concezione orientale dell’icona e legittimandone il culto. Parallelamente, la coeva speculazione cristologica e soteriologica sottolinea la centralità dell’umanità di Cristo nell’evento della passione, vista come battaglia dell’eroico guerriero e, poi, come sacrificio. Il corpo di Cristo inizia a essere immaginato sulla croce, mentalmente e figurativamente, divenendo il vero destinatario della preghiera e del culto. La verità storica della crocefissione è introdotta nella celebrazione eucaristica attraverso l’allegoresi liturgica di Amalario di Metz; nel trattato di Radberto Pascasio la realtà della carne sanguinante di Cristo si fa addirittura presente nell’ostia. Il ‘fatto’ della morte di Cristo, non più perso nella luce della resurrezione, inizia a essere rimemorato e contemplato nella sua realtà. Di questi mutamenti danno conto sia l’iconografia che la preghiera meditativa, che la drammaturgia dei riti.

La ‘sensazione di presenza’ e la memoria del corpo reale e vivo del crocefisso si fanno più forti con l’approssimarsi del millennio della morte del Signore. Al ritorno del ‘Giudice in croce’ e alla richiesta di misericordia che l’uomo gli rivolge è dedicato il terzo capitolo. Centrale è il ‘vedere’ l’imago del crocefisso, sia essa figurativa che mentale, e intrattenere un rapporto con essa. Un rapporto che si fa sempre più concreto, agito in modo reale, e che rende la ri-presentazione della memoria della passione l’esperienza coinvolgente di un fatto passato che accade nel presente. Di questo rapporto danno conto tanto i riti del venerdì santo che subiscono straordinarie modifiche nel corso dell’ X e XI secolo, trasformando in gesti reali il simbolismo ieratico della liturgia, quanto l’arte che registra la nascita della statuaria e in particolare la comparsa dei primi crocefissi tridimensionali. Alcuni di essi, scolpiti nel legno, erano addirittura destinati a contenere l’ostia consacrata e la reliquia della vera croce di Gerusalemme. Molte sono le visioni di crocefissi piangenti, molti i racconti di immagini del crocefisso che durante i riti della settimana santa si muovono, scendono dalla croce, sanguinano, lacrimano, vivendo su di sé il mistero della passione. Anche la preghiera è improntata a questa ‘sensazione di presenza’ tanto da divenire un’intima riattuazione della memoria secondo una precisa prassi mnemonica, che procede alla formazione di immagini attive (imagines agentes) distribuite in loci, e guardate secondo uno schema prospettico affettivo determinato tanto dalla posizione del corpo quanto dall’intenzione dello spirito. L’occhio del cuore e l’occhio della carne disegnano le immagini del crocefisso e ridefiniscono l’ordine della visione, generando nuove strutture del racconto, ossia nuove drammaturgie della passione. Ciò che ne risulta è l’immagine riassuntiva di Cristo sulla croce, piagato, morto, inondato di sangue. Un’immagine che non è più solo quella del Giudice, ma inizia a divenire quella del Figlio del Padre e può essere guardata con amore, da vicino, quasi approssimandosi al legno. Con sant’Anselmo fa il suo ingresso nella scena del Golgota Maria. È il suo rapporto con il figlio, il suo essere consustanziale a lui, che ne legittima oltre che la presenza la sensazione del dolore, un intimo avvertire nella carne e nel cuore ogni sua ferita. Quel genere di pianto inaugura un nuovo modo di porsi di fronte alla croce, passando dal solo vedere le piaghe di Cristo al sentirne il dolore.

