[segue 8. 1956-1983 (e oltre)]
Ledizione del Teatro ruzantiano è un esempio metodologico, per tanti versi pionieristico, di approccio contestuale, globale e unitario alla storia dello spettacolo cui tuttora conviene rifarsi non solo per studiare il raffinato autore-attore Beolco, ma anche per approcciare altre filiere della civiltà veneta. Si faccia caso, per esempio, agli assidui ‘postillati rinvii, nel tessuto delle note, allampia silloge Teatro veneto del Rinascimento, allora in preparazione a cura dello studioso (e mai pubblicata; una prima versione era rimasta inedita in terze bozze per le pretese economiche di un editore non illuminato). Vanno sottolineati specialmente, di questo coraggioso lavoro ruzantiano, non la ripresa della formula crociana del «cosiddetto» (Croce) o «particolare» (Zorzi) realismo (ché sarebbe francamente riduttivo), bensì lo sguardo lenticolare sullambiente e sui compagni davventure teatrali – attori e spettatori – del Beolco; nonché linnovativa analisi in chiave scenotecnica dei testi, vale a dire in funzione della loro concretissima resa scenica (si ricordi, per esempio, lefficace drammaturgia zorziana della punteggiatura). Testi puntualmente rapportati al contesto di produzione realizzazione e fruizione in cui si generarono ed ebbero linfa vitale. Testi appesi tra «Ruzzante e Vitruvio» annuncianti, chiosava Zorzi con un interiore moto di insofferenza, «che il teatro fatto dagli autori, dove le cose stanno bene “nella penna” […], sta per cedere il passo al teatro fatto dagli attori, dove le cose, il fare umano e poetico, stanno finalmente e solamente bene “nella scena”».
Per non dire della consapevolezza che ogni lavoro scientifico è sempre e comunque in progress: «Al di là dellapparente mole dei materiali qui passati in rassegna, non si dimentichi che il discorso critico-filologico intorno ai testi del Ruzante è ben lontano dallessersi concluso, è anzi appena incominciato», si legge in conclusione della finale Nota al testo. Parole di una consolante sincera umiltà; che mi dislocano à rebours in un tardo pomeriggio di un dicembre fiorentino di fine anni Settanta in via Ghibellina quando il gentiluomo veneziano Zorzi, conversando amabilmente, si diceva convinto che la sua edizione del Ruzante era tutta da ripensare.
Negli anni Sessanta, in parallelo allattività di ricerca personale e a quella di organizzazione culturale svolte a Ivrea, iniziò il percorso del docente universitario. Lesperienza della fabbrica stava perdendo smalto.
Ancora insoddisfazione, inquietudine. Ricordate la lettera a Sandro dAmico nel 1969? «Ti giuro che appena riesco a infilarmi in una facoltà che mi vada, non sentirete più parlare di me». I primi seminari universitari li tenne a Torino, dal 1965 al 1968, invitato da Giovanni Getto presso la facoltà di Lettere (Il teatro veneto rinascimentale dal Vannozzo al Giancarli, 1965-1966; Il teatro del Ruzante, 1966-1967; Il teatro dellArte: gli Andreini, 1967-1968). Lultimo corso (Précis dhistoire du spectacle en Italie du XVe au XVIIIe siècle) fu, invece, quello da lui tenuto alla Sorbonne Nouvelle (Paris III) nel 1982-1983 su invito di Bernard Dort.
Conseguita la libera docenza nel 1968 (con in commissione, tra gli altri, Apollonio e Molinari), nellanno accademico 1968-1969 Zorzi collaborò con il critico teatrale Bruno Schacherl al seminario La fortuna e lopera di Angelo Beolco detto Ruzante organizzato da Lanfranco Caretti nellambito della sua cattedra di Letteratura italiana presso la facoltà di Lettere dellUniversità di Firenze (tra gli studenti di quellaffollato seminario vi era una giovanissima Lia Lapini; a lei, sorridente, va con affetto il nostro pensiero). In quel periodo nella nostra facoltà in bilico tra «cultura e politica», cioè tra ricerca scientifica, innovazione didattica, demagogia, coraggio, acquiescenza, si sperimentava infatti anche la nuova feconda formula seminariale. Quindi negli anni accademici 1970-1971 e 1971-1972 insegnò presso la facoltà torinese di Magistero.
