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Maria Chiara Barbieri

Maria Chiara Barbieri La pagina e la scena - L’attore inglese nella trattatistica del ‘700

Data di pubblicazione su web 20/12/2007
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Pubblichiamo un estratto dal volume di Maria Chiara Barbieri,  La pagina e la scena - L’attore inglese nella trattatistica del ‘700, Firenze, Le Lettere, 2006.

 

 

Nell'Inghilterra del Settecento il problema del rapporto tra testo drammatico e rappresentazione, dopo la frattura causata dalla chiusura dei teatri nel periodo del Commonwealth, si era presentato come tra i più urgenti da affrontare. L’insegnamento di una parte da attore ad attore era considerato di essenziale importanza per conservare le indicazioni originarie fornite dal drammaturgo, ritenuto l’unico che poteva definire la corretta linea interpretativa di un personaggio. Solo in alcuni casi, tuttavia, era possibile disporre degli interpreti originali o di chi da essi erano stati addestrati, dato che pochi attori, oltre ad Hart e a Mohun [1], erano già in attività prima del Commonwealth. Davenant si investì personalmente dell’autorità e dell’onere di fungere da anello di collegamento tra la generazione di attori attivi prima della chiusura dei teatri e quella di chi intraprese la professione dopo il 1660, individuando in Thomas Betterton l’attore che poteva diventare, come in effetti accadde, il capofila della nuova generazione, l’erede di una tradizione recitativa che si voleva fluisse ininterrotta dal periodo shakespeariano, fissato come epoca d’oro della drammaturgia e dell’arte della recitazione. Le modalità di trasmissione dei modelli recitativi vengono ricordate nel 1708 dal prompter John Downes quando afferma, riferendosi probabilmente alla prima rappresentazione di Hamlet dopo la Restaurazione, andata in scena nell’agosto 1661:

Hamlet era interpretato da Mr. Betterton. Sir William [Davenant], che aveva visto Mr. Taylor [2] della compagnia del Blackfriars recitare la parte, a sua volta istruito da Mr. Shakespeare, insegnò a Mr. Betterton ogni piccolo particolare. L’interpretazione, eseguita seguendo esattamente tale insegnamento, gli fece guadagnare stima e reputazione [3].

Questa procedura dava una risposta all’impellente bisogno di riallacciare le fila con il passato in un momento in cui, per forza di cose, l’unico repertorio a disposizione risaliva a diversi decenni prima e la preparazione degli attori disponibili era quantomeno approssimativa ed eterogenea. È possibile che il sistema di trasmissione delle parti da attore ad attore fosse reputato necessario soprattutto per gli attori (per i personaggi) principali, mentre si ritenesse sufficiente, per la preparazione degli altri attori, le nurseries, vivai utili anche a mettere in luce giovani di talento eventualmente da affidare alle cure degli attori più eminenti. Va inoltre ricordato come il sistema di trasmissione da attore ad attore – fosse esso realmente applicato o solo elevato a principio ideale – fosse possibile e in qualche modo dipendesse da una particolare condizione. Alla riapertura dei teatri, nel 1660, i drammi in quel momento reperibili, destinati a formare il primo nucleo del repertorio, erano stati equamente distribuiti ai due impresari Davenant e Killigrew. Tale assegnazione tendeva a ricreare una situazione precedente, quando ogni singolo dramma era di proprietà esclusiva di una sola compagnia e, di conseguenza, ogni parte di protagonista appannaggio di un solo attore.

Ma naturalmente le carte cominciarono a mescolarsi abbastanza presto. Non grazie ad una libera circolazione dei testi drammatici, ma per l’osmosi che andò stabilendosi, sia pure con lentezza, tra le due compagnie, con attori che iniziarono con relativa disinvoltura a passare dall’una all’altra.

Quando Colley Cibber si accinse ad elaborare l’adattamento del Richard III, di cui ho già avuto occasione di parlare, sapeva che la parte del protagonista sarebbe stata interpretata da Samuel Sandford [4]. Lo sapeva perché le poche volte in cui la tragedia era stata allestita, le ultime intorno al 1690, Thomas Betterton aveva affidato a lui la parte, riservando a sé quella di Edward IV [5]. Con buona probabilità Cibber non era stato presente a nessuno degli spettacoli, ma conosceva bene l’attore, ancora nella compagnia. È anzi possibile che abbia pensato di mettere mano al Richard III confidando nell’interpretazione di Sandford, nella sua capacità di valorizzare e di portare al successo l’adattamento. Si dichiarò persuaso che Shakespeare stesso, se avesse potuto, avrebbe scelto lui per la parte di Richard. Quando però l’adattamento fu pronto, Sandford non era più disponibile, poiché nel frattempo era passato al teatro rivale [6]. Solo per questo motivo, Cibber decise di assumere il ruolo del protagonista, e immaginando come avrebbe potuto interpretarlo Sandford, si prefisse di imitarne le maniere.