Al passaggio dal vedere al sentire è dedicata la prima parte del quarto capitolo che si occupa della rivoluzione affettiva inaugurata da Anselmo di Aosta e approfondita nel corso del XII secolo grazie soprattutto alla spiritualità cistercense e canonicale. Vi gioca un ruolo prioritario il nuovo valore che viene dato alle emozioni e al loro legame con il corpo in quel secolo, definito appunto il ‘secolo dell’amore’. Sul piano della rappresentazione è centrale il rapporto ‘parentale’ che il fedele stabilisce con il Cristo della passione, mediato dalla presenza sempre più ampia della figura di Maria sulla scena del Golgota. L’intenzione con cui lo sguardo si rivolge al crocefisso determina un riordino drammaturgico e il passare dalla ripresentazione della realtà del sacrificio del corpo di Cristo alla rappresentazione delle relazioni di amore e di cura, contrapposte a quelle di indifferenza e di violenza, verso quel corpo. Ciò è evidente tanto nella modalità con cui viene costruita la ‘scena’ mentale della passione nella mediazione cistercense quanto nell’arte figurativa. dove i gruppi di deposizione altro non sono che scene d’amore. Al ruolo prioritario di Maria è dedicata la seconda parte del capitolo. L’immagine di lei ‘compassionata’ e la funzione delle sue lacrime sostanziano la nascita del Planctus come composizione liturgico-sequenziale e poi lirico-drammatica, inserita non solo nel contesto dei riti pasquali, ma anche nelle prime forme di dramma passionista, viste nella loro funzione di exempla e analizzate.

Il quinto capitolo si apre con la ‘rivoluzione drammaturgica delle lacrime’ e cerca di mostrare come lo sguardo materno determini un decisivo mutamento della prospettiva entro cui sono costruite le scene dell’intera passione. Guardando con gli occhi di Maria, scrivendo con il suo pianto si vede Dio come parte di sé, come figlio, padre, marito. Si appartiene ad un unico ghénos, il genere umano. Quella è la condivisione del sangue cioè l’essere ecclésia. La funzione antitragica e anticatartica del pianto mariano fonda il significato della pietà cristiana che è soffrire il dolore degli altri, cioè misericordia. Sulla misericordia interviene la svolta francescana: l’antropologia cristica propria del Santo assisiate, e poi approfondita dall’ordine, si fonda sul concetto di un Vangelo in carne viva, di un seguire il Figlio Primogenito dell’Umanità - e quindi Fratello e Padre - nel suo essere Uomo nudo, recuperando così l’immagine di Dio. ‘Fare’ come lui significa ‘farsi’ come lui, seguirlo diviene imitarlo. Il ‘come se’ proprio della sequela entra nella meditazione passionista e porta a compimento il processo di rivoluzione drammaturgica anticipato dall’antropologia affettiva del secolo precedente. Dalla condivisione del dolore proprio della compassione di Maria il fedele passa alla ‘conformazione’ che si riassume nel sigillo paolino Cristo confixus sum crucis che Bonaventura appone al suo trattato sulla passione e che implica quasi una sovrapposizione degli sguardi. Il processo di ri-presentazione della vicenda passionista diviene, allora, partecipazione personale realmente vissuta, un’immedesimazione. È il principio di ‘identificazione mimetica’, insieme al senso profondo della storia, che interviene nei modi della rappresentazione della passione, nell’arte – che, accanto all’iconografia del Christus patiens e dei pannelli istoriati delle croci dipinte o delle pale d’altare, vede scolpire i ‘crocefissi dolorosi’, sfigurati e coperti di piaghe -, nella preghiera – in cui è basilare l’esperienza mistica -, nelle devozioni e nelle pratiche di pietà, ponendo le basi per il realismo antispettacolare proprio del ‘teatro della misericordia’ dei laici, il quale, già in nuce nei riti e nelle pratiche devote delle confraternite del primo Trecento, fiorirà compiutamente solo verso la fine del secolo.

In questo teatro d’amore e dolore, che è anche un teatro della memoria e della sequela, saranno riassunti la sensazione di presenza, il pianto contagioso del cuore materno, il senso vivo e personale della condivisione. Una ri-presentazione che non ammette la distanza del guardare e che chiede la partecipazione. E forse è questa la sensazione che avevo vissuto con il ‘popolo della Santa Crus’, quel giornodi maggio, tornando dal Golgota alpino.