Ma fu allUniversità di Firenze, è noto, che si sviluppò con pienezza il suo originale, dinamico insegnamento. Chiamato nel 1972 presso la facoltà di Lettere, grazie ancora allintelligenza non convenzionale di Caretti (che lo stimò e gli fu amico sino dagli anni Cinquanta) e a un generoso felice suggerimento di Schacherl allo studioso ferrarese, il veneziano Zorzi divenne fiorentino dedicandosi, come ha scritto proprio Caretti, «con entusiasmo e straordinaria freschezza intellettuale, a far lezione a scolaresche straripanti attratte dalla novità della materia [la storia dello spettacolo] ma soprattutto dal riconoscimento immediato della presenza in cattedra di un ingegno raro, non conformista, rigoroso e creativo insieme». Davvero era così. Si aggiunga che la sua maieutica era generosa e instancabile. Ai «limiti della dissipazione»: sempre disponibile, stimolante, trascinante, ben al di là da un impersonale rapporto universitario. Anche perché Zorzi, terminate le ore di lezione, continuava a insegnare nel modo più discreto e insieme affascinante, spesso ritornando con i sui allievi sui luoghi illustrati e studiati a lezione. Passione più che dissipazione. Passione che lo accompagnò sino allultimo periodo.
Molti suoi scolari ricordano il suo intervento al convegno sul teatro del Cinquecento organizzato da Siro Ferrone a Prato nel 1982 (fig. 12). 24 aprile: interno giorno. Ridotto del Teatro Metastasio gremito di pubblico. Assenza di traccia scritta. Oltre due ore di illustrazione sapiente di una sequenza di diapositive dedicata ai Luoghi e alle forme dello spettacolo. E infine, a dispetto del caldo quasi soffocante, entusiasmo tra i presenti e sfinimento lieto di chi, come sempre, era riuscito ad avvincere i propri ascoltatori con la sua brillante oralità, con la sua umanità. Indimenticabile cordialissima umanità. Ci manca la gioia della sua presenza e della sua civilissima conversazione. Sicché nel marzo 2003, nel ventesimo anniversario della sua morte, il Saloncino del Teatro della Pergola era parimenti affollato di amici, colleghi ed ex allievi ritrovatisi per Ludovico Zorzi, nel segno di una pubblica memoria viva affettuosa condivisa; che aveva avuto una precedente ‘stazione nel marzo 1993 in un articolato Ricordo di Ludovico Zorzi (fig. 13), anchesso ideato e realizzato da Siro Ferrone e da Sara Mamone, come in una bella mostra documentaria a più mani e, infine, in una raccolta di studi in suo onore (fig. 14) che dava generosamente voce alla vitalità scientifica dei giovani studiosi italiani della disciplina («la ‘terza generazione della storia dello spettacolo», ossia la prima dei laureati specificamente nella nostra materia), disegnando un primo bilancio generazionale non intristito né da barriere accademiche, né da preconcetti di metodo.
Negli anni fiorentini proseguì con energia lattività di ricerca dello studioso, libero, finalmente, di dedicarsi alle sue indagini con meno assilli. Appare evidente come tali indagini abbiano, per così dire, ‘alzato la soglia della storia dello spettacolo. Ogni studioso, credo, deve fare i conti con quella geniale lezione di metodo versatile, molteplice condensarsi di specifiche complessità culturali, di utopie e di fatti concreti attualizzati dalla filologia e dalla storia. Dico, anzitutto, la zorziana filiera storia, storia della cultura, storia dello spettacolo.
