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Stefano Mazzoni

Ripensando Ludovico Zorzi (III parte)

Data di pubblicazione su web 23/06/2007
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[segue 8. 1956-1983 (e oltre)]
L’edizione del Teatro ruzantiano è un esempio metodologico, per tanti versi pionieristico, di approccio contestuale, globale e unitario alla storia dello spettacolo cui tuttora conviene rifarsi[116] non solo per studiare il raffinato autore-attore Beolco, ma anche per approcciare altre filiere della civiltà veneta. Si faccia caso, per esempio, agli assidui ‘postillati’ rinvii, nel tessuto delle note, all’ampia silloge Teatro veneto del Rinascimento[117], allora in preparazione a cura dello studioso (e mai pubblicata; una prima versione era rimasta inedita in terze bozze per le pretese economiche di un editore non illuminato). Vanno sottolineati specialmente, di questo coraggioso lavoro ruzantiano, non la ripresa della formula crociana del «cosiddetto» (Croce) o «particolare» (Zorzi) realismo (ché sarebbe francamente riduttivo), bensì lo sguardo lenticolare sull’ambiente e sui compagni d’avventure teatrali – attori e spettatori – del Beolco[118]; nonché l’innovativa analisi in chiave scenotecnica dei testi[119], vale a dire in funzione della loro concretissima resa scenica (si ricordi, per esempio, l’efficace drammaturgia zorziana della punteggiatura)[120]. Testi puntualmente rapportati al contesto di produzione realizzazione e fruizione in cui si generarono ed ebbero linfa vitale. Testi appesi tra «Ruzzante e Vitruvio»[121] annuncianti, chiosava Zorzi con un interiore moto di insofferenza, «che il teatro fatto dagli autori, dove le cose stanno bene “nella penna” […], sta per cedere il passo al teatro fatto dagli attori, dove le cose, il fare umano e poetico, stanno finalmente e solamente bene “nella scena”»[122].

Per non dire della consapevolezza che ogni lavoro scientifico è sempre e comunque in progress: «Al di là dell’apparente mole dei materiali qui passati in rassegna, non si dimentichi che il discorso critico-filologico intorno ai testi del Ruzante è ben lontano dall’essersi concluso, è anzi appena incominciato», si legge in conclusione della finale Nota al testo[123]. Parole di una consolante sincera umiltà; che mi dislocano à rebours in un tardo pomeriggio di un dicembre fiorentino di fine anni Settanta in via Ghibellina quando il gentiluomo veneziano Zorzi, conversando amabilmente, si diceva convinto che la sua edizione del Ruzante era tutta da ripensare.

Negli anni Sessanta, in parallelo all’attività di ricerca personale e a quella di organizzazione culturale svolte a Ivrea, iniziò il percorso del docente universitario. L’esperienza della fabbrica stava perdendo smalto.

Ancora insoddisfazione, inquietudine. Ricordate la lettera a Sandro d’Amico nel 1969? «Ti giuro che appena riesco a infilarmi in una facoltà che mi vada, non sentirete più parlare di me»[124]. I primi seminari universitari li tenne a Torino, dal 1965 al 1968, invitato da Giovanni Getto presso la facoltà di Lettere (Il teatro veneto rinascimentale dal Vannozzo al Giancarli, 1965-1966; Il teatro del Ruzante, 1966-1967; Il teatro dell’Arte: gli Andreini, 1967-1968). L’ultimo corso (Précis d’histoire du spectacle en Italie du XVe au XVIIIe siècle) fu, invece, quello da lui tenuto alla Sorbonne Nouvelle (Paris III) nel 1982-1983 su invito di Bernard Dort[125].

Conseguita la libera docenza nel 1968 (con in commissione, tra gli altri, Apollonio[126] e  Molinari), nell’anno accademico 1968-1969 Zorzi collaborò con il critico teatrale Bruno Schacherl[127] al seminario La fortuna e l’opera di Angelo Beolco detto Ruzante organizzato da Lanfranco Caretti nell’ambito della sua cattedra di Letteratura italiana presso la facoltà di Lettere dell’Università di Firenze (tra gli studenti di quell’affollato seminario vi era una giovanissima Lia Lapini; a lei, sorridente, va con affetto il nostro pensiero)[128]. In quel periodo nella nostra facoltà in bilico tra «cultura e politica», cioè tra ricerca scientifica, innovazione didattica, demagogia, coraggio, acquiescenza, si sperimentava infatti anche la nuova feconda formula seminariale[129]. Quindi negli anni accademici 1970-1971 e 1971-1972 insegnò presso la facoltà torinese di Magistero[130].

