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Paola Ventrone

Paola Ventrone, Simonetta Vespucci e le metamorfosi dell’immagine della donna nella Firenze dei primi Medici

Data di pubblicazione su web 25/03/2008
Paola Ventrone, <i>Simonetta Vespucci e le metamorfosi dell’immagine della donna nella Firenze dei primi Medici</i>

Pubblichiamo un estratto (pp. 5-59) del libro di Giovanna Lazzi e Paola Ventrone, Simonetta Vespucci. La nascita della Venere fiorentina, Firenze, Polistampa, 2007, pp. 172, € 18,00.

Simonetta Vespucci e le metamorfosi dell’immagine della donna nella Firenze dei primi Medici.



1. Simonetta Vespucci: creazione e persistenza iconica di un mito.


È sufficiente una ricerca su internet alla voce Simonetta Cattaneo Vespucci per cogliere la persistenza iconica del ricordo di questa fanciulla, morta di tisi all’età di 23 anni, nell’aprile del 1476, vale a dire nel periodo di ascesa  della cultura neoplatonica nella Firenze di Lorenzo de’ Medici. Ne troviamo, infatti, il ritratto postumo, e probabilmente idealizzato, nelle vesti di Cleopatra, con l’aspide attorcigliato attorno al lungo collo nudo (eseguito da Piero di Cosimo verso il 1520, fig. 1), chiamato a confronto per la pubblicità di un profumo dello stilista Roberto Cavalli[1]; oppure in gran numero di biografie, più o meno romanzate, inserite come richiamo in descrizioni di luoghi turistici legati alla famiglia Vespucci (ad esempio il paese ligure di Portovenere che alla bella Simonetta avrebbe dato i natali), oppure presenti in siti di divulgazione culturale quali Wikipedia e altri[2].

Ciò che appare singolare, in queste moderne citazioni, è la durevolezza di un mito di bellezza femminile fondato più sulla pura idealizzazione estetica e sul fascino squisitamente letterario della morte prematura, che su una reale conoscenza del personaggio e del contesto storico che ne vide la breve esistenza e la trasformazione in icona[3].

Per questo proprio di icona si deve parlare, perché l’immagine della ninfa Simonetta, come viene poeticamente definita dal Poliziano nelle Stanze, ma oserei aggiungere già prefigurata nella Elegia in morte di Albiera degli Albizzi e nell’Euridice della Fabula di Orfeo, e come viene figurativamente inventata dal pennello del Botticelli nei dipinti mitologici e allegorici, va al di là di qualsiasi storicità e di qualsiasi convenzione sociale: con la casta nudità esibita senza il velo degli abiti da casa o da cerimonia; con i capelli compostamente agitati dal vento in contrasto con le elaborate e plastiche acconciature del tempo; con l’assunzione di pose del tutto astratte dai comportamenti che, dalle donne delle famiglie dei grandi mercanti fiorentini, la società si sarebbe potuta aspettare.

L’immagine della ninfa cui il Botticelli donò le sembianze idealizzate di Simonetta non fu, dunque, solo un emblema del recupero figurativo della cultura antiquaria, come sosteneva Aby Warburg, ma fu una vera e propria ‘invenzione’ pensata per esprimere un’idea non meramente estetica ma filosofica e politica insieme, e per rappresentare, proprio come una sintesi iconica, la elitaria cultura neoplatonica coltivata e maturata nella Firenze laurenziana degli anni ’70-’80: quella stessa cultura che la congiura dei Pazzi del 1478 rese repentinamente e tragicamente superata nel volgere di breve tempo[4].

Vediamo, dunque, nel corso del Quattrocento, cioè nel periodo di consolidamento del regime oligarchico guidato dalla Parte  Guelfa e di progressiva affermazione dell’egemonia medicea, quali comportamenti femminili fossero richiesti e accettati dalla società maschile, e come e perché si poté arrivare alla definizione di un modello femminile così poco rispondente alla realtà storica come quello di Simonetta.


2. La donna nella Firenze mercantile oligarchica: Alessandra de’ Bardi.


Il ruolo sociale e domestico della donna nella Firenze del primo Quattrocento nulla ha a che vedere con le ardite e piccanti situazioni narrate nel Decameron boccacciano, probabilmente frutto di una reazione vitale ed edonistica alla peste nera del 1348 che conferiva una storicità apparente a comportamenti propri più della tradizione novellistica orale, che di usi sociali veri e propri. Le notizie riportate in cronache, epistolari privati, libri di ricordanze, trattati sulla famiglia, disegnano, invece, la figura di una donna sottomessa al padre e al marito, dedita alla cura della famiglia e della casa, perno nella gestione dell’economia domestica. Una donna devota e pudica, il cui destino, tendenzialmente diviso, per le fanciulle più agiate, fra la prospettiva del matrimonio e quella del convento, era deciso dal patriarca capo-famiglia in base alle esigenze finanziarie e politiche della consorteria di appartenenza[5]. In una città repubblicana, il cui governo si reggeva su un complicato sistema di equilibri di alleanze e opposizioni fra le famiglie più facoltose e influenti, il nuovo legame che si veniva a stabilire con le nozze serviva, infatti, a stringere ex novo o a rinsaldare rapporti fra lignaggi diversi, oppure ad accedere ad un livello sociale superiore attraverso il nuovo parentado e perfino a porre fine alle faide e alle inimicizie che dividevano gli esponenti di fazioni avversarie[6].

