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Claudio Vicentini

Claudio Vicentini L'arte di guardare gli attori

Data di pubblicazione su web 15/10/2007
copertina
Pubblichiamo un estratto (pp. 11-29) del libro di Claudio Vicentini, L'arte di guardare gli attori. Manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 256, € 19,00.

 

                                                               I
                                    DA CHE PARTE INCOMINCIARE


La disperata arte di guardare gli attori

Diversi anni fa al dipartimento di studi teatrale della New York University era stato organizzato un corso sul nuovo teatro d’avanguardia. A quei tempi New York era il centro di una furiosa attività di sperimentazione: nelle cantine e nei magazzini di Manhattan, nelle soffitte, in piccole sale semiufficiali, parecchi gruppi di attori,  alcuni già celebri altri appena nati e destinati a sciogliersi nel giro di qualche mese, si lanciavano in esperimenti a volte geniali e a volte abbastanza balordi, con la ferma volontà di rivoluzionare tutti quanti gli aspetti e le forme dello spettacolo teatrale.

 

Tutti noi che partecipavamo al corso della New York University venivamo spediti alla caccia di queste prodezze. Bisognava scovarle con l'aiuto di qualche informazione che appariva sulla “Village Voice”, la bibbia degli appassionati del settore, e poi dovevamo discutere in classe le rappresentazioni che avevamo visto.

 

Di buona parte di questi spettacoli, però, non si capiva niente. Che gli attori volessero far qualcosa di preciso, e magari anche di importante, ci sembrava probabile. Ma che cosa volessero fare, non era chiaro. Raramente recitavano un testo conosciuto, e quando questo accadeva lo riducevano a un vago punto di riferimento per azioni, parole, gesti, ordinati secondo criteri che apparivano misteriosi. Ma per lo più di testo o di storia non si poteva neppure parlare: gli attori, sulla scena “facevano qualcosa”, e lo spettacolo era tutto lì. [Fig. 1]
 

Richard Schechner, che era allora uno dei più eminenti guru e teorici del teatro d’avanguardia americano, dirigeva il corso, e aveva stabilito una regola fondamentale. Quando uno spettacolo appare incomprensibile, ci spiegava, c'è un unico modo di procedere. Bisogna osservarlo annotando tutto quello che fanno gli attori, senza preoccuparsi di capirci qualcosa. Poi si deve tornare la sera dopo, e poi ancora,  per  tre, quattro, cinque volte, sempre scrivendo tutto quello che succede. Finché non si riesce a ricostruire nella propria memoria, momento per momento, l'intera messa in scena. A quel punto è assai probabile che il significato dello spettacolo cominci ad affiorare, che un barlume di comprensione illumini la notte. E da lì si può partire per analizzarlo e discuterlo in maniera conveniente.

In parecchi casi la regola di Schechner, per strana che fosse, funzionava effettivamente. In altri, però, falliva. Garda e riguarda, osserva e annota, lo spettacolo continuava a sembrarci un gran pasticcio, e non riuscivamo a capirci niente.  E questo perché quando non si capiva proprio niente, era difficile scegliere che cosa bisognava guardare. Di tutte le azioni, di tutti i movimenti che compiva un  attore - dal modo in cui camminava al modo in cui si voltava, dirigeva lo sguardo, pronunciava le parole, si rivolgeva ai compagni, usava le mani, le braccia, le espressioni del volto - era impossibile distinguere gli elementi che erano davvero importanti e quelli che erano secondari o addirittura casuali. Annotarli tutti era un'impresa disperata, e per selezionare quelli che davvero contavano non restava che affidarsi alla fortuna. Ma quando la fortuna non ci aiutava le nostre discussioni in classe davanti a Schechner e ai compagni franavano in disperate dichiarazioni di resa: di tutta quella roba non eravamo riusciti a trovare né capo né coda.