 

 

[1]G. Didi-Huberman, Devant l’image. Question posée aux fin d’un historie de l’art, Les éditions de minuit, Paris 1990, pp. 248-249. La traduzione è mia.

[2]M. Apollonio, Storia, dottrina e prassi del coro, Morcelliana, Brescia 1956; Id., Lauda drammatica umbra e metodi per l’indagine critica delle forme drammaturgiche, in Il Movimento dei Disciplinati nel settimo Centenario dal suo inizio, atti del convegno internazionale di Perugia (Perugia 25-28 settembre 1960), Deputazione di storia patria per l’Umbria, Perugia 1962, pp. 395-433.

[3]Cfr. D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 1993. H. Belting, L’arte e il suo pubblico. Funzioni e forme delle antiche immagini della passione, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1986; dello stesso autore cfr. Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci, Milano 2001.

[4]Caroline Bynum ha sottolineato il carattere quasi ‘incruento’ della crocefissione, dove l’unico sangue che viene esplicitamente nominato è quello versato dopo la morte di Cristo, quando la lancia gli trafigge il petto. C. W. Bynum, Wonderful Blood. Theology and Practice in Late Medieval Northern Germany and Beyond, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2007, pp. 1-2.

[5]Cfr. F. P. Pickering, Literature and Art in the Middle Ages, Coral Gables, University of Miami Press, Glasgow 1970, pp. 223-248.

[6]Cfr. J. Bossy, L’Occidente cristiano, 1400-1700, Einaudi, Torino 1990.

[7]G. M. Gibson, The Theatre of Devotion. East Anglian Drama and Society in Late Middle Ages, University of Chicago Press, Chicago-London 1989.

[8]L. Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 20036, p. 203.

[9]Ivi, pp. 204-222.                 

[10]K. Young, The Drama of the Medieval Church, 2 voll., Clarendon Press, Oxford, 1933, I, pp. 492-513.

[11]Cfr. A. D’Ancona, Origini del teatro Italiano, 3 voll., Loescher, Torino 1872 (ristampa anastatica Bardi, Roma 1966).

[12]Cfr. E. Monaci, Appunti per la storia del Teatro Italiano, Uffizi drammatici dei disciplinati dell’Umbria, in «Rivista di Filologia romanza», 1 (1872), pp. 235-271.

[13]Cfr. V. De Bartholomaeis, Le origini della poesia drammatica italiana, Società editrice internazionale, Torino 19522; Id., Laude drammatiche e rappresentazioni sacre, 3 voll., Le Monnier, Firenze 1943.

[14]Cfr. Toschi P., Le origini del teatro italiano, Edizioni scientifiche Einaudi, Torino 1955, pp. 684-691.

[15]Cfr. S. Sticca, Il Planctus Mariae nella tradizione drammatica del Medio Evo, Downling Scholarly Reprint Series, Binghamton 20002.

[16]Cfr. R. Fulton, From Judgment to Passion. Devotion to Christ and the Virgin Mary, 800–1200, Columbia University Press, New York 2002.

[17]Cfr. M. Kobialka, This is My Body. Representational Practices in the Early Middle Ages, University of Michigan Press, Ann Arbor 2003, pp. 1-24.

[18]Cfr. E. K. Chambers, The Medieval stage, 2 voll., Oxford University Press, Oxford 1903.

[19]Cfr. G. Cohen, Le Théâtre en France au Moyen Age, Les Editions Rieder, Paris 1928.

[20]Cfr. O. B. Hardison Jr., Christian Rite and Christian Drama in the Middle Ages, The Johns Hopkins Press, Baltimore 1965, pp. 1-34.

[21]Cfr. G. Wickham, Early English Stages. 1300 to 1600, 2 voll., Routledge and Kegan Paul, London 1963. Id., The Medieval Theatre, St. Martin’s Press, New York 1974.