Oltre alle responsabilità domestiche, per le donne aristocratiche il matrimonio comportava anche obblighi di carattere sociale che potremmo definire “di rappresentanza”, quali la partecipazione a balli e a conviti. Sebbene considerati moralmente disdicevoli dalla Chiesa, sia perché potevano indurre in tentazioni lascive, sia perché, derogando alle proibizioni delle leggi suntuarie, consentivano abbigliamenti lussuosi che sollecitavano il peccato della vanità, essi erano tuttavia tollerati in quanto necessari all’immagine e al prestigio delle famiglie, come ben comprese Antonino Pierozzi, arcivescovo di Firenze dal 1436 al 1459. Da attento osservatore della società cittadina, e da acuto interprete delle sue esigenze, egli seppe, infatti, improntare il proprio apostolato sulla capacità – e sulla ferrea volontà – di mediare fra le regole comportamentali prescritte dalla morale cristiana e le convenzioni richieste dai rapporti sociali. Ne sono una testimonianza eloquente i consigli spirituali da lui indirizzati a Dianora Tornabuoni Soderini – sorella di Lucrezia madre di Lorenzo de’ Medici – nell’Opera a ben vivere, un trattatello edificante composto fra il 1450 e il 1454:

Quando voi fussi invitata ad alcuno convito di nozze o di balli, o d’andare a vedere feste, o giostre, o altri spettacoli, o d’andare a sollazzo con altre donne vane, come se ad orti, o ad altri luoghi per ispasso, o simili cose; tutte queste cose, figliuola mia, vi nego e vieto e contradico, e comandovi in virtù di santa obbedienza, che non vi dobbiate andare; eccetto che se voi credessi n’avesse a uscire scandalo o disonore del vostro marito, in questo caso lo lascio nella vostra discrezione e sopra l’incarico della vostra coscienza. […]

Ma se credete che, per non volere andare, avesse a uscire scandalo, o indegnazione verso lo sposo vostro con voi, o altro notabile scandalo, andatevi. E quando vedete quella vanità di suoni o di balli, o d’altre vanità, ingegnatevi di recare ogni cosa a spirituale intelligenza. Reputatevi di essere in paradiso e di udire i suoni delli angeli, e quelli balli e canti reputate siano quelli cori delle sante Vergini, le quali ballino e danzino dinanzi al trono dell’Agnello immaculato, andando con festa e gaudio e canti ad offerire le loro corone dinanzi a Dio, come dice San Giovanni nella Apocalisse[7].


L’arcivescovo, che non esitava poche righe più avanti a condannare le donne che avevano l’abitudine di passare il tempo affacciate alla finestra o alla porta di casa per guardare e farsi vedere[8], dimostrava invece, rispetto alle feste, una non comune elasticità nel comprendere le convenzioni sociali del tempo (comprensione che non era, tuttavia, indice di maggiore indulgenza morale), e nel venire incontro alle necessità imposte dagli equilibri politici cittadini.

In effetti la partecipazione delle donne ai balli non era un mero passatempo, o meglio una “perdita di tempo” come avrebbe detto Sant’Antonino, ma un modo per esibire i comportamenti appresi e coltivati nell’educazione familiare delle fanciulle e, nel caso delle giovani ancora nubili, una delle rare occasioni di esibire in pubblico le proprie doti e di mostrarsi in abiti più sontuosi degli usuali panni quotidiani, come si apprende, ad esempio, da un ricordo del vinattiere Bartolomeo del Corazza, un osservatore particolarmente curioso e attento delle cerimonie cittadine:

A dì 2 di febraio [1421] una brigata di giovani cittadini feciono una ricca e bella festa di ballare: in su la piaza de’ Signori feciono uno stec­cato grandissimo; feciono due doni: una girlanda di cremisi in un bastone grosso, éntrovi un ferma­glietto, e quella si donò a chi meglio danzò de’ gio­vani: e quella si donò a chi meglio danzò de’ giovani; e una grilandetta a modo d’una coroncina d’ariento, o vero collare: e quella donavono a chi meglio danzava delle giovani e fanciulle. Elessono quattro donne che avessino a giudicare l’onore delle donne, e stettono a sedere alte come giudicatori; e così elessono chi avesse a giudicare quello de’ giovani. Quello delle donne dierono alla figliuola di Filippo ... d'Amerigo del Bene, e quello degli omeni al figliuo­lo di Berardo Berardi. Questa brigata furono 14, e vestirono di chermisi foderati di dossi di vaio, e rimbocato di fuori più di mezzo braccio, con un grillo grande di perle in sul braccio manco, con cappucci grandi frappati bianchi, rossi e verdi, e calze di­visate con nuove divise bianche e rosse e verde, rica­mate di perle. El Signor fu ... d’Agnolo di Filippo di Ser Giovanni; venne con un vestire di chermusi spandian­te, aconcio a sedere dalla Mercatantìa, molto signorilmente con molti capoletti e tapeti. E per molto ballare dierono due volte bere con confetti: venivano giovani 22 con 22 confettiere piene di tregea e pinochiati, e con nobili vini, e poi l'ultima volta, cioè la terza volta, con zuccherini[9].