Allora ci consolavamo pensando che si trattava di esperimenti d’avanguardia, e quindi, per definizione, molto difficili da capire. Ce la saremmo cavata molto meglio, pensavamo, con gli spettacoli del teatro tradizionale. Lì per lo meno quello che un attore doveva fare sulla scena era chiaro. Doveva rappresentare un personaggio in maniera convincente, calarlo in una situazione perfettamente comprensibile (una dichiarazione tra due innamorati, una discussione di affari, un pranzo, un incontro inaspettato),  suscitare l'attenzione dello spettatore e trattenere il suo interesse per tutta la scena.. Osservare la recitazione e capire se un attore recitava bene o male diventava quindi molto semplice. [Fig. 2]

Ma in effetti ci sbagliavamo di grosso. Di fronte a uno spettacolo tradizionale, magari  un grande successo che continuava ad attirare per settimane in una sala di Broadway migliaia e migliaia di persone assolutamente inesperte affascinandole con una storia ricca di effetti facili e immediati, i problemi, come dovevamo accorgerci con orrore, non diminuivano affatto. Anzi, se mai si moltiplicavano. E anche guardando una puntata della più scontata soap opera televisiva la situazione non migliorava. Non c'era scampo e non avevamo più alibi. Dovevamo confessarlo. Quando si trattava di guardare un attore, capire quali tecniche stava usando e alla fine decidere con qualche sicurezza se stava davvero recitando bene o male, non sapevamo letteralmente da che parte incominciare. Bisognava perciò riconoscere un'amara verità: osservare un attore che recita non è mai semplice, anche quando si tratta di rappresentazioni che sembrano alla portata di tutti  e che qualsiasi spettatore riesce a seguire appassionandosi convenientemente a tutto quello che vede davanti sé.

Perciò era necessario ricominciare tutto da capo. E per imparare a guardare un attore bisognava partire da una considerazione proprio banale, assolutamente ovvia. Cioè che gli attori non recitano tutti nella stessa maniera.


Le tecniche di base

Basta pensare per un momento a qualcuno dei mostri sacri della scena, a Marlon Brando, Dario Fo, Sordi o  Gassman, e ci accorgiamo subito che recitano in modo diverso. La loro bravura non c’entra: non si può dire che uno reciti meglio dell’altro, sono tutti degli ottimi attori. La differenza dipende invece dalle loro personalità individuali, e per questo il modo in cui ognuno di loro recita resta per lo più identico anche quando cambia il regista o il tipo di testo da interpretare.

Però anche la personalità individuale, da sola, non basta a spiegare le differenze. Perché per quanto personale sia lo stile di un attore si possono sempre riconoscere altri interpreti che recitano in modo simile al suo, e sembra di ritrovare in tutti loro una certa aria di famiglia. La maniera di lavorare di Marlon Brando, per esempio, è assai vicina a quella di Paul Newman, di Al Pacino o di Robert De Niro, mentre è distantissima da quello di Sordi o di Gassman. Insomma, ogni attore è diverso dagli altri. Ma poi è molto simile a parecchi (non a tutti) suoi colleghi.

Questo dipende dall’impostazione di base che ogni attore adotta, spesso senza neanche rendersene conto. Capita un po’ come nella pittura, dove si può dipingere all’acquerello, a tempera o a olio. Oppure nella musica, dove si può suonare il piano, il flauto o il violino. Ognuna delle tecniche o degli strumenti che un’artista impiega ha le proprie caratteristiche, e quindi le proprie possibilità e i propri limiti. La pittura a olio e quella ad acquerello, comunque vengano manipolate, non producono mai gli stessi effetti (per esempio nello sfumato). Così come non producono gli stessi effetti il piano e il violoncello.

Certo è difficile che un artista possegga davvero una sola tecnica, o un solo strumento, e poi ignori completamente tutti gli altri. Sia insomma un bravissimo pianista, ma incapace di cavare un suono da qualsiasi altro aggeggio musicale. O sia un mago per i quadri a olio, ma non riesca a reggere una matita o a tracciare un bozzetto al carboncino. Tuttavia ogni artista trova normalmente un’affinità di fondo tra una tecnica di base, o uno strumento musicale, e la propria personalità, e sviluppa per tutta la vita il suo stile individuale esercitandosi a lungo e faticosamente sul suo strumento preferito.