Non pochi i lemmi bibliografici di quel periodo da convocare a testimonianza di una pluralità dinteressi tesa, appunto, alla fondazione scientifica della storia dello spettacolo. Ne rammento, per brevità, solo alcuni. Anzitutto, lesemplare mostra-saggio documentale Il luogo teatrale a Firenze. Brunelleschi Vasari Buontalenti Parigi («Spettacolo e musica nella Firenze medicea. Documenti e restituzioni», 1, 1975) che, sin dal titolo, rinvia al concetto discusso in Francia nel 1963 nel fondante colloquio Le lieu théâtral à la Renaissance di cui danno conto gli atti riuniti nellomonimo volume. Concetto su cui varrebbe la pena di insistere per evitare fraintendimenti critici circa il decisivo passaggio dal luogo teatrale al teatro in età moderna, ossia per ribadire la non evoluzionistica decisiva differenza tra le molteplici diversificate tipologie del lieu e quelle altrettanto diversificate e molteplici delledificio teatrale.
In questa, come in altre successive iniziative espositive di fortuna europea (La scena del principe, 1980), Zorzi nellindagare gli spazi e le forme dello spettacolo della Firenze medicea, rapportandoli allo spazio urbano come allarchitettura alla pittura alla musica e a una fitta rete di committenti realizzatori fruitori, seppe coniugare con originalità rigore scientifico-documentario, didattica universitaria e organizzazione di eventi culturali destinati a un ampio successo di pubblico, sintetizzando così ricerca e alta divulgazione. Impegno scientifico e impegno civile. Si ripensi a Ivrea. Fu questa una tra le tante vitali ‘lezioni zorziane. E spiace che non sia andato in porto il suo progetto di dotare Firenze di un inedito Dipartimento e museo regionale di storia della cultura scenica, musicale e di immagine urbana e territoriale della Toscana; dove, tra laltro, avrebbero trovato stabile collocazione i modelli lignei, resi ‘parlanti dalle folgoranti intuizioni dello studioso, che tanto avevano contribuito al successo delle esposizioni da lui ideate, restituendo plasticamente innovative ipotesi di ricostruzione degli spazi della spettacolarità teatrale medicea (fig. 15). Un esempio concreto di applicazione di metodo (unàncora di salvezza a fronte di tante astrazioni teorico-critiche di ieri e di oggi), di riuscito lavoro di équipe, che andrebbe ora globalmente ridiscusso e aggiornato con le tecnologie della realtà virtuale attuando una rilettura in senso vitruviano della storia cinquecentesca del luogo teatrale di corte a Firenze.
Nel 1977, intanto, Einaudi aveva pubblicato il libro più noto e forse più importante di Zorzi. Alludo al citato Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana. Un libro dagli orizzonti ampi centrato sulla dialettica spazio della città-spazio della scena (e viceversa). La città,
la città si pone alla confluenza della natura con lartificio. Agglomerato di esseri che racchiudono la loro storia biologica entro i suoi limiti e la modellano con tutte le loro intenzioni di creature pensanti, la città, per la sua genesi e per la sua forma, risulta contemporaneamente dalla procreazione biologica, dallevoluzione organica e dalla creazione estetica. Essa è, nello stesso tempo, oggetto di natura e soggetto di cultura; individuo e gruppo; vissuta e sognata; cosa umana per eccellenza,
si legge nei già convocati Tristi tropici, volume che Zorzi amava e consigliava agli allievi.