L’uso, in simili circostanze, era dunque quello di addobbare una loggia o, come in questo caso, una piazza per tenervi danze che potevano o celebrare avvenimenti importanti per la città, o accogliere ospiti stranieri di riguardo, oppure allietare feste nuziali. In queste occasioni i luoghi aperti venivano ornati come saloni interni, con arazzi, tappeti, spalliere, credenze, palchi e palchetti per gli invitati e per i musici, creando un singolare effetto di proiezione esterna degli ambienti esclusivi delle ricche dimore mercantili. Di tali apparati rimangono numerose testimonianze iconografiche conservate, soprattutto, dalle fronti di cassone quattrocentesche: una produzione pittorica che per il proprio valore celebrativo – si trattava di forzieri destinati a conservare il corredo delle spose novelle – si prestava ad accogliere dettagli suntuari e immagini evocative delle feste coeve (fig. 2)[10].

Il ruolo cerimoniale svolto dalle fanciulle e dalle donne fiorentine in queste feste appare, in tutta evidenza, in una delle Vite composte dal famoso ‘cartolaio’ Vespasiano da Bisticci negli anni ’80 del Quattrocento, quella dedicata ad Alessandra de’ Bardi: unica biografia femminile, aggiunta a una folta galleria di ritratti maschili, che descrive le virtù muliebri coltivate all’inizio del secolo nelle famiglie della vecchia oligarchia, rilevandone il contrasto a paragone con gli usi più lassisti correnti ai tempi dell’autore, nonostante gli strali lanciati dalla predicazione savonaroliana della quale si avvertono chiari gli echi. La giovane donna, discendente da uno dei più facoltosi e influenti casati della città, era andata sposa, nel 1432, a Lorenzo di Palla Strozzi, anch’egli cittadino di primissimo rilievo nella Firenze pre-medicea: secondo il biografo, per non dire l’‘agiografo’, entrambi gli sposi erano stati eletti dalle rispettive famiglie come i più degni di instaurare l’unione fra i due illustri lignaggi[11].

Alessandra, dunque, era stata allevata dalla madre secondo i più tradizionali princìpi educativi dell’aristocrazia mercantile fiorentina: princìpi che concordano fedelmente con i consigli indirizzati dall’arcivescovo Antonino a Dianora Tornabuoni qualche anno più tardi, ma pur sempre nel medesimo clima culturale. La fanciulla, scrive Vespasiano: «non fu cosa che non volesse imparare […]. Rarissime volte era veduta all’uscio o a finestra, sì perché non se ne dilettava, il simile perché occupava il tempo in cose laudabili. Menavala la madre il più dei dì, la mattina a una grandissima ora, a udire la messa, tutte col capo coperto e col viso ch’appena si vedevano»[12], e per questa sua educazione «tutti i parenti e gli amici di messer Palla [Strozzi] si accordarono si togliesse [in moglie] l’Alessandra per Lorenzo, per la più degna della città di tutte le parti»[13].

Le doti femminili della giovane sposa ebbero modo di rivelarsi pubblicamente, a onore e vanto sia della sua famiglia che dell’intera città, nel 1432, proprio in occasione di un ballo organizzato dal Comune, sulla piazza dei Signori, per accogliere gli ambasciatori dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, allora di passaggio in  Italia. Alessandra, infatti, si distinse da tutte le altre invitate alla festa per la squisita educazione dimostrata nel ricevere gli ospiti di riguardo, nell’intrattenerli con amabile conversazione, nel servirli delle confetture dolci solitamente offerte in queste circostanze, nell’accompagnarli compostamente nelle danze:

Fu messa l’Alessandra, per la più bella e la più onesta tra ogni cosa vi fusse, allato al primo ambasciatore. […] Ognuno si meravigliava della destrezza dell’Alessandra, quanto sapeva fare ogni cosa bene. Ballato per lungo spazio, fu ordinata una bellissima collezione, e fuori dell’ordine di portare le collezioni in simili feste. Per la sua destrezza fu ordinato che la Alessandra pigliassi in mano una confettiera piena di confetti e portassegli lei agli ambasciatori, con una tovagliuola di rensa in sulla spalla. Pigliolla, e con una ismisurata gentilezza la porse agli ambasciatori, sempre facendo reverenza con inchini fino in terra, naturali e non sforzati, che pareva che non avessi fatto mai altro. Piacqueno i sua modi e costumi mirabilmente agli ambasciatori e a tutti i circostanti. Posto giù i confetti, prese le tazze del vino e fece il simile, e tutto fece in modo che pareva l’avessi fatto sempre, e non pareva allevata con donna inesperta, ma con prudentissima, ch’insino a ogni minima cosa gli aveva insegnato[14].