[22]V. A. Kolve, The Play Called Corpus Christi, Stanford University Press, Stanford 1966.

[23]B.-D. Berger, La drame liturgique de Paques du X au XIII siècle. Liturgie et Théâtre, Beauchesne, Paris 1976.

[24]Cfr. The Theatre of the Medieval Europe, ed. E. Simon, Cambridge University Press, Cambridge 1991.

[25]Si veda ad esempio il lavoro di M. S. De Vito, L’origine del dramma liturgico, Società Anonima Editrice Dante Alighieri, Milano-Genova-Roma-Napoli 1938.

[26]Anche la critica tedesca confutò il darwinismo di Chambers e Young, in particolare si veda H. De Boor, Die Textgeschichte der Lateinischen Osterfeiern, Max Niemeyer, Tubingen 1976.

[27]Cfr. C. Dunn, The Gallican Saint’s Life and the Late Roman Dramatic Tradition, Catholic Univerity of America Press, Washington 1989.

[28]Cfr. J. Enders, Rhetoric and the Origins of Medieval Drama, Cornell University Press, Ithaca 1992.

[29]Cfr. Rainer Warning, On the Alterity of Medieval Religious Drama, «New Literary History», 10 (1979), pp. 265-292, parzialmente pubblicato con il titolo Estraneità del dramma medievale, in Il teatro medievale, a cura di J. Drumbl, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 113-144.

[30]Cfr. T. P. Campbell, Liturgy and Drama: Recent Approaches to Medieval Theatre, «Theatre Journal», 33 (1981), pp. 289-301.

[31]È quello che aveva fatto, ad esempio, M. H. Marshall, The Dramatic Tradition Estabilished by the Liturgical Plays, in «Publications of the Modern Language Association», 106 (1941), pp. 962-91 e che ha proposto in tempi più recenti Clifford Flanigan, The Liturgical Drama and its Tradition: A Review of Scholarship 1965-75, «Research Opportunities in Renaissance Drama», 18 (1975) pp. 81-102 e 19 (1976), pp. 109-130. Al Contrario Leonard Goldstein - poggiando le proprie argomentazioni su una lettura marxista della storia, che lega la nascita della borghesia ai processi produttivi - ha negato la derivazione del dramma, che presuppone una società divisa gerarchicamente, dal rito che invece presuppone l’uguaglianza dei membri della comunità (Cfr. L. Goldstein, On the Origin of Medieval Drama, «Zeitschrift fur Anglistik und Amerikanistik», 29 (1981), pp. 101-115).

[32]J. Drumbl, Quem Quaeritis. Teatro sacro dell’alto Medioevo, Bulzoni, Roma 1981, pp. 14-15.

[33]C. Bernardi, La drammaturgia della settimana santa in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 168.

[34]Ivi, pp. 509-511.

[35]J. C. Schmitt, Immagini, in Dizionario dell’Occidente medievale, a cura di J. Le Goff e Id., 2 voll., Einaudi, Torino, 2003-2004, I, p. 519.

[36]Cfr. L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Einaudi, Torino 2002, p. XIX.

[37]Oltre al già citato L’arte e il suo pubblico, si veda il recentissimo La vera immagine di Cristo, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

[38]Cfr. J.-C. Schmitt, La culture de l’imago, in Images médiévales, «Annales. Histore, Sciences Sociales», 51 (1996), 1, pp. 3-35 e Les images dans les sociétés médiévales: pour une Histoire comparée, a cura di J.-M. Sansterre, Id., Brepols, Turnhout 1999.

[39]Cfr. M. Baxandall, Pitture ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1978.

[40]Cfr. M. Carruthers, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge University Press, Cambridge, 1990; e Ead., Machina memorialis. Meditazione, retorica e costruzione delle immagini (400-1200), Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 2006.

[41]Oltre a La rete delle immagini, si veda anche il precedente La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Einaudi, Torino 1995.


 










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