logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Cesare Molinari

Cesare Molinari, Il consumo della civiltà (IIparte)

Data di pubblicazione su web 20/11/2008
George Grosz, Metropolis

In tale contesto estremamente complesso di intrecci e sovrapposizione sia degli interessi politici sia di quelli economici, i cui diversi attori non sanno essi stessi quali siano i limiti dei loro poteri e dei loro interessi, poiché le grandi corporation, che producono un PIL pari o superiore a quello di molti stati, si comportano come veri potentati assolutamente indipendenti da qualsiasi riferimento nazionale o statale, in tale contesto dunque in cui il ruolo dello stato nazionale, pur persistendo, perde la sua specificità e parte del suo peso anche politico, succede però che nelle popolazioni risorge e si consolida un forte sentimento nazionale quando non regionale, e le contese territoriali tornano ad assumere un valore politico-simbolico non giustificato e sostenuto dal valore strategico o economico delle terre contestate. Valga per tutti il caso dell’Ossezia del sud, un lembo di terra per il quale vale la pena di ricordare ciò che dice ad Amleto un soldato di Fortebraccio a proposito dell’impresa che costui stava conducendo:

We go to gain a little patch of ground
Which has in it no profit but the name.
To pay five ducats, five, I would not farm it;
Not will it yield to Norway or the Pole
A ranker rate shoud it be sold in fee[1].

Pure questioni di prestigio dunque, che fanno leva sul sentimento nazionale, ma al tempo stesso lo fomentano e lo rafforzano poiché, come diceva Mussolini, solo l’odio riesce veramente ad unire e a consolidare quel naturale bisogno di appartenenza di cui tanto si è blaterato nel Sessantotto: ciascuno di noi crede di appartenere a una razza, a un’etnia, a un popolo, a una cultura senza sapere bene cosa significhino queste parole al di là di un valore meramente classificatorio. Come se tali appartenenze si fondassero su una presunta diversità essenziale, altro mito improvvidamente coltivato dalla sinistra (le radici!), anche se in realtà dovrebbe appartenere all’ideologia della destra.

Simili ragioni si sono coniugate con altre di carattere più  squisitamente economico e sociale rendendo possibile un’altra, e più grave contraddizione della globalizzazione: mentre le merci e soprattutto i capitali circolano sempre più liberamente, rendendo talvolta difficile capire chi è il proprietario di una determinata impresa, quando non addirittura di un’entità statale, se è vero che Cina e Giappone, o i loro fondi sovrani e quelli di alcuni paesi arabi possiedono una buona percentuale del debito pubblico degli Stati Uniti, ciò che invece non può circolare altrettanto liberamente è la forza lavoro.

Ci sono sicuramente molti e solidi motivi riguardanti gli equilibri interni dei singoli paesi che rendono impossibile permettere migrazioni incontrollate dai paesi poveri a quelli ricchi, non ultimo il timore che i migranti sottraggano agli indigeni posti di lavoro, un rischio reso invece molto più concreto dalla delocalizzazione delle imprese. Né, alla fine, un radicale prosciugarsi delle loro popolazioni sarebbe vantaggioso per gli stessi paesi poveri (o per i pochi che potrebbero continuare a viverci).

Dovrebbe essere evidente a tutti, ma non lo è perché forti e reali difficoltà vi si oppongono, che l’unica radicale soluzione del problema delle migrazioni, starebbe nella decisa riduzione della forbice di reddito fra il nord e il sud del mondo. Bisogna riconoscere che l’economia di mercato, il capitalismo e forse anche lo sviluppo della finanza internazionale hanno reso possibile sconfiggere la miseria di milioni di persone in India, in Cina e nel sud-est asiatico. Certamente questi paesi avevano da secoli sviluppato un’autoctona civiltà anche tecnologica, ed erano stati penetrati dalla cultura occidentale attraverso un colonialismo non meramente di rapina, o, nel caso della Cina, addirittura attraverso l’idea socialista. Ciò che ha reso l’adeguamento dei modelli di vita, come, soprattutto, delle strutture economiche più facile e veloce – certo, al prezzo della soppressione di antiche tradizioni culturali e artistiche, per cui, ad esempio, il paesaggio urbano cinese non è più caratterizzato dalle pagode, ma dai grattaceli, simbolo assoluto della civiltà americana.