Ho voluto riportare un ampio stralcio della lunga descrizione di Vespasiano in quanto considero la sua testimonianza significativa per più riguardi. In primo luogo perché sottolinea l’importanza di un’educazione femminile non solo moralmente irreprensibile, ma anche versatile in ogni genere di incombenza sia nella vita casalinga, sia nel cerimoniale pubblico; in secondo luogo perché evidenzia la centralità della donna come depositaria e perno della buona conduzione familiare e, di conseguenza, della ricchezza e del decoro dei mercanti; infine perché rileva la natura ancipite delle donne fiorentine, mogli e figlie di imprenditori facoltosi, che, in questa prima metà del Quattrocento, cercavano di coniugare il loro ruolo più tradizionalmente domestico con una nuova immagine improntata a gusti e a gesti aristocratici mutuati dal modello cortigiano e cavalleresco. In quest’ultima direzione, in particolare, è da notare la fine osservazione del Bisticci a proposito dell’abilità di Alessandra nel servire gli ambasciatori tenendo «una tovagliuola di rensa in sulla spalla», perché il dettaglio, apparentemente secondario, denota, invece, la capacità della fanciulla di svolgere un compito cerimoniale considerato prettamente maschile dall’etichetta cortigiana, che prescriveva ai rampolli dei casati cittadini di servire da paggi in livrea e, per l’appunto, con un pregiato tovagliolo di lino fiammingo appoggiato sulla spalla (la « tovagliuola di rensa», cioè di Reims), in occasione di nozze e conviti, come ben si vede nelle due schiere di giovani in primo piano, sulla destra e sulla sinistra, del dipinto botticelliano raffigurante il Banchetto di nozze di Nastagio degli Onesti, quarto pannello della serie realizzata per il matrimonio di Giannozzo Pucci con Lucrezia Bini nel 1483 (fig. 3), e come si apprende dalle descrizioni coeve, fra le quali ricordo solo, a titolo di esempio, il banchetto organizzato in palazzo Medici in onore di Eleonora d’Aragona, di passaggio a Firenze nel 1473 per recarsi a Ferrara dove avrebbe sposato il duca Ercole I d’Este. In quella occasione, infatti, la stessa principessa ricorda in una lettera che «Lorenzo e Giuliano servéro [a tavola] da scuderi» in segno di deferente omaggio e ospitalità[15].


3. La “dama”, ovvero l’idealizzazione cavalleresca della donna nella cerimonialità degli anni Sessanta: Marietta degli Strozzi e Lucrezia Donati Ardinghelli.


Nel decennio ‘spensierato’ della brigata del giovane Lorenzo de’ Medici, all’incirca fra il 1459 – anno della sua prima uscita cerimoniale pubblica – e il 1469 – data della sua vittoria nella giostra di carnevale, del suo matrimonio con la romana Clarice Orsini e della sua successione alla guida di Firenze dopo la morte del padre Piero –, l’ispirazione cavalleresca e cortigiana delle manifestazioni ufficiali e delle celebrazioni nuziali organizzate dagli esponenti del ceto dirigente, che fino ad allora si era mantenuta su un tenore ancora contenuto e discreto, assunse toni di evidenza sempre crescente e investì, in forme via via più esplicite, i comportamenti dei giovani appartenenti ai casati più vicini alla famiglia egemone.

A differenza dalla prima metà del secolo, nella quale la visibilità della donna era stata attentamente limitata alla sfera delle celebrazioni di rilievo pubblico o familiare, in questo fondamentale periodo di passaggio dalla cultura umanistica civile dell’età di Cosimo il Vecchio a quella spregiudicatamente neoplatonica del Lorenzo degli anni ’70-’80, i comportamenti della selezionata élite di sodali che frequentava i giovani Medici incominciarono a ispirarsi, non più solo idealmente ma anche operativamente, alla cultura cavalleresca. Con gusto tutto cortese le fanciulle furono, dunque, trasformate in dame, e la loro immagine fu filtrata attraverso gli stilemi della letteratura cavalleresca che proprio in quegli anni, con il Morgante di Luigi Pulci[16], avrebbe raggiunto la sua veste poetica più compiuta.

«Letteratura come modello di vita», insomma, per richiamare una brillante definizione di Mario Martelli[17], che prendeva le mosse da questa affermazione per commentare la produzione encomiastica in prosa e in versi composta a ricordo di una battaglia a palle di neve e di un’armeggeria giocate, durante il carnevale del 1464, da un gruppo dei più fedeli compagni della brigata laurenziana.

Il 20 di gennaio di quell’anno, alcuni fra i primi giovani della città, capeggiati da Bartolomeo Benci, sfruttarono, infatti,  l’occasione di un’abbondante nevicata per organizzare uno scontro, a palle di neve appunto, davanti alla dimora di Marietta Strozzi, che rispose con ammirevole garbo dalle finestre alle quali era affacciata. Il gioco avvenne di notte, avvolto dalla suggestione del buio screziata dai bagliori delle torce, come racconta Filippo Corsini in una lettera all’amico Lorenzo de’ Medici allora a Pisa:

Che spettacolo, santi numi!: la scena era adorna come si conveniva alla qualità degli attori, dalle luci di innumerevoli torce, dal clangore delle trombe, dalla soavità dei flauti. Ma a questo punto temo che il mio rozzo stile non sappia esprimere quanto in quella notte ho visto con i miei occhi. […] Ciascuno di loro riteneva di aver fatto qualcosa di segnalato se fosse riuscito a cospargere di neve il volto di quella nivea fanciulla, tanto che tu [Lorenzo] avresti facilmente potuto dire che insomma non di un gioco alle palle di neve si trattasse, ma, con tanta brama di gloria sembravano combattere, di una gara fra arcieri a chi meglio centrasse quello che i greci chiamavano «skopos». Quanto alla fanciulla, ella ha dimostrato con quale grazia e con quale abilità sappia condurre il gioco – non parlo della sua bellezza, a tutti nota –, talché uscì dalla prova universalmente apprezzata[18].