Il giudizio dato da Sir John Vanbrugh, il quale, secondo quanto riferisce lo stesso Cibber, avrebbe trovato straordinaria la sua imitazione, agli occhi dell’attore equivalse ad una promozione a pieni voti. Non fu della stessa opinione l’anonimo autore di The Laureat (e molti altri), che in una spassosa descrizione dell’attore, disse come attraverso la sua interpretazione egli avesse trasformato il dramma in farsa, offrendo un disgustoso spettacolo di sé avvolgendosi nel mantello regale e schiamazzando «per quattro atti senza alcuna dignità e decenza» [7].

Ad ogni modo, in qualche caso la perdita definitiva dei modelli recitativi di riferimento fu ascritta all’interruzione del metodo di trasmissione diretta delle modalità d’interpretazione. Senza tali modelli fu talvolta ritenuto impossibile allestire alcune pièces di grande valore, come afferma James Wright:

Quando è stata posta la questione del perché gli attori non riproponessero The Silent Woman o altri drammi di Jonson (un tempo molto considerati), essi [gli attori] hanno risposto che, in verità, nessuno può rappresentare correttamente quelle parti giacché tutti quelli che avevano qualche relazione con il Blackfriars (dove venivano recitate alla perfezione) sono morti, e quasi dimenticati [8].

Le argomentazioni addotte dagli attori intervistati da Wright non convincono fino in fondo, anche perché, tra l’altro, The Silent Woman era stato uno dei primi drammi ad essere proposti dopo la riapertura dei teatri, rimanendo in repertorio almeno per tutti gli anni Sessanta. Comunque, quanto egli riferisce segnala in modo significativo il bisogno di stabilire un filo di continuità con la tradizione autoctona: un’operazione tendente a costruire un mito del passato da cui il presente traeva prestigio e legittimazione.

Quando però Gildon, all’inizio del Settecento, sollecita la riaffermazione dell’autorità del drammaturgo, pensa soprattutto all’autore vivente. Tramite “Betterton”, infatti, si lamenta dei nuovi attori, i quali, a differenza di quelli della generazione precedente, nell’affrontare i ruoli «ritengono [...] fuori luogo chiedere istruzioni all’autore, e benché non sappiano nulla di poesia, danno il loro parere e trascurano o considerano una parte a seconda del valore che attribuiscono alla parte stessa e all’autore» [9]. Non è da escludere che le argomentazioni possano dipendere da vicende biografiche, ossia dalla tiepida accoglienza ricevuta da alcune sue pièces a teatro, che Gildon potrebbe aver addebitato ad una loro sottovalutazione o ad una errata interpretazione.

La diminuzione dell’importanza dell’autore drammatico, a fronte di un aumento di quella dell’attore, benché tra i due fenomeni non vi sia un diretto rapporto di causa ed effetto, vanno entrambi progressivamente imponendosi nel corso del secolo, ma la distinzione tra autore vivente e autore scomparso è rilevante e merita un approfondimento.

Esaminando molto rapidamente l’evoluzione della composizione dei repertori dei teatri londinesi, si può vedere come alla già menzionata necessità di attingere ai drammi del passato nel periodo immediatamente successivo alla riapertura dei teatri nel 1660, segua qualche decennio di grande vivacità creativa, con una produzione notevole in termini quantitativi e soprattutto qualitativi. La drammaturgia di quel periodo, assieme a quella elisabettiana (soprattutto Shakespeare), andrà a formare lo zoccolo duro del repertorio di quasi tutto il diciottesimo secolo, grazie alla sua oggettiva qualità, ma anche per gli ostacoli che la nuova produzione drammaturgica si troverà a dover affrontare, causati prima di tutto dalle restrizioni imposte dallo Stage Licensing Act. Tuttavia, sebbene nella stampa periodica e nei pamphlet fosse continuamente rimproverato agli impresari di allestire un numero troppo esiguo di drammi nuovi, durante tutto il Settecento fu messa in scena una notevolissima quantità di nuove pièces, anche se solo una percentuale molto bassa di esse entrò poi stabilmente nei repertori. Come ha messo in luce Allardyce Nicoll, circa il 50% dei drammi prodotti nella prima metà del secolo (ma la tendenza è attestata anche nella seconda metà) uscirono dalla penna di drammaturghi non professionisti, i cosiddetti one-play writers [10], i quali però venivano così definiti perché le loro opere (prime) non avevano ottenuto un successo sufficiente a far accettare agli impresari altri drammi. Gli one-play writers, oltretutto, costituivano solo la punta emergente dell’iceberg, dato che a fronte di chi era comunque riuscito a far accettare un proprio lavoro, ve ne erano tantissimi altri le cui velleità di scrittori drammatici erano destinate a rimanere tali. La proliferazione di aspiranti drammaturghi fu in un certo modo una conseguenza di quell’allargamento della base del pubblico già precedentemente descritto. O forse, meglio ancora, un fenomeno ad esso intrecciato. Tra i frequentatori dei teatri provvisti di un’istruzione anche modesta, il numero di quanti si sentiva­no sufficientemente qualificati ad esprimere un giudizio su spettacoli e attori, spesso in forma anonima, su qualche organo di stampa, andò via via crescendo, e tra loro molti tentarono anche la strada della scrittura drammatica.