La situazione di partenza di tanti altri paesi del terzo mondo era sensibilmente diversa, anche facendo astrazione dalle dimensioni. Lì, e in particolare nell’Africa sub-sahariana, il colonialismo è stato effettivamente quasi esclusivamente di rapina e di schiavizzazione, ma soprattutto non si è passati attraverso la formazione di stati nazionali, e gli stati stessi, essendo impostati sui precedenti possedimenti coloniali delle potenze europee, non sono mai riusciti a superare la dimensione tribale capace di coprire più concreti interessi materiali, spesso riferibili a potentati politici o economici stranieri e che inoltre diventa fertile terreno di profitto per le occidentali industrie dell’armamento e di drammatico impoverimento per le popolazioni che vivono in un continuo stato di guerra. Talché, oserei affermare, si assiste a un progressivo imbarbarimento di cui le stragi in Ruanda e in Congo sono il più tragico simbolo.

Allora, e per tornare al punto: in cosa dovrebbe consistere, come potrebbe essere realizzata la riduzione della forbice di ricchezza tra i paesi del primo e quelli del terzo mondo? Paradossalmente, essa dovrebbe corrispondere, ed essere sostenuta dalla parallela riduzione della forbice di reddito fra la parte più ricca e quella più povera della popolazione dei paesi industrializzati, da non individuarsi tanto o soltanto nell’incremento dei redditi più bassi, ciò che, come  già detto, a un certo livello, può generare un incremento del consumismo, quanto nel drastico ridimensionamento dei redditi più alti, le cui eccedenze dovrebbero essere investite nello sviluppo tecnologico e culturale dei paesi poveri – dove, nell’investimento, dovrebbe essere prevista una modesta redditività per l’imprenditore privato, sostenuto semmai dal finanziamento pubblico. Tutto ciò permetterebbe, mi pare, di non frenare lo sviluppo senza ulteriori incrementi della domanda interna globale e quindi del consumismo.

Certamente, ancora una volta, tutto questo è molto più facile a dirsi che a farsi, non foss’altro perché il presupposto primo, da individuarsi, come accennato sopra, nel governo mondiale dell’economia, può bensì derivare dal rafforzamento e dal coordinamento degli enti e delle normative esistenti e peraltro non universalmente accettati, ma alla condizione primaria che esso possa liberarsi dalla subordinazione all’ideologia liberista. Ciò che incontrerebbe ovvie e fortissime resistenze sia da parte dei governi nazionali sia dai potentati economici: l’impotenza sostanziale dell’ONU è una prima dimostrazione di quanto difficile sarebbe superare tali contraddizioni e tali difficoltà.

Poi bisogna tener conto degli effetti collaterali: imporre ai paesi poveri un ordinato sviluppo che in primo luogo rinunci all’acquisto di armamenti e ponga fine alle guerre tribali non potrà avvenire senza un’azione che può passare dalla moral suasion all’uso della forza, cosa di fatto attualmente inammissibile, anche se dovrebbe essere moralmente molto più giustificato intervenire in Birmania che non in Iran – ma l’Iran è una minaccia verso l’esterno, la Birmania soltanto un genocidio interno, e d’altra parte è difficile dimenticare la fallimentare impresa in Somalia. Inoltre, l’esportazione di tecnologie e produzioni proprie della società industriale in paesi ancora legati a un’economia di sussistenza comporterà la violenta distruzione di usi, costumi e bellezze millenarie. Ma anche Babilonia e Atene non hanno lasciato di sé che sparsi frammenti: in questo mondo, comunque infelice, tutto è destinato a finire, ma per lo meno le tecniche moderne permettono la fissazione di precise memorie, che potranno giocare un loro ruolo nei successivi sviluppi della civiltà.

Ed è a questi sviluppi che oggi bisognerebbe pensare, a casa nostra cominciando a contrastare il consumismo e l’esibizionismo, a sostituire le aggregazioni di tipo ‘naturale’ (etnia, razza e financo popolo e lingua) con quelle derivanti da convergenze ideali e culturali, moralizzando il premio della competizione, attribuendo nuovi ruoli alla ricerca scientifica e alla cultura umanistica, e infine a restaurare il rispetto di un’autorità autorevole ma non autoritaria – ma dov’è il confine? O altre fantasie di simil genere.