Qualche tempo dopo la battaglia a palle di neve, il 14 febbraio, lo stesso Bartolomeo si mise a capo di un’altra brigata filomedicea[19], per organizzare un’armeggeria davanti al palazzo della Marietta. L’iniziativa andava ben oltre il semplice gioco, coinvolgendo un numero considerevole di partecipanti (circa cinquecento fra cavalieri e scudieri stando alle descrizioni) e mettendo in moto una complessa macchina spettacolare che si sarebbe conclusa con lo scoppio di un carro rappresentante un Trionfo d’Amore: un soggetto molto raro nella storia dello spettacolo fiorentino, probabile conseguenza e causa insieme della notevole fioritura figurativa di questo tema petrarchesco (fig. 4)[20].

In onore della fanciulla, dunque, i giovani:

giunti a casa della dama, feciono la mostra. E appresso, ciascuno corse ritto in sulla sella, secondo uso d’armeggeria, con uno dardo in mano dorato. E dipoi ancora, ciascuno corse con una lancia busa, dorata; e ruppono a piè della finestra dov’era detta dama. La quale si mostrava in mezo di quattro torchi acesi, con tanta graziosa onestà che una Lucrezia basterebbe. Et fatto questo, el Trionfo era fermo sulla piazza, dirimpetto alla finestra dov’era detta dama: e al Signore [Bartolomeo Benci] fu ispiccate l’alie[21] e gittate in sul Trionfo; e in quel punto, era ordinato che a detto Trionfo s’appiccassi el fuoco: e così arse […]. E così acesi per l’aria [i razi che v’erano su, artificiati] volavano apresso alla dama: alcuno n’andava in casa della detta dama, che si istima glien’entrassi alcuno nel cuore, per compassione del detto amante[22].

La descrizione di questa festa – che fu celebrata anche da un poemetto laudativo composto dal mediceo Filippo Lapaccini [23] – così è intitolata nel manoscritto che la conserva: «Notizia d’una festa fatta la notte di carnasciale per una dama la quale fu figliuola di Lorenzo di messer Palla degli Istrozi. La detta festa fu fatta da Bartolomeo Benci, come innamorato di detta dama»[24]. Nell’opuscolo encomiastico, la “fanciulla” della informale e amichevole lettera del Corsini a Lorenzo era, dunque, diventata una “dama”, secondo la terminologia cortese ormai ampiamente diffusa dalla letteratura cavalleresca, mentre il responsabile dell’iniziativa appariva averla intrapresa “come innamorato” di lei. In quel “come” sta tutto il senso culturale e politico dell’operazione. Culturale, perché i due protagonisti della vicenda non erano amanti nella realtà, e probabilmente neppure innamorati, ma vestivano i panni di dame e cavalieri epici in una finzione squisitamente letteraria, cogliendo altresì l’occasione sia per sfoggiare abiti e gioielli altrimenti proibiti dalle severe leggi suntuarie, sia per esibire comportamenti altrettanto eccezionali rispetto ai mores cittadini. Politico, perché Marietta, in quanto figlia di Lorenzo di Palla Strozzi, apparteneva ad una delle famiglie fiorentine più ricche e antiche, benché in quel momento fosse tagliata fuori dalle cariche pubbliche in quanto i rappresentanti del ramo principale, Filippo e Lorenzo di Matteo, erano in esilio, e soggiornavano a Napoli presso il re Ferrante d’Aragona, del quale godevano i favori. Bartolomeo, invece, proveniva da un casato solidamente legato ai Medici, dei quali, in questa occasione, diventava, di fatto portavoce, palesando, attraverso il linguaggio simbolico dello spettacolo, la volontà della famiglia egemone di cercare nuove alleanze fra i lignaggi cittadini di maggiore prestigio[25].

Oltre che da Lorenzo di Palla Strozzi, Marietta era, però, nata anche da quella Alessandra de’ Bardi la cui virtù sarebbe stata resa proverbiale dalla biografia del Bisticci. Ed è proprio dal confronto fra il comportamento della madre e quello della figlia che si può cogliere il cambiamento di clima e di sensibilità culturale che stava avvenendo in seno all’oligarchia più strettamente filomedicea, e quello scambio fra vita e letteratura che non era appartenuto alle generazioni precedenti. Di Alessandra, infatti, negli anni Trenta del Quattrocento, erano state soprattutto apprezzate l’educazione, la modestia, la capacità di svolgere al meglio qualsiasi incombenza domestica, doti che già si intuivano dal decorum del suo comportamento cerimoniale, e che sarebbero state confermate dalla fermezza di carattere da lei dimostrata nell’affrontare le sventure familiari che le sarebbero toccate[26]. Non a caso Vespasiano l’aveva chiamata sempre per nome, senza aggiungere nessun altro appellativo, quasi a voler sottolineare la concretezza ‘storica’ della persona, contro qualsiasi possibile idealizzazione letteraria.

Le virtù di Marietta, a metà degli anni Sessanta, erano, invece, ben altre: della fanciulla veniva lodata in primo luogo l’eccezionale bellezza – certamente confermata dal busto di Desiderio da Settignano che la dovrebbe ritrarre (fig. 5) –, e poi la grazia con la quale era riuscita a interpretare il ruolo di dama destinataria sia dei ludi gentili a lei indirizzati, sia di un corteggiamento, da parte del Benci, tanto esibito pubblicamente quanto, abbiamo visto, motivato solo politicamente[27]. E non soltanto i giochi di carnevale e le relative descrizioni avevano sollecitato l’attenzione dell’élite fiorentina nei confronti della ragazza, perché anche altri versi l’avevano celebrata nel medesimo torno di tempo, sempre vantandone le doti in termini squisitamente letterari[28].