Ma fu all’Università di Firenze, è noto, che si sviluppò con pienezza il suo originale, dinamico insegnamento. Chiamato nel 1972 presso la facoltà di Lettere, grazie ancora all’intelligenza non convenzionale di Caretti[131] (che lo stimò e gli fu amico sino dagli anni Cinquanta)[132] e a un  generoso felice suggerimento di Schacherl allo studioso ferrarese[133], il veneziano Zorzi divenne fiorentino[134] dedicandosi, come ha scritto proprio Caretti, «con entusiasmo e straordinaria freschezza intellettuale, a far lezione a scolaresche straripanti attratte dalla novità della materia [la storia dello spettacolo] ma soprattutto dal riconoscimento immediato della presenza in cattedra di un ingegno raro, non conformista, rigoroso e creativo insieme»[135]. Davvero era così. Si aggiunga che la sua maieutica era generosa e instancabile. Ai «limiti della dissipazione»[136]: sempre disponibile, stimolante, trascinante, ben al di là da un impersonale rapporto universitario. Anche perché Zorzi, terminate le ore di lezione, continuava a insegnare nel modo più discreto e insieme affascinante, spesso ritornando con i sui allievi sui luoghi illustrati e studiati a lezione. Passione più che dissipazione. Passione che lo accompagnò sino all’ultimo periodo.

Molti suoi scolari ricordano il suo intervento al convegno sul teatro del Cinquecento organizzato da Siro Ferrone a Prato nel 1982 (fig. 12). 24 aprile: interno giorno. Ridotto del Teatro Metastasio gremito di pubblico. Assenza di traccia scritta. Oltre due ore di illustrazione sapiente di una sequenza di diapositive dedicata ai Luoghi e alle forme dello spettacolo[137]. E infine, a dispetto del caldo quasi soffocante, entusiasmo tra i presenti e sfinimento lieto di chi, come sempre, era riuscito ad avvincere i propri ascoltatori con la sua brillante oralità, con la sua umanità. Indimenticabile cordialissima umanità. Ci manca la gioia della sua presenza e della sua civilissima conversazione.      Sicché nel marzo 2003, nel ventesimo anniversario della sua morte, il Saloncino del Teatro della Pergola era parimenti affollato di amici, colleghi ed ex allievi ritrovatisi per Ludovico Zorzi[138], nel segno di una pubblica memoria viva affettuosa condivisa; che aveva avuto una precedente ‘stazione’ nel marzo 1993 in un articolato Ricordo di Ludovico Zorzi (fig. 13), anch’esso ideato e realizzato da Siro Ferrone e da Sara Mamone[139], come in una bella mostra documentaria a più mani e, infine, in una raccolta di studi in suo onore (fig. 14) che dava generosamente voce alla vitalità scientifica dei giovani studiosi italiani della disciplina («la ‘terza generazione’ della storia dello spettacolo», ossia la prima dei laureati specificamente nella nostra materia), disegnando un primo bilancio generazionale non intristito né da barriere accademiche, né da preconcetti di metodo[140].

Negli anni fiorentini proseguì con energia l’attività di ricerca dello studioso, libero, finalmente, di dedicarsi alle sue indagini con meno assilli. Appare evidente come tali indagini abbiano, per così dire, ‘alzato la soglia’ della storia dello spettacolo. Ogni studioso, credo, deve fare i conti con quella geniale lezione di metodo versatile, molteplice condensarsi di specifiche complessità culturali, di utopie e di fatti concreti attualizzati dalla filologia e dalla storia. Dico, anzitutto, la zorziana filiera storia, storia della cultura, storia dello spettacolo.