È chiaro come, in una situazione di questo genere, il rapporto tra autore e impresario (che, va ricordato, nel Settecento sarà quasi sempre un attore) fosse tutt’altro che paritetico. Il drammaturgo, non solo non veniva quasi mai consultato su questioni inerenti la messinscena e l’interpretazione dei personaggi, ma doveva anche accettare tagli, aggiunte e modifiche praticate dall’actor-manager per rendere la pièce “fit for the stage” [11]. Naturalmente, se poi lo spettacolo faceva fiasco, l’autore si scagliava contro l’impresario con ogni mezzo a disposizione, mentre in caso di successo attribuiva il merito interamente a se stesso.

Se l’autorità del drammaturgo vivente era mediamente piuttosto bassa, quella del drammaturgo morto poteva raggiungere invece livelli decisamente elevati, come quella di Shakespeare, che come è noto nel corso del Settecento fu in continua ascesa. In verità, pochi altri autori godettero di una considerazione paragonabile alla sua, e nessuno, come lui, venne santificato. Il rispetto per l’autorità di un drammaturgo morto presentava notevoli vantaggi, perché permetteva di onorare un principio senza tuttavia rinunciare ad una discreta, benché non dichiarata, libertà di manovra.

Intorno alla metà del Settecento l’atteggiamento verso i testi di Shakespeare comincia a cambiare. Il principio di recupero dell’originale, già presente nel lavoro di quei letterati che nei primi anni del secolo iniziano ad occuparsi degli in-quarto e degli in-folio secenteschi, comincia a invalidare (più nelle dichiarazioni d’intenti che nella pratica) l’uso della libera alterazione inaugurato nel periodo della Restaurazione. Sebbene l’interesse di quegli studiosi fosse spesso circoscritto all’ambito letterario – le loro edizioni critiche erano finalizzate alla lettura, non alla rappresentazione – essi esercita­rono un’influenza sempre più forte sulla critica teatrale militante, orientandola verso una cre­scente valorizzazione di ciò che veniva ritenuto essere il ‘vero’ Shakespeare e contro le alterazio­ni, almeno contro quelle non di loro gusto.

L’interesse degli impresari teatrali era più concreto: a loro servivano degli acting-texts strutturati in modo da soddisfare esigenze molto pratiche. Ad esempio, i testi drammatici dovevano consen­tire spettacoli di una certa durata, possibilmente dovevano contenere parti musica­li con canti e danze, non offendere la mora­le (ovvero, la censura) e, sempre più frequentemente, far risaltare i ruoli destinati agli attori più importanti (spesso, gli impresari stessi). Se i testi nuovi dovevano possedere in partenza i requisiti idonei a soddisfare tali necessità, quelli già esistenti andavano conformati ad esse. Nonostante che la discussione sull’opportunità di riportare sulle scene i testi shakespeariani originali si facesse sempre più accesa, in definitiva, sul piano pratico, vennero semplicemente elaborati nuovi adattamenti nei quali furono espunte molte delle parti aggiunte nel periodo della Restaurazione, ne furono ripristinate alcune considerate originali e talvolta incluse altre di nuova composizione. Quando poi si riteneva che alcuni passi originali fos­sero brutti, rozzi e poco comprensibili, potessero offendere la sen­sibilità del pubblico (e/o quella dei critici) oppure fossero inutili, si procedeva con il bisturi, talvolta con l’accetta.

Il testo, insomma, diventava un prompt-book, un copione adatto al tipo di allestimento che si pensava avrebbe incontrato il gusto del pubblico in quel momento. A tale scopo veniva sottoposto a tutte le mo­difiche ritenute necessarie: si era sempre fatto e si con­tinuava a farlo, poiché il testo, anche quello dell’autore più eminente, non era mai stato considera­to sacro e inviolabile. Peraltro, non tutti erano consapevoli che i testi rappresentati a teatro erano spesso molto diversi da quelli originali. Se veniva allestito King Lear, il pubblico lo considerava un dramma di Shakespeare, senza dare alcun peso, talvolta senza nemmeno sapere che ad essere messa in scena sarebbe stata la versione di Nahum Tate del 1681, notevolmente diversa dall’originale [12]. Non lo sapeva il pubblico e spesso non lo sapevano nemmeno gli attori. Quando David Garrick nel 1743 decise di affrontare per la prima volta l’interpretazione di Macbeth, considerò l’impresa altamente rischiosa e difficile, tant’è che proprio in vista del suo debutto sentì il bisogno di scrivere un pamphlet, An Essay on Acting, presentato integralmente in questa raccolta, allo scopo principale di prevenire eventuali critiche negative. Prima di allora, solo in occasione del suo debutto assoluto, forse, aveva temuto così tanto il flop: non solo perché riteneva il personaggio particolarmente complesso e perché più di altre volte sentiva come il confronto con attori affermati nella parte potesse risolversi a suo svantaggio, ma anche perché il testo che lui si apprestava a mettere in scena era diverso da quello conosciuto dal pubblico, un adattamento approntato nel 1674 da William Davenant. Pur mantenendo molti elementi di quella versione [13], la sua risultò sicuramente più vicina all’originale. Nonostante i timori, sentiva la sua operazione di ‘ripulitura’ meritevole di essere evidenziata, e così sulla locandina annunciò che la tragedia sarebbe stata rappresentata «as Shakespeare wrote it». James Quin, l’interprete di Macbeth più famoso del momento, con indignata ma probabilmente genuina sorpresa, leggendo la chiosa di Garrick disse: «Cosa significa? Non recito anch’io Macbeth come è stato scritto da Shakespeare?» [14].