Un’immagine sovra esposta quella della Marietta, diremmo con il lessico dei giorni nostri: così sovra esposta che, a breve distanza da quel carnevale del ’64, che ne aveva sancito il momento di massima notorietà a Firenze, si sarebbe decisamente ‘bruciata’, ‘logorata’. Se, infatti, in quel torno di tempo la giovane era apparsa a molti come uno dei migliori partiti matrimoniali della città per bellezza, lignaggio e ricchezza, già all’inizio dell’anno successivo, ella era «scesa di un grande iscaglione»[29] a causa soprattutto del fallimento finanziario dello zio Giovanfrancesco che portava disonore alla famiglia, ma a motivo anche di un eccesso di visibilità che la disgrazia economica dei parenti non consentiva più di giustificare socialmente. La critica, neppure troppo larvata, alla convenienza di scegliere Marietta come sposa, emerge con espressioni significative da una lettera di Filippo Strozzi al fratello Lorenzo, che avrebbe desiderato sposare quella fanciulla sopra ogni altra:

Resto avisato della pratica savate mossa della Marietta …. E dell’openione tuo intendo; simile, come Marco [Parenti, cognato dei fratelli Strozzi] e mona Lessandra [Macinghi Strozzi, loro madre] vi consentono; …. E vorresti averne mio opinione. A che ti dico, ch’io sono di contrario parere di voi; che non sia né ’l bisogno tuo né della Casa Nostra. Confessoti che sia da mettere per bella fanciulla, o vuoi dire donna, e che ha buona dota: ma in opposito mi pare vi sieno tante parti che pesono assai più che le buone. Di prima faccia, a chi lo sentirà, parrà che noi vi manchiamo di riputazione, perché la mercatanzia non va, tanto è soprastata e suta percossa e costì e altrove; e l’essere trasandata di tempo, e sanza padre e sanza madre[30], e fuori di casa sua[31], essendo bella, non sarebbe gran fatto che ci fussi qualche macchia[32].

L’argomentare, molto preciso e incisivo nella scelta dei termini, potrebbe essere preso come modello esemplare della politica matrimoniale fiorentina del XV secolo, soprattutto se letto in parallelo con le lettere della Macinghi Strozzi (e del genero Marco Parenti[33]), relative alla sua ricerca di una sposa per i figli esuli, e con i commenti in esse espressi. Secondo Filippo Strozzi la giovane, benché bella e fornita di una dote cospicua, non era più propriamente una “fanciulla” ma ormai una “donna”[34], perché troppi pretendenti l’avevano richiesta o a troppi era stata promessa, con il risultato che ella, dopo essere stata tanto ipervalutata (“soprastata”), appariva ormai “percossa”, oltre che non più giovanissima (“trasandata di tempo”), e forse neppure più del tutto innocente (“non sarebbe gran fatto che ci fussi qualche macchia”), vista la sua condizione di orfana eccessivamente bella per non essere allevata e sorvegliata in casa, con il giusto rigore, dai parenti. Il tenore merceologico di questa testimonianza riflette perfettamente il ‘mercato’ nuziale fiorentino – perché in un vero e proprio ‘mercato’ in realtà consisteva la politica delle alleanze matrimoniali –[35], mettendo in evidenza come l’eccesso di visibilità della donna venisse ancora, in quegli anni, a scontrarsi con le consuetudini educative cittadine, a dispetto di qualsiasi trasfigurazione cavalleresca e letteraria dei rapporti fra i due sessi, e di come, dunque, in tutta l’oligarchia fiorentina, filo o anti medicea, vigessero ancora i medesimi principi morali.

Non diverso, sul piano culturale, è il caso di Lucrezia Donati, la cui bellezza era proverbiale quanto quella di Marietta, che Lorenzo il Magnifico scelse come dama nella giostra da lui vinta nel 1469. Andata sposa nel ’65 a Niccolò Ardinghelli, appartenente ad una famiglia di esuli recentemente riavvicinatisi ai Medici[36], ella divenne la musa ispiratrice di Lorenzo negli anni precedenti il suo matrimonio con Clarice Orsini, e protagonista non solo di una finzione di innamoramento letterario-cavalleresco – alimentata da sonetti e poemetti laudativi, fra i quali, su tutti, la Giostra di Luigi Pulci[37] –, ma anche di balli e festeggiamenti esclusivi organizzati in suo nome dai più stretti sodali della brigata laurenziana guidati dal loro anfitrione.