Oppure si può lasciare che tutto segua il suo corso, limitandosi al governo empirico dell’esistente e ad inseguire i problemi del quotidiano: i mercati e il gioco delle ambizioni e dei desideri saranno in grado di regolarsi da soli, come finora, bene o male, è successo visto che le crisi periodiche sono state più o meno facilmente superate. Ma il recente rilancio del keynesismo di emergenza (Keynes era certamente sostenitore del libero mercato e di una finanza pubblica rigorosa che ammettesse il deficit spending solo in pochi e limitati casi) potrebbe indicare che direzioni diverse sono comunque percorribili.

Nel corso di questa sommaria riflessione ho più volte accennato all’uso della leva fiscale in funzione redistributiva. In questi ultimi anni diverse campagne elettorali sono state combattute proprio sull’argomento fiscale, uno schieramento accusando l’altro di progettare un sostanziale aumento dell’imposizione. Al che lo schieramento sotto accusa rispondeva che giammai avrebbe proceduto a un simile misfatto, la sua intenzione essendo soltanto di recuperare o almeno ridurre l’evasione fiscale, proprio al fine di poter poi procedere a una generalizzata riduzione delle tasse.

Quello che finora – incredibilmente – non si è riusciti a chiarire è che un eventuale aumento delle tasse, non deve necessariamente risolversi in un aumento indiscriminato. Bisognerebbe ricordare che in tempi forse solo apparentemente lontani le tasse venivano pagate soltanto dai poveri, ed anzi costituivano il principale strumento di formazione e mantenimento della ricchezza dei ricchi. Solo in tempi recenti si è affermato il principio che le tasse vanno pagate in proporzione al reddito prodotto (ma non alla ricchezza patrimoniale), un principio in verità solo parzialmente attuato poiché l’evasione è seriamente ostacolata solo per i redditi da lavoro dipendente.

Ma non è questo il punto. Sembra che l’opinione pubblica non abbia ancora ben compreso che l’ordinamento fiscale è basato sul principio di una progressività che si attua per scaglioni di reddito, per aliquote: se il mio reddito è di 1000, devo pagare 10 sui primi 200, 20 sui redditi da 200 a 500, 30 su quelli che vanno da 500 a 1000: solo sulla parte del reddito che supera i 1000 pagherò la aliquota massima o marginale, che potrà essere di 40 o più.

Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, in un saggio in cui sostiene che la politica è in grado di determinare l’andamento dell’economia quanto e più degli automatismi di mercato, racconta una storia che pochi conoscono (e chi la conosce non la cita): durante il New Deal l’aliquota massima imposta al contribuente americano raggiunse la percentuale che a noi suona sconvolgente del 91%. Vale a dire che coloro che avevano un reddito superiore ai 200.000 dollari  pagavano un’imposta del 91% sulla parte di reddito che si aggiungeva a quei 200.000 dollari. È vero che un’aliquota così elevata (ma che comunque, ripetiamolo, colpiva soltanto la parte marginale del reddito) rimase in vigore solo per le esigenze della guerra, ma è altrettanto vero che almeno fino a tutto il periodo dell’amministrazione Eisenhower (cioè fino al 1960) tale aliquota rimase superiore al 60% (oggi, in Italia, è del 43%). Fu solo con l’amministrazione Reagan, nel 1980 che l’aliquota massima venne drasticamente ridotta, favorendo il formarsi di più grandi ricchezze, e ciò perché, magari in buona fede, Reagan pensava che la ricchezza dei ricchi sarebbe in qualche modo ridondata anche sulle classi inferiori. È la famosa teoria dello sgocciolamento (trickle down) elaborata  da Milton Friedman e dalla scuola di Chicago. Teoria che nel lungo periodo si è dimostrata fallace ed ha portato all’unico risultato di allargare in misura esponenziale la forbice dei redditi, ma soprattutto di creare quell’illusione di benessere da cui è, almeno in parte, derivata la crisi che il mondo sta attualmente vivendo. È forse per questo che, ringraziando Iddio, l’opinione pubblica sta lentamente prendendo coscienza di come funziona la tassazione diretta, se è vero che un recente sondaggio ha rivelato che il 56% degli intervistati si è dichiarato favorevole ad un aumento delle tasse sui redditi più elevati. Certo, in questo periodo l’opinione pubblica non è, nel suo insieme, matura per ammettere che il maggiore gettito fiscale possa essere destinato anche ai paesi economicamente arretrati.