Vincitore del premio Viareggio per la saggistica 1978, il Teatro e la città, si sa, è articolato in tre densi capitoli, più una appendice (Note sul motivo della scena a portico) ed è concluso da indici che ne consentono una spedita consultazione. Si prenda lIndice degli argomenti esempio di sintesi concettuale sia della materia trattata nel volume, sia, più in generale, nellorganizzazione dei lemmi, di concentrata epistemologia dello spettacolo. Quasi un ‘thesaurus in miniatura che fa riflettere ancora oggi i colleghi di buona volontà sugli statuti scientifici della nostra disciplina. Uno strumento di lavoro a corredo di un libro che può, senza enfasi, dirsi magistrale. Punto di riferimento per gli studiosi, a trentanni dalla pubblicazione; e, dicevo allinizio, ineludibile lettura di formazione per chi sia interessato alla nostra disciplina che ribadisco, sommessamente, essere la storia dello spettacolo. È vero che paradossalmente, si suol dire, «lo storico dello spettacolo non può fare la storia sugli spettacoli»; ma è altrettanto vero che deve decodificarne le tracce per tentare di ricostruire e interpretare lidea di teatro e spettacolo di unepoca o di un determinato ambiente culturale utilizzando i tasselli documentali di un puzzle solo in parte ricomponibile. Siamo infatti ‘viaggiatori alla ricerca di nuovi territori e di «sogni perduti», di fantasmi di spettacoli di cui ci affanniamo a mettere insieme i pezzi, ma ci manca sempre qualche elemento; e, comunque vadano le cose, formuleremo delle ipotesi di lavoro, anche nel più fortunato dei casi. Viviamo di dubbi diuturni e di curiosità.
Composto da scritti già editi (arricchiti nei primi due capitoli da un vertiginoso tessuto di note, un libro nel libro, sorta di personalissimo ‘genere scrittorio che, come nel Ruzante del 67, svela al lettore paziente la complessa griglia ermeneutica zorziana e gli indica nuove piste) il Teatro e la città indaga, nell«ottica multilineare» cioè ‘totale tipica dello studioso, la scena italiana tra Quattro e Settecento tramite gli exempla di Ferrara (spazio pseudo-prospettico), Firenze (spazio prospettico) e Venezia (spazio cinetico), dando vita a un affresco di storia globale e contestuale dello spettacolo e della cultura in cui, di caso in caso, di problema in problema, si inventano nuovi ben calibrati grimaldelli ermeneutici; ben sapendo la sterilità scientifica di griglie metodologiche ‘universali preventive, valide a tutte le latitudini e per tutte le epoche. Il più si impara facendo. Ne deriva una storia dello spettacolo fluida, a-centrica, al plurale. Capace cioè di non cristallizzarsi in sé stessa; di abbattere gli ‘steccati disciplinari perseguendo metodi via via diversi dettati dai differenti ‘terreni da dissodare; e, infine, questione decisiva, dinventare, di volta in volta, le proprie fonti in modo originale facendo ricorso anche (in alcuni casi soprattutto) a documenti analogici, ‘insospettabili ai più, messi a illuminante confronto con le fonti dirette.
È questultimo, credo, lesito più nuovo e di maggior respiro della lezione scientifica di Ludovico Zorzi. Si pensi tra laltro, sul versante fiorentino, al fecondo concetto di «ricaduta tecnologica», dalla macrostruttura del cantiere allo spettacolo, applicato sin dal 1975 agli ‘ingegni di Brunelleschi: ricostruiti e interpretati in modo innovativo mettendo a partito i sino allora trascurati sintagmi salienti del lessico architettonico di ser Filippo; oppure alluso sapiente dei riscontri iconografici indiretti per ricostruire sia tali ‘ingegni, sia il ‘clima figurativo del buontalentiano Teatro degli Uffizi svariante, nelle sue due diverse edizioni decorative (1586, 1589), tra la decorazione affrescata della Grotta Grande di Boboli, la decorazione parietale a commesso della Cappella dei Principi in San Lorenzo sino alla forma elegante delle scale a conchiglia progettate da Buontalenti stesso per Santa Trinita (fig. 15). O, in più ampie campiture, si pensi al ‘codice ermeneutico binario «pratica scenica ‘romanza»/«tradizione classicistica o pseudo-vitruviana», chiave di volta dell‘invenzione del teatro, che richiama le chiavi interpretative binarie applicate dal Dionisotti alla letteratura italiana; o, infine, ma lesemplificazione dovrebbe proseguire, allo zorziano porre laccento sulla centralità della ricognizione degli spazi del teatro e del cosiddetto target group:
avvertendo che, per fare storia del teatro, la semplice indagine drammaturgica, paga dellinventario e del commento dei testi, risulta insufficiente. Ciò che conta è innanzitutto la ricognizione dei luoghi, cui faccia seguito una adeguata analisi della problematica sollevata dai gruppi destinatari.