Nel campo della recitazione succede qualcosa di simile. Tutti gli attori trovano a loro disposizione una costellazione di tecniche essenziali a cui debbono per forza ricorrere.  Normalmente un attore, eccellente o cane che sia, ne adotta più o meno istintivamente una e con quella procede per tutta la vita. E quando nel suo lavoro concreto sulla scena finisce con l’intrecciarla ad altre tecniche, la mantiene comunque come impostazione di fondo, che orienta il suo stile e determina il  genere di effetti che può produrre sulla scena.

Le  tecniche di base della recitazione però non si distinguono, come nella musica o nella pittura, per i materiali o agli strumenti utilizzati, perché i materiali e gli strumenti dell’attore sono sempre gli stessi: il suo corpo e le sue facoltà fisiche. Così è molto più difficile distinguere una tecnica dall’altra. Si tratta di procedimenti sviluppati nel corso della storia del teatro, e poi del cinema e della televisione, create volta per volta dall’incontro delle consuetudini della recitazione con i nuovi problemi posti, nei diversi secoli, dalla drammaturgia, dalla scenografia, dalla stessa organizzazione degli spettacoli e delle compagnie.

Sono tecniche insomma che nascono, si trasformano e tramontano con il passare del tempo, in modo che ogni epoca dispone di un proprio ventaglio di impostazioni di base che indirizzano il lavoro degli attori. E, ciò che più conta, ognuna di queste impostazione possiede caratteristiche proprie, che permettono all’attore di raggiungere certi effetti, e ne escludono altri, oppure, ancora, permettono di ottenerli attraverso vie assai più lunghe e complicate. L’attore eccellente si rivela per la maestria con cui sa utilizzare le possibilità che l’impostazione di base gli offre e per l’originalità delle soluzioni che arriva a proporre. L’attore geniale è quello che sa inventare nuove possibilità.

Naturalmente il fatto che le tecniche della recitazione non si distinguano immediatamente, come nella musica e nella pittura, complica il compito dello spettatore. Individuare lo stile di un attore che recita sulla scena o sul set oppure di fronte alle telecamere, come si è visto, non è semplice. Del resto non è semplice neppure (e qui possiamo consolarci) per i critici professionisti. [Fig. 3]

La critica teatrale ha infatti toccato i massimi vertici di abilità nel descrivere e discutere la recitazione dei grandi attori nell’ottocento, soprattutto in Inghilterra. Lee Strasberg, il direttore dell’Actors Studio di New York, uno tra i massimi esperti di recitazione del novecento, diceva che la semplice lettura delle critiche inglesi ottocentesche gli permetteva di vedere concretamente, davanti a sé, gli attori dell’epoca mentre recitavano. Forse era un po’ eccessivo, ma è un fatto che questa abilità della critica si è progressivamente esaurita. Per quanto riguarda l’Italia si possono trovare ancora eccellenti descrizioni degli attori al lavoro sulla scena fino alla seconda guerra mondiale. Ma oggi la critica teatrale, quando recensisce uno spettacolo, non riesce a dedicare alla descrizione degli attori che pochi aggettivi di apprezzamento, o qualche riserva, e questo è tutto. E non diversa è la situazione per il cinema e la televisione.

L’inerzia delle critiche nei confronti della recitazione ha naturalmente dei motivi, ma per il momento è inutile discuterli. Sta di fatto che lo spettatore, al cinema, a teatro e di fronte alla televisione, è circondato da un turbine di forme e modi espressivi assai diversi tra cui non è facile orientarsi. Riconoscere tra tutte queste forme le tecniche di base della recitazione, le impostazioni fondamentali che orientano il lavoro dell’attore e gli consentono di raggiungere particolari effetti, potrebbe quindi apparire un’impresa disperata. Ma per fortuna esistono alcuni strumenti abbastanza semplici a cui si può ricorrere.