Ma quando poi si comincerà a rendersi conto che la miseria dei paesi poveri non è soltanto una ferita del senso morale, ma anche un rischio per la pace del mondo e per l’equilibrio sociale dei singoli paesi esposti ad un’immigrazione sempre più selvaggia e non controllabile né assimilabile, forse anche da parte delle opinioni pubbliche potrà venire una spinta a che le organizzazioni internazionali si applichino seriamente a elaborare norme che anche nelle transazioni bilaterali favoriscano o almeno non danneggino i paesi poveri, ma anche a valutare la possibilità di controllare la destinazione finale degli aiuti, se non addirittura di ridisegnare i confini di quelli più tormentati dai conflitti tribali.

 

Nota aggiuntiva

 

Si dice che in epoca contemporanea, più o meno nell’ultimo secolo, ma in modo più deciso a partire dal secondo dopoguerra, la distanza fra le classi sociali si è venuta via via riducendo. Anzi, il termine stesso di “classe” è parso troppo netto e categorico probabilmente anche a causa della sua derivazione marxiana. C’è qualcosa di vero in questa osservazione, ma bisogna precisare che tale riduzione delle distanze non si fonda su parametri di carattere economico, quanto piuttosto su un rinnovato modo di comportarsi e di atteggiarsi nei contatti sociali. Oggi, in linea di principio, non è più apprezzato “tenere le distanze”: il padrone di una fabbrica può intrattenersi cameratescamente con i suoi operai, la padrona di casa non è più autorizzata a trattare sprezzantemente la sua serva, che peraltro non si chiama più né “serva” né “cameriera” ma “collaboratrice domestica”, infine il figlio del medico frequenta la stessa scuola del figlio del fabbro, con il quale potrà intrecciare una solida amicizia e magari frequentare gli stessi compagni.Ma c’è anche una ragione linguistica di questo nuovo e più aperto modo di comportarsi e di mantenere relazioni sociali, una ragione linguistica che ovviamente deriva da un rinnovato atteggiamento mentale. Oggi non si può più parlare di “classe dei lavoratori”, della Arbeiter Klasse su cui si fonda il pensiero marxista, per la semplice ragione che tutti, o quasi, vogliono essere definiti e considerati “lavoratori”. Quelle che una volta venivano definite “attività” oppure “occupazioni” o “impegni” o magari “cure” oggi si chiamano “lavoro”, per cui si dice che un capitano d’industria lavora duramente per gestire la sua impresa, così come un finanziere lavora tutto il giorno per condurre i suoi affari (non ricordo bene se De Benedetti o Colanninno ebbero un giorno a dire: «il mio lavoro è fare soldi»).

Sarebbe interessante poter definire quando e come si è verificato questo slittamento linguistico, che certamente ha seguito percorsi diversi nelle varie lingue: in inglese la parola “work” ha sempre indicato sia il ‘lavoro’ che il suo prodotto, ossia l’opera: una raccolta degli scritti di Shakespeare si può intitolare Shakespeare’s Works. Al contrario nelle lingue latine parole come “lavoro” appunto o come “travail” e lo spagnolo “trabajo” denotano nel loro etimo in prima istanza la fatica fisica. È vero che oggi uno scrittore, regalando all’amica il suo ultimo libro potrà dirle «ti ho portato il mio ultimo lavoro», ma è anche vero che non esiste nessun frontespizio con un’intestazione del tipo “Italo Calvino, Lavori”. Nelle lingue latine l’identificazione “lavoro-opera” è rimasta incompiuta.

Ma le lingue e le parole sono soltanto la superficie di un modo di pensare. Il fatto si è che in questi ultimi cento anni o giù di là si è avuta una nobilitazione dell’idea di lavoro, con annesse derisioni: «Il lavoro nobilita l’uomo \ e lo rende simile alle bestie» per non dire di «Arbeit macht frei». E la Repubblica Italiana ha potuto dichiararsi «fondata sul lavoro».