Enunciato metodologico prezioso negli anni Settanta del secolo che ci è alle spalle; e che oggi dovrebbe suonare agli addetti ai lavori persino ovvio o sin troppo sbilanciato. Lo credevamo assodato. Ci siamo illusi? Probabile se si guarda allattuale crisi didentità della disciplina. «Chiediamoci, anzitutto, chi siamo», ha autorevolmente consigliato Cesare Molinari ai colleghi convenuti all'inizio del 2007 a Firenze a una riunione della Consulta Universitaria Teatrale durante la quale in pochi sembravamo ricordare la battaglia combattuta, in primo luogo dai nostri maestri, per affrancare la storia dello spettacolo. «Il pericolo è spesso quello di fare solo delle chiacchiere», ammoniva in tempi ormai lontani Ludovico Zorzi (ci sarebbe piaciuto vederlo in azione a quella Consulta). Ci siamo illusi, dunque?
Parrebbe di sì, spiace constatarlo. Se è vero che da qualche tempo si è ricominciato a parlare, come in un gioco delloca che riconduce il giocatore sfortunato sempre al punto di partenza, di primato del testo; asserendo, inoltre, la necessità di tornare alla lezione del Croce (e non certo, parrebbe di capire, al Croce del mirabile volume su I teatri di Napoli, in specie nella sua prima edizione, o delle acute pagine sulla Commedia dellArte). Così facendo si rischia di far ricadere la nostra ex giovane disciplina, che ha ormai più di qualche ruga e rischia di invecchiare male, in quel ruolo di «passe-partout critico ancillare della letteratura» che tanto infastidiva e preoccupava Zorzi, convinto assertore, invece, di «unidea assolutamente nuova di testo teatrale, cioè totale». Quellanacronistico ruolo subalterno pensavamo di averlo abbandonato da tempo. Grazie anche a una più ariosa nozione di drammaturgia e al suo strumentario euristico. Quando della storia del teatro non si abbia una visione letteraria ‘alta, ma trasversale ‘laica e meticciata, la drammaturgia si rivela spesso, nelle sue diverse declinazioni nei tempi lunghi della storia, creazione artigianale, fluida e al plurale, che elabora molteplici linguaggi artistici ed è collegata alle istanze dei committenti, allo spazio scenico, agli attori e agli spettatori. Non crediamo nel revival dellegemonia del testo. Come non credevamo che il «Dramma» fosse «larte che vuole, più di tutte laltre, rifare lopera di Dio». Piano e distinguiamo, avrebbe detto Michele Barbi, allievo del DAncona e del Rajna (il Rajna di Montale), e lucido alfiere, con Ernesto Giacomo Parodi, della nuova filologia. Distinguiamo, dunque, per favore: di contesto in contesto, di testo in testo; consapevoli dellassenza di rapporti gerarchici nei moderni saperi. Si ripensi allimmagine a-centrica del grafo.