La regola degli oggetti. Da Eduardo a Dustin Hoffman

Possiamo cominciare da una delle scene predilette dal teatro, dal cinema e dagli sceneggiati della televisione: l’esplosione improvvisa di una crisi all’interno di una copia di coniugi, oppure di amanti o anche solo di fidanzati. Perchè sia una scena prediletta è presto detto, scatena facilmente le emozioni del pubblico. In una faccenda del genere tutti quanti ci sono più o meno passati, con un buon dispendio di emozioni,  e così è inevitabile che chi sta a guardare si trovi appassionatamente schierato per lui o per lei senza neppure starci su a pensare. Se poi la crisi è inaspettata, violenta e minaccia di distruggere dalle fondamenta una relazione consolidata nel tempo e dalle abitudini, tanto meglio, la cattura dello spettatore è praticamente assicurata.

Un capolavoro di questo tipo è il celebre inizio di Filumena Marturano, la commedia che Eduardo De Filippo ha scritto subito dopo la seconda guerra mondiale per la sorella Titina. La storia è nota. Domenico Soriano, ricco dongiovanni ormai in età matura, convive da anni con Filumena, una ex prostituta. Filumena per farsi sposare ricorre a un trucco: si finge malata e morente, e chiede in extremis di mettere in regola la sua coscienza prima di presentarsi davanti a Dio. Domenico ci casca e un prete celebra le nozze al capezzale della donna. Ma appena ha pronunciato la formula del matrimonio, Filumena balza dal letto e rivela l’inganno. [Fig. 4]

Quando il sipario si apre il fatto è appena avvenuto. Sulla scena (la camera da pranzo di casa Soriano) Domenico e Filumena si fronteggiano. Il primo è pazzo di rabbia e d’orgoglio ferito per l’affronto e la beffa. Minaccia di ricorrere alla pistola, accusa il medico e il prete di complicità, cerca di scacciare la donna di casa, le rinfaccia la sua origine. Filumena, trionfante (ormai è sposata e non c’è niente da fare), ostenta sicurezza, rivendica la sua totale responsabilità dell’inganno che ha escogitato senza l’aiuto né del prete né del medico, e ricorda tutte le umiliazioni e i tradimenti che ha dovuto subire nei venticinque anni di convivenza.

Fin qui, Eduardo. Ma, come dicevamo, la crisi di coppia è un tema ricorrente.  Esiste, tra le tante, un’altra celeberrima sequenze in cui un lungo e cementato rapporto vola improvvisamente in pezzi. Si tratta di Scene da un matrimonio, la storia girata per la televisione da Ingmar Bergman nel 1973. Una sera come tutte le altre il marito, un insegnante di psicotecnica, ritorna al focolare domestico, che nelle scene precedenti è già stato a lungo mostrato allo spettatore in tutta la serenità di una tenera consuetudine matrimoniale. E rivela alla moglie la sua relazione con una giovane studentessa. Non sa più vivere senza di lei: deve partire per un viaggio di lavoro e la giovane studentessa lo accompagnerà. Poi si vedrà che cosa fare. La moglie resta assolutamente interdetta. Crolla la certezza di un rapporto che credeva pieno e totale, non capisce come la relazione le sia potuta sfuggire, perché il marito abbia deciso di rivelarla proprio quella sera, e non sa letteralmente come reagire.

Ora, della scena di Filumena Marturano esiste la documentazione fotografica della prima rappresentazione, del 1946, con Titina De Filippo e una registrazione televisiva del 1962, in cui Eduardo recita con Regina Bianchi. Gli interpreti di Bergman sono due altri grandi attori, Liv Ullmann ed Erland Josephson. E quando si osservano le due scene non è difficile accorgersi che tutti gli attori e le attrici sono bravissimi. Le coppie (Eduardo con le sue partner da una parte, la Ullmann e Josephson dall’altra), recitano però in modo profondamente diverso.

La differenza è lampante: qualsiasi spettatore, anche se è del tutto inesperto di teatro, di cinema e di recitazione se ne può accorgere. E tuttavia, spiegare esattamente in che cosa questa differenza consista appare, appunto, abbastanza complicato.  Non si capisce bene se le differenze che ci sembra di notare siano essenziali, o solo casuali. Se dipendono dalla tecnica degli attori, o semplicemente dallo sforzo di rendere personaggi che appartengono a due epoche, a due paesi e a due condizioni sociali diverse. E non sappiamo insomma su che cosa dobbiamo concentrare la nostra attenzione.