Il concetto di “lavoro” insomma si è spogliato della sua connotazione di attività servile e perciò stesso degradante, un tempo vivissima al punto che (come racconta Angelo Ventura nel suo Nobiltà e popolo nella società veneta del Quattro e del Cinquecento) un nobiluomo poteva perdere il suo status per il semplice fatto di essere sceso nella bottega di sua proprietà e avervi maneggiato le merci a contatto con il pubblico. D’altronde, almeno fino al Rinascimento, ma anche ben oltre, pittura e scultura erano considerate arti “meccaniche” in contrasto con le arti “liberali” le quali non richiedono un’abilità manuale. Il lavoro insomma era segnato da un duplice marchio, la subordinazione e la manualità. Oggi non è più così: il fabbro può essere considerato un libero professionista come l’avvocato, e il manager un lavoratore dipendente come l’operaio.

Ne consegue, anche se non in maniera strettamente deterministica, che il livello di reddito non è direttamente legato al tipo di lavoro che uno svolge, anche se è chiaro a tutti che è più facile fare soldi maneggiando soldi che non facendo l’operaio in una fabbrica o l’impiegato in un ufficio. Ciò non toglie che si sia sviluppata una notevole mobilità sociale, dove però il gradino che uno occupa nella scala sociale è invece determinato da un parametro prevalentemente economico – e non sembri contraddittorio con quanto appena detto.

Si è venuta cioè formando una nuova ‘classe’ di ricchi, che non sono necessariamente capitalisti,  ma anche affermati professionisti, attori, politici o campioni dello sport, attorno alla quale ruota, come è sempre successo, un magma indistinto di parassiti che cercano di conquistarsi un posto al sole con i mezzi più diversi, dalla prestazione sessuale al prestanome a quello che in tempi andati si sarebbe chiamato il buffone di corte.

È quello che ci siamo abituati a chiamare il jet set, che, se non ne costituisce il centro assoluto, occupa almeno una buona parte dell’attenzione mediatica e, per conseguenza, di quella che, facendo violenza a una nobile espressione, potremmo definire la cultura popolare. Tanta gente comune infatti guarda a quel mondo con ammirata attenzione. Fino a qualche decennio fa’, in occasione delle ‘prime’ dei grandi teatri d’opera – dalla Scala al Metropolitan al Covent Garden – una certa quantità di gente era solita raccogliersi davanti all’ingresso di quei teatri per contemplare l’arrivo dei fortunati spettatori. Come in una sfilata di moda, ciò che soprattutto interessava non era tanto la possibile presenza di qualche personaggio famoso quanto piuttosto le splendide toilettes delle signore. Almeno alla Scala questa abitudine è finita con le manifestazioni degli animalisti contro l’uso delle pellicce. Ma di recente è successo che un simile assembramento si è raccolto davanti allo yacht di Flavio Briatore per ammirare – da lontano! – i vip invitati al suo Billionaire. In questo caso non c’è neppure la scusa di ammirare i bei vestiti poiché, trattandosi di una festa diurna,  le donne indossavano straccetti pret-à-porter, anche se certo firmati da ‘grandi’ stilisti. Sembra semmai trattarsi del desiderio di partecipare, seppure passivamente, a un rito di celebrazione della ricchezza, dei soldi nella loro brutale rozzezza, come indicato già nel titolo del grande festino – una vera e propria forma di adorazione, se è vero che l’assemblea dei fedeli si è sciolta solo dopo molte ore.