Che la crisi didentità sia attualissima lo conferma, tra laltro, una recente History of Italian Theatre stilata (salvo eccezioni confermanti la regola) dal punto di vista dellitalianistica. Unoccasione mancata, a dispetto delle ambiziose dichiarazioni dintenti; che fa rimpiangere, una volta in più, la citata contestualizzante Storia del teatro italiano progettata da Ludovico Zorzi, per gli Annali della Storia dItalia, dal punto di vista della sua a-centrica storia del teatro interrotta dalla morte. E viene il sospetto che si faccia il possibile per riportare le lancette dellorologio addietro nel tempo. Come mi sono permesso di dire pubblicamente in occasione della citata Consulta. E che dire, invece, della vagheggiata «via informatica alla felicità» di cui si è trattato in un successivo convegno di settore (Il futuro dei DAMS) che ha avuto luogo a Torino nel giugno 2007? Forse che dobbiamo fare attenzione a unulteriore possibile perdita didentità della nostra infelice labile materia (e dei nostri sempre più infelici scolari); ché, si badi, il digitale deve essere uno strumento prezioso al servizio della storia dello spettacolo (si pensi al progetto di ricerca AMAtI, innovativo Archivio Multimediale degli Attori Italiani diretto da Ferrone), non il fine ultimo dei nostri corsi di laurea zelighiani: troppo spesso in bilico tra le insidiose ‘sirene della comunicazione e introflessioni letterario-filosofiche mascherate; e, aggiungo, troppo spesso al servizio, troppo zelante, del troppo ‘rumoroso mercato come dellottusa burocrazia universitaria. Una miscela ‘formativa che, almeno per me, ha il sapore amaro di un surrogato (penso a Totò). E la storia? E i tanto preziosi quanto inevitabili tempi lunghi della ricerca? E limpegno civile dei nostri maestri?
Warum? si sarebbe chiesto uno spazientito Zorzi (che – lo ricordiamo bene, lo ricordiamo in tanti – si ribellava alla demagogia, come alle ‘mode e allarroganza delle cosiddette materie ‘forti, sottolineando inoltre che nel nostro campo dindagine, «a differenza di altri settori degli studi umanistici in cui laria è ormai quasi asfittica, circola ancora unaria respirabile, […] unaria da terra vergine, o almeno da prateria»). A chi giova? Così facendo si dimentica (si finge di dimenticare) che la storia dello spettacolo è storia contestuale globale e unitaria di un fluido e complesso sistema di relazioni fondata sullinterrogatorio incrociato di molteplicità di fonti, testi e documenti diversi. Sulla reinvenzione costante dei campi dindagine. Promotori organizzatori e realizzatori dellevento spettacolare costituiscono un trittico inscindibile. Trittico da porre in relazione con lo spazio e i meccanismi di fruizione di un determinato spettacolo e di un determinato ambiente, con lanalisi del gusto e delle emozioni provate dagli spettatori. Vale a dire con lo studio del pubblico nelle sue mutevoli mentalità e composizioni sociali, senza tralasciare le multiformi strutture testuali a esso destinate, certo (siano esse consuntivi di palcoscenico o preventivi letterari), ma nemmeno privilegiandole come unica «vera e globale misura intrinseca di valore». È vero che, se indagato correttamente, cioè nel suo specifico contesto storico-culturale, il testo è un serbatoio di conoscenza teatrale, ma è altrettanto vero che la sua preconcetta egemonia ermeneutica è sterile.
Si pensi al valore assertivo dei documenti iconografici cui Zorzi ha dedicato tanta intelligenza. Al riguardo occorrerebbe uno specifico corso (che potrebbe congiuntamente prender le mosse dallo scritto sulle documentali incisioni veneziane di Giacomo Franco (fig. 16); e da quello, denso di acuta erudizione, sulle pregevoli tavole del codice Bottacin di Padova (fig. 17) messe pionieristicamente in rapporto con la analoga serie iconografica di ‘scene venete del codice di Yale).
Basti qui accennare alla ricognizione del ciclo delle Storie di santOrsola dipinto da Vittore Carpaccio dal 1490 al 1497-98. Il saggio ursuliano dispiega unanalisi lenticolare a autentica vocazione ‘poliziesca giungendo a distinguere con maestria filologica, allinterno del ciclo, tre gruppi di teleri, svarianti dal tema della ambasceria a quello della peregrinatio, caratterizzati dalla memoria, distanziata nel tempo nella mente del pittore, di differenti ‘semi dello spettacolo veneziano ‘teatrale e cerimoniale: rappresentazione sacra, cerimonia di stato, sfilata stradale, momaria.