E proprio qui si può allora ricorrere a un  primo espediente, che è sempre a disposizione dello spettatore quando si trova di fronte a un attore che recita, qualunque sia il testo o la storia rappresentata. Si tratta di osservare come utilizza lo spazio e gli oggetti che lo circondano. Perché ogni attore,  in qualsiasi modo reciti, qualsiasi parte e qualsiasi scena interpreti, agisce sempre in uno spazio e stabilisce un rapporto (certe volte magari negativo) con tutte le cose che gli stanno intorno. [Fig. 5]

Appena si adotta questo criterio la differenza delle nostre due coppie in crisi appare chiara. Eduardo e le sue compagne, mentre si rovesciano addosso un cumulo di miserie, sono sistemati sulla scena, in piedi, distanti l’uno dall’altro, e i loro spostamenti sul palco sono limitatissimi. Li accennano solo occasionalmente, e assai di rado, rivolgendosi agli altri interpreti  (due servitori di casa che assistono al litigio). Il rapporto con l’ambiente, i mobili e gli oggetti è pressoché nullo. Eppure oggetti a portata di mano non ne mancano: il tavolo al centro della stanza, per esempio, è apparecchiato con ricercatezza. E lo stesso dialogo consentirebbe movimenti spaziali articolati, quando Domenico Soriano dichiara di voler scacciare Filumena, o ancora quando invoca la pistola (che potrebbe accingersi a cercare), e via dicendo.

Mentre Eduardo con Titina e Regina Bianchi sembrano ignorare gli oggetti che li circondano, Josephson e la Ullmann li utilizzano in continuazione. Il marito giunge tardi alla serae la moglie gli prepara la cena. I due attori, in cucina, maneggiano un tostapane,  sistemano piatti e posate, una bottiglia, un bicchiere su un vassoio, e portano poi questi ed altri aggeggi in una stanza vicina dove la Ullmann prepara e accende due candele. Quindi si siedono a un tavolo, e tutta la scena, con lo scambio di battute, si svolge mentre marito e moglie imburrano tartine, versano il vino nei bicchieri, bevono, mangiano, si scambiano  piatti e posate, in una ridda di attività continue e costanti. Il dialogo è totalmente penetrato da questa rete di azioni, al punto che Josephson giunge alla traumatica rivelazione del tradimento mentre la Ullmann sta addentando una fetta di pane imburrato. [Fig. 6a, Fig. 6b]

Anche qui la scelta della recitazione non è obbligata dal testo. Gli attori potrebbero pronunciare le stesse battute discorrendo seduti ai lati di un tavolo, o su due poltrone in salotto, senza toccare nessun oggetto, senza, in altri termini, “fare” alcunché, ma semplicemente esprimendo con la mimica del volto e i toni della voce  i loro atteggiamenti e i loro stati d’animo. Insomma la scena potrebbe egregiamente essere recitata “all’Eduardo”, proprio come l’attacco di Filumena Marturano potrebbe essere recitato “alla Josephson”.

Così è possibile tracciare una prima distinzione. Esiste un modo di recitare in cui l’uso degli oggetti e dello spazio di scena è minimo, e un modo in cui appare invece totale e continuo. Quando è minimo l’attore si esprime esclusivamente, o prevalentemente, attraverso la mimica del volto, i movimenti del corpo, delle braccia e delle mani, i toni della voce. Quando è continuo l’attore  recita svolgendo un’attività costante, fisica e concreta, in relazione agli oggetti che gli stanno intorno. E si tratta di due maniere fondamentali di recitare.