Talvolta, perfino critici abbastanza competenti e avveduti prendevano dei granchi. Accadde ad esempio a John Hill [15], quando si profuse in lodi del bardo nazionale attribuendogli una scena del Richard III scritta in realtà da Colley Cibber (16), e capitò anche a Samuel Foote, quando commentò una battuta che a suo modo di vedere delineava in modo particolarmente pregnante il personaggio di Lear (17): anche in quel caso il merito era di Nahum Tate, autore dell’adattamento già citato, non di Shakespeare. Con l’andare del tempo, comunque, il testo originale andò connotandosi sempre più come un valore da difendere: operazione possibile perché estremamente astratta. Diventò una consuetudine rimarcare sulla locandina quanto Garrick per primo aveva voluto sottolineare, e cioè che il dramma messo in scena era proprio di Shakespeare; salvo poi precisare, a riprova che si trattava dell’ennesimo adattamento, forse ma non necessariamente più ‘pulito’ del precedente, che era stato aggiunto o tolto qualcosa per ‘migliorarlo’.

Sembra perciò piuttosto chiaro come la figura del drammaturgo, vivo o morto che fosse, diventasse progressivamente più vaga e indistinta, sebbene i riferimenti all’autore continuassero ad essere ritenuti, in alcuni casi doverosi, utili, o anche necessari a convalidare le scelte interpretative. Almeno sul piano teorico, nel periodo della Restaurazione agli attori era richiesto di mettere le proprie doti al servizio del poeta, o meglio, della parola poetica: se le doti erano eccellenti, comprendendo tra esse cultura e intelligenza, l’attore che le possedeva era chiamato a svolgere un ruolo attivo nell’elaborazione dell’interpretazione, distinguendosi in questo dall’attore di più modesti mezzi, il quale doveva limitarsi ad essere un semplice e possibilmente umile esecutore delle indicazioni a lui fornite.

Di ciò è pienamente convinto Charles Gildon, come si è visto, ed è sostanzialmente d’accordo Aaron Hill, non a caso anche lui drammaturgo, oltre che impresario teatrale e critico, presente in questa raccolta con vari scritti. Hill incardina la sua teoria sulla recitazione, ovvero il metodo da lui elaborato per ottenere una corretta espressione delle passioni, proprio sul rapporto che deve legare l’attore all’autore e al testo drammatico. Per lui, la lettura attenta e approfondita del dramma è la fase preliminare più importante del lavoro che l’attore deve compiere per poter poi procedere alla messa a punto di un’interpretazione in linea con l’idea e con le intenzioni dell’autore. Nella pratica, questa lettura doveva tradursi nell’individuazione delle passioni contenute nella parte, e nel seguirne il percorso evolutivo. Un vero e proprio lavoro a tavolino che avrebbe permesso all’attore di capire i tempi e le modalità con cui le passioni sorgono, raggiungono l’apice e poi si trasformano, mentre la fase successiva prevedeva che ad ogni momento venissero assegnate le adeguate espressioni del viso, le giuste modulazioni della voce, le pose e i movimenti del corpo corretti.

Aaron Hill dimostra una convinzione quasi religiosa circa la bontà e l’utilità del metodo da lui messo a punto, ma dubita che gli attori siano in grado (e abbiano voglia) di applicarlo correttamente. Per questo, volendo provare l’efficacia del suo “sistema” (come lui stesso lo chiama), propone a due o tre attori reputati promettenti di eseguire per loro conto e a loro beneficio le annotazioni a margine dei copioni di alcune parti che stavano apprestandosi ad interpretare. Segnala i punti in cui essi avrebbero dovuto esprimere determinate passioni, suggerisce dove accentuare l’enfasi e quando fare le pause, indicando inoltre i delicati momenti di snodo nei quali una passione avrebbe dovuto lasciare il passo ad un’altra. Nella sua visione meccanicistica, Hill vede il personaggio come una specie di gioco ad incastro, creato dall’autore in modo da risultare uniforme ed armonioso alla vista, ma costituito da un assemblaggio di pezzi che l’attore deve saper individuare, separare, esaminare e poi ricomporre in maniera da restituire al personaggio, attraverso la sua interpretazione, la fisionomia coerente ed omogenea che il drammaturgo gli ha dato.