Leggendo quelle pagine si comprende meglio quanto Zorzi scriveva nel 1979 affrontando per la Storia dellarte italiana Einaudi la vexata quaestio della «partita senza fine» tra arte e spettacolo. Zorzi, è noto, mette in pagina un incipit che a una prima lettura suona eccessivo: «Senza la storia dellarte, la storia dello spettacolo rischierebbe di rimanere una disciplina senza oggetto». Laffermazione, infatti, è sembrata una forzatura alla maggior parte degli studiosi.
Tuttavia, forse, non ci si è interrogati abbastanza sul perché di una siffatta perentoria enunciazione di metodo ché sarebbe riduttivo ignorare quanto il concetto stesso di fonte fosse da lui concepito in modo scaltrito, allargato. Quella affermazione perentoria ed eccessiva va interpretata, a mio parere, come una forzatura voluta; o, meglio, come una consapevole ‘provocazione. Unulteriore tendenziosa zorziana provocazione, che si aggiunge a quelle sin qui menzionate, dettata da almeno tre valide motivazioni interiori: 1) la necessità di un assunto metodologico ‘forte al momento di formulare una teorizzazione dellannoso problema figurazione pittorica/figurazione teatrale in rapporto a una disciplina allora in nuce come la storia dello spettacolo («una disciplina ‘da fare», asseriva Zorzi in quegli anni: si riveda la citata Premessa a Il teatro e la città); 2) le pregresse e contestuali esperienze degli studi su Schifanoia e sul Carpaccio, che tanto hanno contribuito al concretizzarsi della nuova storia del teatro aprendo nuovi orizzonti interpretativi; 3) la concezione ‘allargata di storia dellarte. Una storia dellarte che, per lo studioso veneziano, viveva di contesti, di respiri culturali ampi, di warburghiana ‘scienza del significato, cioè di una scienza «che chiama a raccolta – scriveva Zorzi – le fonti della storia dellarte, della filosofia, della letteratura e della musica», nonché di ‘colloqui tra le discipline delle cosiddette scienze umane da cui ricavare – avvertiva Zorzi, e la notazione è importante, – «non solo tecniche e metodologie sperimentate, ma anche delle logiche di lavoro». Conoscere mille per conservare dieci, senza dogmi o etichette. Che è poi il citato metodo multilineare attuato senza indugi e senza prediche nel Teatro e la città come nel Carpaccio.
Tutto ciò trova conferma proprio in una pagina del Carpaccio che svela, credo, il ‘sottotesto dellincipit di Figurazione pittorica e figurazione teatrale: «È tempo di convenire che, ai fini della ricerca storica, il particolare trasmesso da una fonte figurale possiede il medesimo valore assertivo di quello convenzionalmente riconosciuto a una fonte scritta, ovvero che un quadro o un disegno equivalgono o sono essi stessi un documento, purché, beninteso, si dimostrino assimilabili, quanto a potere di prova, a una serie omologa di testimonianze». Allargamento del concetto di fonte e incrocio delle testimonianze; e inoltre, è stato ben osservato, «tenacia polemica di chi troppi ostacoli di ottusità critica ha dovuto incontrare sulla sua strada di investigatore». Sicché va ribadito il valore fondante, anche sul piano del metodo, dellinvestigazione zorziana centrata sul recupero della memoria di spettacoli nei teleri di Orsola (dipinti – si badi – da considerare anche quali straordinari documenti della civiltà veneziana di fine Quattrocento). Una memoria ‘filtrata, è ovvio; formalizzata e ‘interpretata dalla memoria e dal linguaggio pittorico di Vittore come dalle richieste della committenza, è evidente; ma non per questo meno preziosa se indagata con rigore contestuale. Senza i teleri ursuliani, afferma Zorzi, poco sapremmo sul multiforme «spettacolo veneziano dello scorcio del secolo». Osservazione in larga misura condivisibile; che si salda, in una sorta di dittico metodologico, con il citato incipit di Figurazione da cui abbiamo preso le mosse.