Non pochi i lemmi bibliografici di quel periodo da convocare a testimonianza di una pluralità d’interessi tesa, appunto, alla fondazione scientifica della storia dello spettacolo. Ne rammento, per brevità, solo alcuni. Anzitutto, l’esemplare mostra-saggio documentale Il luogo teatrale a Firenze. Brunelleschi Vasari Buontalenti Parigi («Spettacolo e musica nella Firenze medicea. Documenti e restituzioni», 1, 1975)[141] che, sin dal titolo, rinvia al concetto discusso in Francia nel 1963 nel fondante colloquio Le lieu théâtral à la Renaissance di cui danno conto gli atti riuniti nell’omonimo volume[142]. Concetto su cui varrebbe la pena di insistere per evitare fraintendimenti critici circa il decisivo passaggio dal luogo teatrale al teatro in età moderna, ossia per ribadire la non evoluzionistica decisiva differenza tra le molteplici diversificate tipologie del lieu e quelle altrettanto diversificate e molteplici dell’edificio teatrale.

In questa, come in altre successive iniziative espositive di fortuna europea (La scena del principe, 1980)[143], Zorzi nell’indagare gli spazi e le forme dello spettacolo della Firenze medicea, rapportandoli allo spazio urbano come all’architettura alla pittura alla musica e a una fitta rete di committenti realizzatori fruitori, seppe coniugare con originalità rigore scientifico-documentario, didattica universitaria e organizzazione di eventi culturali destinati a un ampio successo di pubblico, sintetizzando così ricerca e alta divulgazione. Impegno scientifico e impegno civile. Si ripensi a Ivrea. Fu questa una tra le tante vitali ‘lezioni’ zorziane. E spiace che non sia andato in porto il suo progetto di dotare Firenze di un inedito Dipartimento e museo regionale di storia della cultura scenica, musicale e di immagine urbana e territoriale della Toscana[144]; dove, tra l’altro, avrebbero trovato stabile collocazione i modelli lignei, resi ‘parlanti’ dalle folgoranti intuizioni dello studioso, che tanto avevano contribuito al successo delle esposizioni da lui ideate[145], restituendo plasticamente innovative ipotesi di ricostruzione degli spazi della spettacolarità teatrale medicea (fig. 15). Un esempio concreto di applicazione di metodo (un’àncora di salvezza a fronte di tante astrazioni teorico-critiche di ieri e di oggi), di riuscito lavoro di équipe, che andrebbe ora globalmente ridiscusso e aggiornato con le tecnologie della realtà virtuale attuando una rilettura in senso vitruviano della storia cinquecentesca del luogo teatrale di corte a Firenze[146].

Nel 1977, intanto, Einaudi aveva pubblicato il libro più noto e forse più importante di Zorzi. Alludo al citato Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana[147]. Un libro dagli orizzonti ampi centrato sulla dialettica spazio della città-spazio della scena (e viceversa). La città, 

la città si pone alla confluenza della natura con l’artificio. Agglomerato di esseri che racchiudono la loro storia biologica entro i suoi limiti e la modellano con tutte le loro intenzioni di creature pensanti, la città, per la sua genesi e per la sua forma, risulta contemporaneamente dalla procreazione biologica, dall’evoluzione organica e dalla creazione estetica. Essa è, nello stesso tempo, oggetto di natura e soggetto di cultura; individuo e gruppo; vissuta e sognata; cosa umana per eccellenza[148],

si legge nei già convocati Tristi tropici, volume che Zorzi amava e consigliava agli allievi[149].   

Vincitore del premio Viareggio per la saggistica 1978, il Teatro e la città, si sa, è articolato in tre densi capitoli, più una appendice (Note sul motivo della scena a portico)[150] ed è concluso da indici che ne consentono una spedita consultazione. Si prenda l’Indice degli argomenti esempio di sintesi concettuale sia della materia trattata nel volume, sia, più in generale, nell’organizzazione dei lemmi, di concentrata epistemologia dello spettacolo. Quasi un ‘thesaurus’ in miniatura che fa riflettere ancora oggi i colleghi di buona volontà sugli statuti scientifici della nostra disciplina. Uno strumento di lavoro a corredo di un libro che può, senza enfasi, dirsi magistrale. Punto di riferimento per gli studiosi, a trent’anni dalla pubblicazione; e, dicevo all’inizio, ineludibile lettura di formazione per chi sia interessato alla nostra disciplina che ribadisco, sommessamente, essere la storia dello spettacolo[151]. È vero che paradossalmente, si suol dire, «lo storico dello spettacolo non può fare la storia sugli spettacoli»[152]; ma è altrettanto vero che deve decodificarne le tracce per tentare di ricostruire e interpretare l’idea di teatro e spettacolo di un’epoca o di un determinato ambiente culturale utilizzando i tasselli documentali di un puzzle solo in parte ricomponibile. Siamo infatti ‘viaggiatori’ alla ricerca di nuovi territori e di «sogni perduti», di fantasmi di spettacoli di cui ci affanniamo a mettere insieme i pezzi, ma ci manca sempre qualche elemento[153]; e, comunque vadano le cose, formuleremo delle ipotesi di lavoro, anche nel più fortunato dei casi. Viviamo di dubbi diuturni e di curiosità.