Nonostante Aaron Hill muoia nove anni dopo la clamorosa affermazione di David Garrick come attore, egli lo vede recitare per la prima volta solo nel 1746. Dopo una iniziale cautela riguardo il suo effettivo valore – forse dovuta ad una forma di naturale diffidenza verso i facili entusiasmi, accentuata magari dall’età – Hill comincia ad ammirarlo fino ad esserne totalmente conquistato. Accade allora qualcosa di apparentemente paradossale. Quando Hill pensa di aver finalmente trovato in Garrick l’attore in possesso di tutti i requisiti (talento naturale e intelligenza) necessari per poter applicare il suo metodo, quasi contemporaneamente prende la decisione di non pubblicare più il trattato che rappresentava il punto d’arrivo delle sue teorizzazioni: è ipotizzabile ne abbia addirittura interrotto volontariamente la stesura. Nel comunicare proprio a Garrick questa decisione, gli spiega che lui poteva essere assunto come dimostrazione vivente della bontà delle sue speculazioni, ed essere perciò un veicolo di trasmissione e di diffusione del suo metodo molto più efficace di qualsiasi trattazione scritta. Queste argomentazioni convincono poco, ma a mio avviso fanno intuire quelli che possono essere stati i motivi reali. Probabilmente Hill, vedendo recitare attori mediocri o che non lo soddisfacevano completamente, aveva continuato a pensare al giovamento che avrebbero potuto trarre dall’applicazione del suo metodo, mentre forse la recitazione di Garrick aveva mandato all’aria i suoi schematismi, certamente affascinandolo, ma producendo anche disorientamento e qualche dubbio sul valore del metodo stesso. All’attore dedicò anche il poemetto To Mr. GARRICK, On his united Ideas of Actor and Writer, più significativo per il titolo, che non per il contenuto, una tirata celebrativa di ventiquattro versi che inizia così: «Fatti per il reciproco soccorso, questi talenti non possono che incontrarsi, / Così come la stessa natura mostra la luce mischiata al calore: / Oh! Tu sei nato per onorare la loro unione […]» [18].

Sul terreno del rapporto tra testo drammatico e rappresentazione, ossia sull’autonomia che sempre di più la seconda va acquisendo sul primo, si gioca la partita nella quale si assiste alla progressiva affermazione della figura dell’attore. Partita in cui David Garrick ha un ruolo di assoluta preminenza come attore, come impresario, e anche, sia pure in misura assolutamente marginale, come teorico, avendo scritto solo il pamphlet presente in questa raccolta. In realtà Garrick, scrittore quasi compulsivo, ai suoi corrispondenti epistolari parlava spessissimo di teatro, ma la sua attenzione – a parte qualche eccezione – era rivolta a questioni di tipo materiale e a situazioni contingenti. Ciò rispecchia perfettamente, anzi, ci illumina sulla sua personalità, come è in linea con essa il motivo per cui decise di scrivere An Essay on Acting [19]. Il titolo del pamphlet e le finalità dichiarate non riflettevano le sue vere intenzioni, che erano quelle di anticipare le possibili contestazioni di pubblico e critica per la sua prossima interpretazione di Macbeth, anche se poi, forse per tener fede al titolo, con toni tra il serio e il faceto, tratta dell’argomento recitazione, arrivando a fare alcune osservazioni corrispondenti al suo reale pensiero. Come quando dà la sua definizione di recitazione, e dice:

La recitazione è un intrattenimento teatrale, che, con l’aiuto e l’assistenza della dizione, del movimento corporeo, e dell’espressione degli occhi, imita, assume, simula le varie emozioni mentali e corporee che sorgono dai vari umori, virtù e vizi, connessi alla natura umana [20].

Il soggetto dell’enunciato è la recitazione, ma sebbene Garrick non lo nomini, evidentemente è l’attore il vero soggetto: è sua la dizione, suo il movimento corporeo e suoi gli occhi. È l’attore, in qualità di agente della recitazione, a restituire in forma tangibile le emozioni del corpo e della mente. Come suo diretto referente viene eletta la natura, mentre il testo drammatico, e l’autore, non sono menzionati: certo Garrick non intendeva prescindere da essi, ma l’omissione è comunque significativa, e sostanzialmente permane in tutto lo scritto, fatte salve le doverose, ma sicuramente sincere genuflessioni a Shakespeare. Nel processo creativo di preparazione del personaggio, l’attore si trova dunque in una posizione preminente e centrale, così come lo è nel rapporto con il mondo, in cui Garrick lo esorta ad immergersi per trarre tutti quegli elementi utili e necessari alla propria formazione personale e all’elaborazione delle sue interpretazioni, e rispetto al quale agisce in piena autonomia e senza mediazioni di sorta.