Questi passatempi, a differenza dalle feste predisposte dal Comune per accogliere ospiti di riguardo o per celebrare particolari ricorrenze, quali quella rammentata dal Bisticci nella vita di Alessandra de’ Bardi, non si svolgevano in pubblico ed erano perciò sottratti alla fruizione, anche puramente passiva e contemplativa, dei fiorentini comuni, introducendo nei comportamenti della élite medicea una nota di trasgressione rispetto alle usanze dell’oligarchia più conservatrice[38]. La ‘dama’ eletta veniva, in questo contesto, ad assumere atteggiamenti in tutto contrastanti con i principi morali che abbiamo visto presiedere all’educazione delle fanciulle aristocratiche, sia per la vanità sollecitata dagli abiti e dai gioielli indossati in quelle occasioni, sia per la promiscuità con gli uomini che necessariamente si creava durante le feste, sia per le sollecitazioni mondane – per non dire esplicitamente sessuali – che da quella promiscuità potevano derivare. Basta anche solo ripensare alle istruzioni dell’arcivescovo Antonino Pierozzi a Dianora Tornabuoni, a proposito del contegno da tenere durante le feste, per comprendere quanta distanza si fosse insinuata fra gli usi celebrativi del comune oligarchico e quelli in voga fra la gioventù ottimatizia laurenziana.

Ma la finzione letterario-cavalleresca non era sufficiente per mascherare o mitigare la trasgressività di quei comportamenti, come testimoniano i commenti di Filippo Strozzi sulla Marietta, e come confermano le affermazioni di Alessandra Macinghi Strozzi a proposito della stessa Lucrezia. Il 29 marzo del 1465 la nobildonna riferiva, infatti, di come Lorenzo de’ Medici avesse interceduto presso il padre Piero per far richiamare a Firenze Niccolò Ardinghelli, pensando di fare «piacere alla suo’ dama [scil.: di Lorenzo] e donna [scil.: moglie] di Niccolò, perché ne facci a lui; che ispesso la vede!», e aggiungeva amaramente, visto che a lei non riusciva di far rientrare i figliuoli dall’esilio nonostante le importanti raccomandazioni: «Gioverà forse più l’avere bella moglie, ch’e prieghi di 47 [il re di Napoli]»[39]. E ancora, un paio di anni dopo, riferiva al figlio Filippo:

[Firenze,] Ricordami ora di dirti che Niccolò Ardingelli ti potrà pagare, ché si dice ha vinto bene otto mila fiorini. Doverra’lo avere sentito alla tornata delle galee. La donna  sua è qua, e gode, che s’ha fatto di nuovo un vedistire con una livrea, e suvvi poche perle, ma grosse e belle: e così si fece a dì 3, a suo’ stanza, un ballo nella sala del Papa a Santa Maria Novella, che l’ordinorono Lorenzo di Piero. E fu lui con una brigata di giovani vestiti della livrea di lei, cioppette pagonazze ricamate di belle perle. E Lorenzo è quegli che portano bruno colla livrea delle perle, e di gran pregio! Sicché fanno festa della vincita di tanti danari[40].

«La donna  sua è qua, e gode»: non era certamente questo il comportamento appropriato per la moglie devota di un esponente dell’oligarchia fiorentina costretto a stare per mesi lontano da casa, e questo indipendentemente dal fatto che i rapporti fra Lorenzo e Lucrezia avessero effettivamente superato i limiti della finzione letteraria, sospetto che, peraltro, nessuna testimonianza consente di fondare con certezza[41].


[II parte]



 

[1] Si veda il sito www.visualart-journal.net

[2] Per la fortuna letteraria e pubblicitaria di Simonetta, da Gabriele D’Annunzio al logo di Legambiente, cfr. R. Farina, Simonetta. Una donna alla corte dei Medici, Torino 2001, pp. 36n e 109-113.

[3] N. Mineo, Cattaneo, Simonetta, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1979, [da ora in poi DBI], vol. 22, p. 485; e I. Tognarini, L’identità e l’oblio. Simonetta, Semiramide e Sandro Botticelli, Milano 2002.

[4] Sulla politica culturale del Magnifico: M. Martelli, La cultura letteraria nell’età di Lorenzo, in Lorenzo il Magnifico e il suo tempo, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1992, pp. 39-84.

[5] Cfr. C. Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari 1988.

[6] A. Molho, Marriage Alliance in Late Medieval Florence, Cambridge Mass.London 1994.

[7] Opera a ben vivere di Sant’Antonino dell’ordine dei predicatori, arcivescovo di Firenze, con prefazione del p. L. Ferretti, Firenze 1923, pp. 155-156, con lievi interventi sulla punteggiatura.

[8] «E questo medesimo, figliuola mia, vi dico dello stare il dì o la sera in sull’uscio a farsi vedere o a vedere altrui, come oggidì fanno molte donne, che voi ve ne guardiate quanto potete […]. Similemente anco non mi contento che stiate alle finestre a vedere chi passa, e meno che potete vi fate ad esse»: ivi, p. 157.

[9] B. del Corazza, Diario fiorentino (1405-1439), a cura di R. Gentile, Anzio 1991, pp. 66-67.

[10] P. Schubring, Cassoni. Truhen und Truhenbilder der italianischen Frührenaissance. Ein Beitrag zur Profanmalerei im Quattrocento, Leipzing 1915; e E. Callman, Apollonio di Giovanni, Oxford 1974.

[11] Cfr. anche A. Alessandrini, Alessandra de’ Bardi, DBI, vol. 6, pp. 277-278.

[12] V. Da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, Firenze 1938-XVI, pp. 562-63, con lievi interventi nella punteggiatura in questa e nelle citazioni che seguiranno.

[13] Ivi, p. 565, corsivo mio. Il termine «parti» va qui inteso nel senso politico di ‘partito’, ‘fazione’, ‘clan’.