Verificarlo non è difficile. Basta osservare che cosa succede quando un attore abituato a ignorare gli oggetti deve, per le esigenze della scena, utilizzarne qualcuno. Magari per compiere qualche azioni semplicissima come - proprio per prendere ad esempio un altro attore  italiano di impianto dialettale - rifare un letto.  Capita in Scusate il ritardo, un film del 1983,  dove Massimo Troisi aiuta Lina Polito a sistemare coperte, lenzuola e cuscini mentre dialoga nervosamente con lei. Bene, mentre parla l’altro personaggio, Troisi procede accuratamente con i suoi maneggi. Ma quando è lui a pronunciare una battuta, li interrompe: molla le coperte, ferma l’azione sugli oggetti e si limita parlare. Poi, esaurito quello che deve dire torna a dedicarsi alla sistemazione del letto. Tende, insomma, a non maneggiare alcunché quando deve parlare o comunque produrre espressioni mimiche particolarmente significative. [Fig. 7a, Fig. 7b]

E non è che una scena del genere venga recitata sempre così. Se a rifare il letto sono due interpreti che provengono da un’altra scuola il dialogo non interrompe affatto l’azione. C’è un esempio clamoroso nel Grande freddo, un film diretto qualche mese dopo negli Stati Uniti da Lawrence Kasdan,  dove Glen Close e JoBeth Williams tirano, piegano, insaccano lenzuola coperte e cuscini. E continuano con tutta naturalezza a parlare, imperterrite, battuta dopo battuta, su ogni azione che compiono.

Poi si può passare al caso opposto: quando un attore abituato a recitare usando continuamente gli oggetti si trova in una situazione che non gliene offre. Dustin Hoffman, che è un attore di questo tipo, ha interpretato la parte del protagonista in una celebre versione cinematografica della Morte di un commesso viaggiatore di  Arthur Miller. In una scena, verso la fine del dramma, stanco e ormai logorato dai molti anni di lavoro, Hoffman (il commesso viaggiatore) va dal padrone della sua ditta per chiedergli di essere assegnato alla sede centrale e non essere più costretto a viaggiare. Il padrone invece lo licenzia.

L’ambiente è costruito in modo che Hoffman, piazzato a distanza, davanti alla scrivania  del capo, non abbia alcun oggetto a portato di mano. E allora usa tutto quello che può, per compiere una serie di azioni “di sostegno”. Sposta la sedia e “gioca” con lei, sbagliando appositamente, nell’agitazione del personaggio, il calcolo dell’altezza del sedile, maneggia il cappello, accenna a posarlo da qualche parte, lo trattiene, si tormenta la cravatta, si sistema i polsini, in modo che le battute tendono comunque ad appoggiarsi su un’attività fisica reale. [Fig. 8a, Fig. 8b, Fig. 8c]

Insomma, mentre attori come Eduardo e gli interpreti simili a lui, come Troisi, si esprimono preferibilmente senza utilizzare gli oggetti di scena, e quando sono costretti a farlo tendono a sospendere l’azione mentre pronunciano le battute, altri, come Hoffman, Josepheson, la Ullmann, Glen Close e JoBeth Williams sembrano non poter recitare senza impiegare tutto quello che trovano a portata di mano, appoggiandosi costantemente a una rete di azioni fisiche compiute sugli oggetti.


Azioni sottolineate e oggetti immaginari. Alberto Sordi apre una scatoletta

Esiste però anche un terzo modo di recitare, leggermente più difficile da individuare, ma non meno importante. È la recitazione degli attori che senza ricorrere all’impiego continuo di tutto quello che li circonda utilizzano però gli oggetti con una certa frequenza. Possono insomma inserire nella loro recitazione un buon numero di attività quotidiane come, secondo i casi, accendere una sigaretta, chiacchierare mentre guidano un’automobile, versarsi da bere, mangiare, e via dicendo. E poi alternare a questi momenti lunghe sequenze in cui recitano senza muovere, toccare, usare nulla.

Ora questi attori quando lavorano con gli oggetti (il volante dell’automobile, le posate, un piatto, un bicchiere) tendono a “sottolineare” le azioni che compiono, cioè ad eseguirle in modo da attirare sui propri gesti e sugli strumenti utilizzati l’immediata attenzione dello spettatore.