Garrick sembra parlarne se non come di un concetto del tutto ovvio e assodato, certo non come di una tesi che lui senta di dover sostenere e difendere da possibili e prevedibili contestazioni, a riprova che il processo di revisione della scala gerarchica che aveva visto al suo vertice, quale primo e indiscusso interprete della realtà, l’autore drammatico, era già ampiamente avviato. In questo periodo, con Garrick giunto così rapidamente all’apice della fama, in molti casi i riferimenti al rapporto attore/personaggio traevano spunto e occasioni per esprimersi soprattutto in elogi rivolti alla sua persona, circoscrivendo perciò a lui i concetti esposti. Nel corso della prima visita dell’attore a Dublino, nell’estate del 1742, e cioè a meno di un anno di distanza dal suo debutto assoluto, in un poemetto viene già perfettamente riconosciuto il ruolo a lui assegnato:

La natura per anni rese la sua oscura dimora
Nascosta, e nessuno trovava il fortunato accesso:
Fino a quando Garrick cercò con rigore l’ardua strada
E trovò il luogo dove l’immortale dea giaceva.
Sorgi, leggiadra Signora, disse il Roscio britannico,
E mostra il cammino ai tuoi giovani ammiratori.
La dea lo guardò con occhio benevolente,
E sorridendo con grazia, rispose
“Tu sei il mio unico figlio, il solo superstite,
Orsù, prosegui sul sentiero appena tracciato,
Orsù! Figlio mio! Imponi la tua nobile stirpe,
E fa che il mondo veda la natura sul tuo volto:
La natura si mostrerà sempre come tale al saggio,
Sebbene appaia spesso sotto false sembianze:
L’immortale Shakespeare scrisse solo per te,
Prosegui, e siedi sul trono vuoto:
Il socco e il coturno furono fatti per te
Il teatro è ridotto in ceppi, sta a te liberarlo [21].


Questo poemetto presenta più di un elemento d’interesse. Qui, non è con la fede, ma con il rigore scientifico che l’uomo può trovare e percorrere la via della conoscenza: Garrick adotta questo metodo, e, una volta raggiunta la natura, viene da essa riconosciuto come figlio, sua unica incarnazione, e quindi, investito del ruolo di profeta, viene incaricato di ‘evangelizzare’ il mondo. La natura eleva poi la commedia al livello della tragedia, conferisce ad entrambi i generi pari dignità e la responsabilità di veicolare ‘il verbo’; infine precisa l’ambito, la ‘chiesa’ in cui l’attore dovrà svolgere la propria missione. Può darsi che all’epoca qualcuno possa aver ritenuto la metafora un po’ blasfema, ma in un mondo che poteva essere conosciuto e dominato dall’uomo, concetto questo penetrato ormai nel senso comune, “natura” non è più un sinonimo o un appellativo di Dio, ma un’entità autonoma che tende a prenderne il posto. Da notare, infine, come a Shakespeare sia attribuita una funzione puramente strumentale: se il più grande drammaturgo aveva scritto solo per Garrick, si può immaginare di quale considerazione potessero godere gli altri autori, cui veniva solitamente riconosciuta una statura inferiore.

Nel poemetto The Actor, scritto nel 1760 da Robert Lloyd e presente in questa antologia, l’autore drammatico fa un’apparizione abbastanza fugace. A lui viene dapprima riconosciuta un’importanza pari a quella dell’attore: «poeta e attore, con abilità congiunte, / plasmano a piacer loro le passioni nostre» [22]. Ma poi, come se Lloyd volesse ridistribuire con maggiore equità quanto è a loro effettivamente dovuto, afferma che «all’attore debba andare oltre metà del merito» [23], e nella conclusione, sembra quasi voler incolpare l’autore del carattere effimero dell’arte dell’attore: «l’implacabile Morte scioglie l’intrecciata fama, / e il nome dell’attore affonda in quello del poeta» [24].

In The Actor, il trattato di John Hill del 1755, viene frequentemente ribadito che il lavoro dell’attore si fonda sulla ricerca tesa alla comprensione del personaggio nelle sue più piccole sfumature, precondizione indispensabile per ottenere un’interpretazione quanto più vicina possibile alle intenzioni di chi lo ha creato. Viene però detto anche, che a volte

l’autore è stato solo in grado di delineare sommariamente ciò che va fatto, lasciando all’attore il tocco finale, o addirittura il compito di dipingere gran parte del quadro. In queste evenienze egli non è solamente chiamato a seguire le indicazioni dell’autore, ma ad aggiungere anche nuovi elementi. All’attore viene dunque richiesto molto più della perfetta comprensione dell’autore: in qualche misura è sollecitato a diventare autore egli stesso [25].

In quest’ultima affermazione John Hill dà sanzione di uno scatto evolutivo dell’attore, ma come già aveva sottolineato Gildon, sembra che anche per lui l’iniziativa dell’attore debba essere vincolata a circostanze in qualche modo straordinarie, quando cioè l’autore non abbia potuto, per un motivo o per un altro, definire in modo adeguato “ciò che va fatto”. Riconosce però all’attore che si dimostri in grado di completare quanto l’autore non ha saputo o potuto delineare un talento superiore al suo, purché non osi aggiungere o cambiare parole al testo [26]. Va ancora avanti, precisando in cosa consistano le ‘aggiunte’ lecite e opportune, e il loro effetto:

uno sguardo, un gesto, una particolare attenzione a ciò che viene detto da un altro personaggio, spesso ci danno quanto l’autore aveva inevitabilmente, o talvolta distrattamente, omesso; e molto spesso una pausa riesce a conferire alla frase una forza superiore a quella contenuta nelle parole [27].