Si ricordi allora, in particolare, la magistrale ‘lettura del III telero, il Ritorno degli ambasciatori, gremito di ‘semi spettacolari. Linedita dimostrazione scientifica zorziana acquisisce con sicurezza il dipinto alle fonti della nostra disciplina superando le colonne dErcole di una canonica iconografia teatrale. Viviamo così un «sogno della storia» supportato dalla vis filologica dispiegata dallo studioso nellintero saggio. Ascoltiamo di nuovo la vivissima ‘voce di Zorzi per tentare di comprendere davvero la sua lezione scientifica (fig. 18):
La figura dello scalco, non a caso associata a quella del suonatore, presiedeva allordinato incedere del corteo, segnando con i colpi della mazza battuta al suolo gli spunti per le partenze e gli arresti. Qui vediamo alcuni membri dellambasceria muoversi secondo i tempi scanditi dalla mazza e dal suono: il primo a sinistra, più prossimo al piccolo musicante e con in capo il berretto ‘allinglese di feltro bianco, attende il suo turno da fermo, contando mentalmente le battute; il secondo, seguendo una nota tenuta lunga, avanza allentando il passo in una sorta di anticipo della genuflessione da compiere dinanzi al sovrano; il terzo, e forse il quarto di spalle (posto che costui faccia parte della missione e non sia il principe in attesa), sostano in una pausa marcata, compiendo entrambi una conversione allinterno, che probabilmente costituiva una figura del corteo cerimoniale: attendono che laltro passi avanti, per chiudere e seguirlo insieme verso ledicola reale. Il suono della ribeca, regolato dai colpi del mazziere, si estende fino a coprire questa metà della scena. […] Qui lora prescelta appare quella di un tardo meriggio, il cui oro caldo accende i colori e li diffonde, nellonda di una sinestesia che assimila il soffio del vento al fiotto sottile delle note. La musica sale sopra il silenzio della folla in attesa: nellintervallo tra un accordo e laltro potrebbe udirsi la voce di colui che legge il messaggio sotto ledicola, stabilendo un contrappunto sonoro tra i due poli entro i quali lazione si agisce.
Storia dello spettacolo, infine. Nuova storia dello spettacolo: ponderatissima ipotesi di lavoro librata, sul filo impalpabile di una sinestesia, in un tardo pomeriggio del Quattrocento veneziano inondato di luce. Aria e luce. Scrittura limpida, precisa e avvincente, del massimo studioso novecentesco dello spettacolo del Rinascimento. Metodologia che può ben definirsi schiettamente zorziana. Davvero, nel caso specifico, la storia dello spettacolo senza la storia dellarte rischierebbe di rimanere una disciplina senza oggetto. Si pensi, inoltre, alla coltissima ‘aristocratica «digressione» sui concetti di hortus conclusus e locus amoenus in rapporto alla genesi del luogo teatrale signorile rinascimentale. E si ricordi che la stesura del saggio sulla figurazione (edito, si diceva, nel 1979) è prossima agli studi e ai seminari fiorentini di Zorzi sui cicli di Schifanoia (1975-1976, 1980-1981) e di Orsola (1979-1980). Naturale che molto di quegli studi e di quei seminari appassionati (e appassionanti) riecheggi in quellincipit riflesso di una vicenda scientifica incentrata in primis, in quel breve giro danni, sulla restituzione della visualità dello spettacolo del Quattrocento (così recita il sottotitolo del postumo volume einaudiano che, peraltro, avrebbe dovuto intitolarsi Lingegno e langelo. Ricerche sullo spettacolo nel Quattrocento schierando altri due saggi e due appendici).
Ma, attenzione, la produzione scientifica zorziana non va parcellizzata. Va gustata nel suo insieme per comprenderne sino in fondo limportanza. Perché, è stato osservato, «ciò che più colpiva in Zorzi era proprio lentusiasmo intellettuale inesauribile, linsoddisfazione costante e la volontà caparbia ogni volta di andare oltre quella insoddisfazione (esemplare prova di autocritica e umiltà) per tentare strade diverse e più persuasive secondo un processo mai quietamente stabilizzato, ma drammaticamente dinamico».
Piove sulla tua tomba a San Felice, a Ema, e la terra non trema.
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