[14] Ivi, pp. 566-567. Sui significati politici e sociali di questo ballo cfr. R.C. Trexler, Public life in Renaissance Florence, New York 1980, pp. 236-38.

[15] Cfr. C. Falletti, Le feste per Eleonora d’Aragona da Napoli a Ferrara (1473), in Teatro e culture della rappresentazione cit., pp. 121-140: p. 134.

[16] M. Martelli, Letteratura fiorentina del Quattrocento. Il filtro degli anni Sessanta, Firenze 1996, pp. 198-240.

[17] Ivi, p. 106.

[18] La traduzione è di Martelli, ivi, p. 108, il corsivo è mio.

[19] Sulle brigate di iuvenes e sulla funzione politica dei giochi cavallereschi, cfr.: Trexler, Public life in Renaissance Florence cit., pp. 224-240 e 215-235; “Le tems revient” – “’l tempo si rinuova”. Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, a cura di P. Ventrone, catalogo della mostra, Milano 1992, passim;  L. Ricciardi, “Col senno, col tesoro e colla lancia”. Riti e giochi cavallereschi nella Firenze del Magnifico Lorenzo, Presentazione di F. Cardini, Firenze 1992, pp. 71-83; F. Cardini, L’acciar de’ cavalieri. Studi sulla cavalleria nel mondo toscano e italico (secc. XII-XV), Firenze 1997, pp. 129-130.

[20] Esempi figurativi di Trionfi d’Amore fiorentini prossimi agli anni che qui ci interessano sono riprodotti in “Le tems revient” cit., schede 2.6., 2.8., 2.9., e passim.

[21] Bartolomeo Benci indossava, infatti, un «giubone di perle ricamato di gioie, con due alie alle spalle, d’oro e più altri colori» che lo assimilavano a Cupido e che sarebbero state bruciate sul trionfo in segno di capitolazione dell’amante al cospetto della dama.

[22] L’anonimo ricordo in prosa è stato pubblicato da A. Gherardi, Nota dell’armeggeria fatta da Bartolomeo Benci alla Marietta degli Strozzi il 14 febbraio 1464 in Firenze, Firenze 1876.

[23] L'armeggeria di Tommaso Benci, in Lirici toscani del '400, a cura di A. Lanza, Roma 1973-75, vol. II, pp. 1-17. Su questo genere di testi cfr. R. Bessi, Lo spettacolo e la scrittura, in “Le tems revient” cit., pp. 103-117.

[24] Cit. in I. Del Lungo, La donna fiorentina del buon tempo antico, Firenze 19262, p. 207, corsivi miei.

[25] M. Martelli, Nota a Naldo Naldi, ‘Elegiarum’, I 26 54, «Interpres», III (1980), pp. 245-254.

[26] A questo proposito si veda la già citata biografia di Vespasiano da Bisticci.

[27] Per notizie biografiche sulla Marietta cfr. Del Lungo, La donna fiorentina cit., p. 210.

[28] Si tratta delle due elegie del poeta mediceo Naldo Naldi: Martelli, Nota a Naldo Naldi cit., pp. 245-252.

[29] L’espressione è usata da Alessandra Macinghi negli Strozzi, Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, pubblicate da C. Guasti, Firenze 1877, p. 346.

[30] Il padre era, infatti, morto nel 1451, la madre alla fine del 1465.

[31] Rimasta orfana, Marietta fu ospitata a Ferrara da uno zio: Martelli, Nota a Naldo Naldi cit., p. 248n.

[32] Macinghi negli Strozzi, Lettere di una gentildonna cit., p. 594, corsivi miei.

[33] Marco Parenti, Lettere, a cura di M. Marrese, Firenze 1996.

[34] Dove il termine “donna” allude ad una possibile maturazione sessuale, in contrapposizione alla condizione di “fanciulla” inesperta di cose d’amore: cfr. N. Tommaseo-B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino 1865, sub voce “Donna”, lemma 16.

[35] Cfr. A. Molho, Marriage alliance cit.

[36] Su di lui cfr. Rochon, La jeunesse de Laurent de Médicis cit., pp. 94-97 e note.

[37] In L. Pulci, Opere minori, a cura di P. Orvieto, Milano 1986, pp. 53-120; Rochon, La jeunesse de Laurent de Médicis cit., pp. 94-97 e note.

[38] Se ne ritrovano echi, ad esempio, nella canzone di Luigi Pulci, Da poi che ’l Lauro, in Idem, Opere minori cit., pp. 44-50. Con la definizione “aristocrazia più conservatrice” distinguo, le famiglie oligarchiche di più antica formazione, come Albizzi o Tornabuoni, da quelle più recenti come gli stessi Medici, che nutrivano sentimenti politici profondamente diversi intorno alla gestione dello Stato. Cfr. M. Martelli, Firenze, in Letteratura italiana. Storia e geografia, II: L'età moderna, Torino, Einaudi, 1988, pp. 25-201:  passim,

[39] Lettera datata 29 marzo 1465: Macinghi negli Strozzi, Lettere di una gentildonna cit., pp. 385-386.

[40] 17 febbraio 1467: ivi, p. 575, corsivo mio; cfr. anche Warburg, Delle «imprese amorose» cit., p. 186.

[41] Questo sospetto è stato avanzato da Rochon, La jeunesse de Laurent de Médicis cit., pp. 93-99.


[II parte]






 

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