Infine, ricorda come gli autori debbano spesso il successo (e non solamente quello immediato) agli attori che abbiano saputo dare il giusto valore, o addirittura migliorare la loro opera: se infatti l’autore di una pièce mediocre ha la fortuna di affidarla ad un manager che distribuisca con intelligenza le parti,

la rappresentazione arricchirà il dramma con elementi impensabili per l’autore stesso, grazie all’attore che ve li infonde traendoli dal suo proprio magazzino. Questi elementi diventeranno poi parte integrante del testo, saranno ricordati nella lettura e il merito verrà attribuito all’autore [28].

Chiaramente, John Hill descrive una prassi consueta sia in quell’epoca, sia in tempi precedenti, ma qui ne vengono riconosciuti valore e legittimità.


 

Note

[1] Sia Charles Hart (?-1683), sia Michael Mohun (1620-1684), erano boy-actors prima della chiusura dei teatri, il secondo recitava anche in parti maschili da adulto.
[2] Joseph Taylor (1585?-1652). È già un attore affermato quando, nel 1619, entra nella compagnia dei King’s Men, di cui sarà anche manager assieme a John Lowin. È abbastanza dubbio che possa essere stato istruito da Shakespeare per il ruolo di Hamlet, come invece asserisce Downes, ma certo aveva visto recitare il creatore del personaggio Richard Burbage (al quale subentrò assumendone le parti), e con ogni probabilità per la propria interpretazione si ispirò a lui.
[3] R.D. Hume e J. Milhous (a cura di), John Downes’s… cit., pp. 51-52.
[4] Samuel Sandford (?), attore la cui conformazione fisica aveva in qualche modo destinato a interpretare i ruoli di villain. Era infatti basso e gobbo, ma anche dotato di grande energia, di una voce forte e con notevoli espressività e mobilità, soprattutto del volto, tanto da far dire a Tony Aston che egli «acted strongly with his Face»: A. Aston, A Brief Supplement… cit., p. 11.
[5] Betterton aveva interpretato Richard solo in un dramma ispirato alla tragedia, The English Princess, or the Death of Richard the III [La principessa inglese, ovvero La morte di Richard III] (1667), di John Caryl.
[6] Peraltro, dopo aver lasciato la compagnia di Betterton, di Sandford non vi è più traccia. Un annuncio fatto in occasione di una riproposta di uno dei cavalli di battaglia dell’attore, cioè The Villain, nel 1704, dove si diceva che la parte del protagonista sarebbe stata recitata in imitazione di Sandford, fa ipotizzare che questi potesse essere morto.
[7] The Laureat: or, the right side of Colley Cibber, Esq. […], London, J. Roberts, 1740, p. 39, citato in C. Cibber, An Apology… cit., vol. I, nota 1 p. 140, dal curatore Robert W. Lowe. L’anonimo autore del libro parla correttamente di quattro atti, anziché cinque, perché, come ho già ricordato, il Master of the Revels lo aveva mutilato del primo. Cfr. supra, pp. 22-23.
[8] J. Wright, Historia Histrionica: an Historical Account of the English Stage, Shewing the Ancient Use, Improvement, and Perfection of Dramatic Representations in this Nation. In a Dialogue of Plays and Players, London, W. Haws, 1699, p. 24, citata dall’edizione elettronica a cura dell’Electronic Text Center, University of Virginia Library.
[9] C. Gildon, The Life of Mr. Thomas Betterton… cit., pp. 15-16; qui p. 104.
[10] A. Nicoll, A History of English Drama... cit., vol. II, pp. 7-8.
[11] A tale proposito si veda il commento di Oliver Goldsmith, p. 58.
[12] Allo scopo di restituirle ordine e decoro, Tate aveva creato i presupposti necessari per dare un lieto fine alla tragedia, da lui definita «un cumulo di pietre preziose, grezze e scomposte; e tuttavia così brillanti nel loro disordine». Lear tornava sul trono, benché recuperasse le prerogative regali giusto il tempo necessario ad abdicare in favore di Cordelia e a porle accanto, nel talamo e sul trono, Edgar (i due nel corso della tragedia si erano incontrati e innamorati). Invece di riempire il palcoscenico di cadaveri – disse Tate – morivano solo i malvagi (e spesso fuori scena), sottolineando anche, senza falsa modestia, come fosse «più difficile salvare che uccidere: il pugnale e la coppa di veleno sono sempre a portata di mano, mentre condurre la vicenda fino all’estremo, e quindi porvi rimedio con mezzi credibili, richiedono allo scrittore abilità e discernimento». Anziché finire con una marcia funebre e nel pessimismo più nero, la tragedia si concludeva con un matrimonio regale, garanzia di un fulgido e