Composto da scritti già editi[154] (arricchiti nei primi due capitoli da un vertiginoso tessuto di note[155], un libro nel libro, sorta di personalissimo ‘genere’ scrittorio che, come nel Ruzante del ’67, svela al lettore paziente la complessa griglia ermeneutica zorziana e gli indica nuove piste) il Teatro e la città indaga, nell’«ottica multilineare» cioè ‘totale’ tipica dello studioso, la scena italiana tra Quattro e Settecento tramite gli exempla di Ferrara (spazio pseudo-prospettico), Firenze (spazio prospettico) e Venezia (spazio cinetico)[156], dando vita a un affresco di storia globale e contestuale dello spettacolo e della cultura in cui, di caso in caso, di problema in problema, si inventano nuovi ben calibrati grimaldelli ermeneutici; ben sapendo la sterilità scientifica di griglie metodologiche ‘universali’ preventive, valide a tutte le latitudini e per tutte le epoche. Il più si impara facendo[157]. Ne deriva una storia dello spettacolo fluida, a-centrica, al plurale. Capace cioè di non cristallizzarsi in sé stessa; di abbattere gli ‘steccati’ disciplinari perseguendo metodi via via diversi dettati dai differenti ‘terreni’ da dissodare; e, infine, questione decisiva, d’inventare, di volta in volta, le proprie fonti in modo originale facendo ricorso anche (in alcuni casi soprattutto) a documenti analogici, ‘insospettabili’ ai più, messi a illuminante confronto con le fonti dirette.

È quest’ultimo, credo, l’esito più nuovo e di maggior respiro della lezione scientifica di Ludovico Zorzi[158]. Si pensi tra l’altro, sul versante fiorentino, al fecondo concetto di «ricaduta tecnologica», dalla macrostruttura del cantiere allo spettacolo, applicato sin dal 1975 agli ‘ingegni’ di Brunelleschi: ricostruiti e interpretati in modo innovativo mettendo a partito i sino allora trascurati sintagmi salienti del lessico architettonico di ser Filippo[159]; oppure all’uso sapiente dei riscontri iconografici indiretti per ricostruire sia tali ‘ingegni’, sia il ‘clima’ figurativo del buontalentiano Teatro degli Uffizi svariante, nelle sue due diverse edizioni decorative (1586, 1589), tra la decorazione affrescata della Grotta Grande di Boboli, la decorazione parietale a commesso della Cappella dei Principi in San Lorenzo sino alla forma elegante delle scale a conchiglia progettate da Buontalenti stesso per Santa Trinita[160] (fig. 15). O, in più ampie campiture, si pensi al ‘codice’ ermeneutico binario «pratica scenica ‘romanza’»/«tradizione classicistica o pseudo-vitruviana»[161], chiave di volta dell’‘invenzione’ del teatro[162], che richiama le chiavi interpretative binarie applicate dal Dionisotti alla letteratura italiana[163]; o, infine, ma l’esemplificazione dovrebbe proseguire, allo zorziano porre l’accento sulla centralità della ricognizione degli spazi del teatro e del cosiddetto target group:

avvertendo che, per fare storia del teatro, la semplice indagine drammaturgica, paga dell’inventario e del commento dei testi, risulta insufficiente. Ciò che conta è innanzitutto la ricognizione dei luoghi, cui faccia seguito una adeguata analisi della problematica sollevata dai gruppi destinatari[164].