Ma cosa succedeva, o si pensava potesse succedere, nel cuore del rito, cioè all’interno della festa? In verità niente di straordinario, niente di paragonabile neppure al ballo delle debuttanti che, fino a qualche tempo fa’, aveva luogo all’Opera di Vienna. Perché, a parte la costosità dei cibi e dei vini, la festa non era, nei suoi contenuti, diversa da quelle che tanti ragazzi di classi medio-basse possono organizzare nelle loro case: la partecipazione è informale come l’abbigliamento, si ascolta la stessa musica, si ballano gli stessi balli, si flirta magari con qualche punta un poco osé, si fuma qualche spinello. Perché non c’è uno stile alto da imitare, caso mai, al contrario, è stato lo stile che, per puro amore di alternative binarie, definirò “basso” ad invadere comportamenti, atteggiamenti e gusti delle classi superiori: il rock non è nato e non si è affermato nei saloni di casa Agnelli, così come i jeans non sono stati inventati da Giorgio Armani, che peraltro può firmarne la sua particolare versione, magari aggiungendo qualche sbrego all’altezza delle ginocchia o del sedere. Si tratta di uno stile giovanile, ampiamente trasversale rispetto alle opzioni politiche e ideologiche (ove ce ne siano), uno stile che rifiuta i formalismi e le ingessature degli operatori di borsa, i quali, per conto loro, quando partecipano a un party adottano anche loro jeans e maglioni: per fare festa bisogna vestirsi ‘male’. Perché in realtà le feste dei vari Briatore e quelle della gente qualsiasi condividono anche un motivo di fondo: da un lato esse sono il momento dell’incontro e della socializzazione, ma dall’altro si presentano anche come esaltazione della vita ‘vera’, che non interrompe semplicemente il flusso faticoso e ripetitivo della quotidiana vita lavorativa, ma radicalmente rinnega l’idea del lavoro.

Comunque, i simboli immediatamente visibili di appartenenza ad una classe sono stati in linea di massima cancellati: anche perché ormai succede spesso di vedere un zingaro o un altro poveraccio alla guida di una grossa  Mercedes, le automobili non servono più come status symbol – caso mai ci vuole la barca. E questo succede proprio mentre le distanze fra un livello di reddito e l’altro (non parliamo più di “classe”) si sono allargate in misura  talvolta esponenziale. Alla fin fine siamo tutti lavoratori, solo un po’ più o un po’ meno ricchi. O forse molto, moltissimo più o meno ricchi. Perché la ricchezza, o meglio il reddito, lo stipendio fanno, in sé, il simbolo del successo. Un calciatore, come un cantante, pretende di essere pagato di più di un altro in quanto si reputa più bravo: lo stipendio è un riconoscimento dovuto, ma che non corrisponde necessariamente alla realtà. Spesso lo stipendio fa il prestigio anche di chi lo paga: se do tanto al mio amministratore delegato, vuol dire che la mia società dovrà produrre buoni dividendi per i suoi azionisti – e se poi non succede, questo non ne intaccherà il prestigio.

Per concludere varrà forse la pena di fare un’ultima considerazione riprendendo il tema con sui si è aperta questa nota. Sarà un caso che la generale rivalutazione del lavoro è venuta affermandosi parallelamente allo sviluppo delle automazioni che hanno reso meno netta la distinzione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale? E sarà un caso che ciò abbia anche comportato, da parte dei cittadini dei paesi industrializzati, un sempre più deciso rifiuto dei lavori più impegnativi e faticosi sul piano fisico, così come dei lavori più chiaramente connotati come servili? Non so. Ma il fenomeno è sotto gli occhi di tutti, come sotto gli occhi di tutti è il fatto che queste incombenze vengono sempre più esclusivamente delegate agli immigrati (per cui una collaboratrice domestica può essere sinteticamente definita come “la filippina”), la cui presenza è poi contradditoriamente contestata da quanti la tecnologia ha, secondo la profezia marxista, liberato dal lavoro? La conseguenza potrebbe essere il formarsi di un nuovo proletariato – ovviamente accompagnato dalla sua fascia di Lumpenproletariat –  portatore di propri interessi e disomogeneo anche rispetto a categorie non particolarmente agiate non solo per il livello di reddito, ma anche per cultura e stile di vita, derivanti in buona parte dalle diverse origini etniche e religiose, ma anche dal lento formarsi di una nuova coscienza di classe.



[1] Andiamo a conquistare uno straccio di terra \ che non porta altro profitto che il nome \ tanto che io non lo prenderei in affitto per cinque ducati, dico cinque.\ Né esso potrà dare al re di Norvegia o a quello di Polonia \ una rendita più grande se fosse loro venduto in proprietà. (Shakespeare, Hamlet, IV, 4)






© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it

 

multimedia Immagine 1

multimedia Immagine 2



I parte
 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013