tranquillo futuro. Nel 1681, come già ricordato, l’Inghilterra viveva un momento di gravi incertezze sotto il profilo dinastico, e così il motivo della salvaguardia della monarchia nella sua legittima discendenza costituì un rassicurante messaggio politico che contribuì a decretare il successo dell’adattamento. I brani citati sono contenuti nella dedica a Thomas Boteler, in The History of King Lear. Acted at the Dukes Theatre. Reviv’d with Alterations. By N. Tate, London, E. Flesher, 1681. Edizione consultata: S. Clark (a cura di), Shakespeare made Fit... cit., pp. [295]; [296]. Sugli adattamenti dell’epoca si veda L. Innocenti, La scena trasformata. Adattamenti neoclassici di Shakespeare, Firenze, Sansoni, 1985.
[13] Garrick conservò la morte in scena di Macbeth, cui dette uno spazio maggiore ampliando la breve battuta di Davenant, e la natura del trofeo di Macduff, che continuò ad essere la spada, e non la testa di Macbeth, com’è invece in Shakespeare. Sostituì il portiere ubriaco (assente in Davenant) con un servitore sobrio, e alcuni brani giudicati troppo cruenti furono espunti. Le streghe danzavano ma non volavano, come invece facevano in Davenant, e furono conservate anche molte canzoni dell’adattamento.
[14] A. Murphy, The Life of David Garrick, Esq., London, J. Wright, 1801, vol. II, p. 71.
[15] Vedi il profilo biografico nella parte a lui dedicata nell’antologia, pp. 217-218.
[16] La scena viene descritta e discussa alla nota 39, p. 236.
[17] S. Foote, A Treatise on the Passions... cit., p. 16, qui p. 138.
[18] «FORM’D for each other’s aid, these powers but meet, / As nature’s self shows light, combin’d with heat: / Oh! born, to grace their union […]». The Works of the Late Aaron Hill, Esq. in Four Volumes. Consisting on Various Subjects, and of Original Poems, Moral and Facetious, With an Essay on the Art of Acting, London, Printed for the Benefit of the Family, 1753, 4 voll.; vol. IV, p. 91.
[19] Vedi pp. 156-157.
[20] D. Garrick, An Essay on Acting: in which will be consider'd the Mimical Behaviour of a Certain fashionable faulty Actor, and the Laudableness of such unmannerly, as well as inhuman Proceedings. To which will be added, A Short Criticism On His acting Mac­beth, London, W. Bickerton, 1744, p. 5; qui p. 163.
[21] «Nature, for Ages made her dark Abode / Obscure, nor one could find the lucky Road: / Till Garrick, strictly search’d the thorny Way, / And found the immortal Goddess where she lay / Arise fair Dame, the British Roscius said, / And show thy young Admirers where to tread / The Goddess view’d him with a pleasing Eye, / And smiling gracious, made him this Reply / “Thou art my only, and surviving Son, / Go on, and tread the Path thou hast begun, / Go on! my Child! assert thy noble Race, / And let the World view Nature in thy Face: / Nature, will still be nature to the Wise, / Tho’ oft mistaken in a false Disguise: / Immortal Shakespear, wrote for thee alone, / Proceed, and fix thee in the vacant Throne: / The Sock and Buskin were design’d for thee / The Stage is fetter’d, thou shall set her free / [...]». I versi sono citati in W.R. Chetwood, A General History of the Stage, from its o­rigin in Greece down to the present time. With the memoirs of most of the principal performers that have appeared on the English and Irish stage for these last fifty years […], London, W. Owen, 1749, pp. 161-162.
[22] R. Lloyd, The Actor. A poetical epistle. To Bonnell Thornton, Esq., London, R. and J. Dodsley, 1760, vv. 225-26; qui p. 292.
[23] Ivi, v. 264; qui p. 292.
[24] Ivi, vv. 265-66; qui p. 292.
[25] J. Hill, The Actor: or, a Treatise on the Art of Playing. A New Work, Written by the Author of the Former, and Adapted to the Pre­sent State of the Theatres. Containing impartial Observations on the Performance, Manner, Perfections, and Defects of Mr. Garrick, Mr. Barry, Mr. Woodward, Mr. Foot, Mr. Havard, Mr. Palmer, Mr. Ryan, Mr. Berry, &c. Mrs. Cibber, Mrs. Pritchard, Miss Nossiter, Mrs. Gregory, Mrs. Woffington, Mrs. Clive, Mrs. Green, Miss Bellamy, &c. In their several Capital Parts, London, R. Griffiths, 1755, pp. 30-31; qui p. 242.
[26] Ivi, p. 31; qui p. 242.
[27] Ivi, p. 33; qui p. 243.
[28] Ivi, p. 40; qui pp. 245-246.

 







 

 


Maria Chiara Barbieri,
La pagine e la scena - L'attore inglese nella trattatistica del '700
(Firenze, Le Lettere, 2006)




 
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