Per capire che cosa sono le azioni sottolineate proviamo a immaginare una scena in cui quattro amici chiacchierano intorno a un tavolo fumando e bevendo. Accendono le sigarette, maneggiano fiammiferi e accendisigari, spostano i portacenere, prendono le bottiglie, riempiono i bicchieri, sorseggiano i liquori. E intanto parlano delle loro faccende. Ovviamente i loro atteggiamenti possono riflettersi nei gesti che compiono: ognuno dei quattro può bere e fumare in modo rilassato, ansioso, nervoso, distratto. Ma l’attenzione complessiva dello spettatore, impegnato a seguire la vicenda e a cogliere le reazioni psicologiche dei personaggi, resta normalmente concentrata sul dialogo e sulle espressioni mimiche. Il fatto che i quattro stiano fumando e bevendo appare un dato secondario, di contorno, che serve solo a rendere più convincente e “naturale” la scena: non sembra insomma importante per comprendere quello che succede tra i personaggi.

Pensiamo invece a una scena in cui due personaggi dialogano seduti in una stanza. A un certo punto il primo rivolge al secondo una domanda. Il secondo non risponde, si alza lentamente con movimenti impacciati, prende una bottiglia da un mobile vicino, cerca un bicchiere, lo riempie con mano tremante, beve d’un fiato, resta ancora silenzioso per un lungo momento, posa il bicchiere e poi si rivolge al compagno e comincia a  parlare.   Quest’azione (alzarsi, prendere la bottiglia e il bicchiere, bere, posare il bicchiere) si staglia in modo evidentissimo nel tessuto della recitazione e attira irresistibilmente l’attenzione dello spettatore che le attribuisce un significato chiaro e importante: il personaggio è profondamente turbato dalla domanda. Si tratta appunto di un’azione “sottolineata”, che si pone cioè in piena luce tra tutti i gesti compiuti dall’attore, ed è direttamente utilizzata per trasmettere allo spettatore un messaggio preciso ed essenziale.

Gli espedienti per sottolineare un’azione, mettendola in evidenza, sono diversi. L’attore può ad esempio eseguirla variando il tempo o il ritmo della scena (bloccando con una pausa la sequenza dei gesti, accelerandola, o rallentandola, e mettendo così in rilievo l’azione che compie), oppure può caricare i movimenti rendendoli leggermente eccessivi (accentuando il tremore della mano che tiene il bicchiere e versando il liquore in modo da rovesciarne una parte). Ma in ogni caso la maniera per distinguere le azioni sottolineate da quelle non sottolineate è semplice: al termine della scena lo spettatore, che ha comunque assimilato l’impressione complessiva di quanto è capitato davanti a lui, si ricorda sempre delle prime, che gli sono apparse fondamentali, e mai delle seconde, che ha percepito come semplice contorno. [Fig. 9]

Intendiamoci, la azioni sottolineate vengono occasionalmente impiegate da tutti i generi di attori, e possono essere utilissime per produrre tanto effetti drammatici quanto effetti comici. Per gli effetti drammatici basta pensare al repertorio di gesti terrorizzanti e premonitori di tantissimi film dell’orrore in cui l’assassino mentre si prepara a compiere il delitto maneggia insistentemente l'arma che ha scelto (coltellaccio, rasoio, accetta, mannaia), imponendola all’orrore degli spettatori. Una tipica azione sottolineata di questo tipo, ricorrente nella tradizione dei grandi interpreti shakespeariani è, per esempio, l’esibizione del coltello con cui nel Mercante di Venezia Shylock, l’usuraio ebreo, si appresta a uccidere Antonio, suo debitore. Un’altra, dello stesso genere, si ritrova in The Shining, il celebre film di Kubrick in cui Jack Nicholson in preda a una follia omicida armeggia insistentemente con un’ascia raccapricciante. Ancora più abbondante è poi l’impiego di azioni sottolineate a effetto comico e la loro gamma è  vastissima. Può andare dal tocco ironico con cui un attore o un’attrice maneggiano il lungo bocchino di una sigaretta all’assalto furioso di una pagnotta o di una pentola di spaghetti, tipico  dei personaggi del teatro popolare tormentati da una fame perenne. [Fig. 10]

Tra i nostri attori Sordi, in particolare, costruiva buona parte della sua recitazione ricorrendo alle azioni sottolineate. Possiamo prendere, tra gli infiniti esempi a portata di mano, la scena di un film Amore mio aiutami, in cui Sordi e Monica Vitti, marito e moglie, vanno a vedere la loro nuova casa in costruzione sulla riva del mare. Portano con sé qualche oggetto d’arredamento e tutto quello che è necessario per un pranzo freddo. Mentre sistemano le cose e Sordi armeggia con una scatoletta di tonno che tenta di aprire, la Vitti gli rivela di essere innamorata di un altro uomo. Sordi sussulta, e ovviamente si taglia con l’apriscatole. L’azione emerge e si prolunga nel contesto della scena (le smorfie di dolore per la ferita si mescolano allo strazio per la rivelazione) con un preciso effetto comico. Nello stesso tempo un quadro che rappresenta la beatifica purezza di Santa Rita da Cascia viene collocato in modo che l’immagine contrasti ironicamente con gli atteggiamenti della coppia, tra imbarazzo, tensione, perplessità. Le due azioni sottolineate, insieme a diverse altre dello stesso tipo (come un celebre ed elaboratissimo schiaffo che subito dopo la Vitti appioppa a Sordi) vengono così a costituire i cardini su cui ruota la recitazione degli interpreti.

In ogni caso, se tutti gli attori ricorrono saltuariamente alle azioni sottolineate, gli interpreti che si possono chiamare di terzo tipo (quelli che utilizzano gli oggetti con una certa frequenza, ma non in modo continuo) le impiegano, appunto come Sordi, con  particolare costanza, quasi ogni volta che devono afferrare, impugnare o maneggiare qualcosa.

Per la verità, per quanto riguarda il rapporto tra l’interprete e gli strumenti di scena, c’è anche un quarto modo di recitare, che è facilissimo da riconoscere. È lo stile degli attori che agiscono su oggetti esclusivamente immaginari, creati di fronte agli spettatori dal loro gioco mimico.

Dario Fo è il caso più celebre e gli esempi, nelle sue interpretazioni, si sprecano. In Johan Padan a la discoverta de le Americhe, uno spettacolo allestito da Fo nel 1991, il protagonista è un  marinaio che segue la spedizione di Cristoforo Colombo. Sbarcato nel nuovo mondo e accolto in un villaggio di indigeni si trova alla prese con un’amaca, su cui deve imparare a sistemarsi. Non è un’operazione semplice. Teso l’aggeggio, Johan Padan tenta di scalarlo in ogni modo possibile finendo immancabilmente ribaltato per terra. Alla fine ci riesce, e una giovane indigena si stende accanto a lui. Ma non appena tenta di abbracciarla, ricasca per terra atterrando su un braciere acceso, da cui schizza con un salto acrobatico che lo riporta sull’amaca.

Tutta la scena consiste appunto nella complicata, dettagliatissima azione che l’interprete compie su un oggetto (qui è l’amaca, in altri spettacoli di Fo saranno abiti e gioielli, come nella celebre vestizione di Bonifacio VIII del Mistero Buffo, oppure cibi e attrezzi da cucina, come nel monologo della Fame dello Zanni). Ma l’attore si trova solo, sul palcoscenico vuoto, e l’oggetto  viene creato ed è chiaramente percepito dallo spettatore soltanto attraverso il suo gioco mimico. Si tratta di una tecnica particolare di recitazione che vedremo più avanti.

Resta però da chiedersi perché mai il modo in cui gli attori trattano gli oggetti sia così importante.












 

multimedia Fig. 1

multimedia Fig. 10

multimedia Fig. 2

multimedia Fig. 3

multimedia Fig. 4

multimedia Fig. 5

multimedia Fig. 6a

multimedia Fig. 6b

multimedia Fig. 7a

multimedia Fig. 7b

multimedia Fig. 8a

multimedia Fig. 8b

multimedia Fig. 8c

multimedia Fig. 9




 
Claudio Vicentini,
L'arte di guardare gli attori. Manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione
(recensione di Cristina Jandelli)

 
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