Enunciato metodologico prezioso negli anni Settanta del secolo che ci è alle spalle; e che oggi dovrebbe suonare agli addetti ai lavori persino ovvio o sin troppo sbilanciato. Lo credevamo assodato. Ci siamo illusi? Probabile se si guarda all’attuale crisi d’identità della disciplina. «Chiediamoci, anzitutto, chi siamo», ha autorevolmente consigliato Cesare Molinari ai colleghi convenuti all'inizio del 2007 a Firenze a una riunione della Consulta Universitaria Teatrale durante la quale in pochi sembravamo ricordare la battaglia combattuta, in primo luogo dai nostri maestri, per affrancare la storia dello spettacolo. «Il pericolo è spesso quello di fare solo delle chiacchiere», ammoniva in tempi ormai lontani Ludovico Zorzi[165] (ci sarebbe piaciuto vederlo in azione a quella Consulta). Ci siamo illusi, dunque?

Parrebbe di sì, spiace constatarlo. Se è vero che da qualche tempo si è ricominciato a parlare, come in un gioco dell’oca che riconduce il giocatore sfortunato sempre al punto di partenza, di primato del testo; asserendo, inoltre, la necessità di tornare alla lezione del Croce[166] (e non certo, parrebbe di capire, al Croce del mirabile volume su I teatri di Napoli, in specie nella sua prima edizione, o delle acute pagine sulla Commedia dell’Arte)[167]. Così facendo si rischia di far ricadere la nostra ex giovane disciplina, che ha ormai più di qualche ruga e rischia di invecchiare male, in quel ruolo di «passe-partout critico ancillare della letteratura» che tanto infastidiva e preoccupava Zorzi[168], convinto assertore, invece, di «un’idea assolutamente nuova di testo teatrale, cioè totale»[169]. Quell’anacronistico ruolo subalterno pensavamo di averlo abbandonato da tempo. Grazie anche a una più ariosa nozione di drammaturgia e al suo strumentario euristico. Quando della storia del teatro non si abbia una visione letteraria ‘alta’, ma trasversale ‘laica’ e meticciata, la drammaturgia si rivela spesso, nelle sue diverse declinazioni nei tempi lunghi della storia, creazione artigianale, fluida e al plurale, che elabora molteplici linguaggi artistici ed è collegata alle istanze dei committenti, allo spazio scenico, agli attori e agli  spettatori[170]. Non crediamo nel revival dell’egemonia del testo. Come non credevamo che il «Dramma» fosse «l’arte che vuole, più di tutte l’altre, rifare l’opera di Dio»[171]. Piano e distinguiamo, avrebbe detto Michele Barbi, allievo del D’Ancona e del Rajna (il Rajna di Montale)[172], e lucido alfiere, con Ernesto Giacomo Parodi, della nuova filologia[173]. Distinguiamo, dunque, per favore: di contesto in contesto, di testo in testo; consapevoli dell’assenza di rapporti gerarchici nei moderni saperi. Si ripensi all’immagine a-centrica del grafo.     

Che la crisi d’identità sia attualissima lo conferma, tra l’altro, una recente History of Italian Theatre[174] stilata (salvo eccezioni confermanti la regola) dal punto di vista dell’italianistica. Un’occasione mancata, a dispetto delle ambiziose dichiarazioni d’intenti; che fa rimpiangere, una volta in più, la citata contestualizzante Storia del teatro italiano progettata da Ludovico Zorzi, per gli Annali della Storia d’Italia, dal punto di vista della sua a-centrica storia del teatro interrotta dalla morte. E viene il sospetto che si faccia il possibile per riportare le lancette dell’orologio addietro nel tempo. Come mi sono permesso di dire pubblicamente in occasione della citata Consulta. E che dire, invece, della vagheggiata «via informatica alla felicità» di cui si è trattato in un successivo convegno di settore (Il futuro dei DAMS) che ha avuto luogo a Torino nel giugno 2007? Forse che dobbiamo fare attenzione a un’ulteriore possibile perdita d’identità della nostra infelice labile materia (e dei nostri sempre più infelici scolari); ché, si badi, il digitale deve essere uno strumento prezioso al servizio della storia dello spettacolo[175] (si pensi al progetto di ricerca AMAtI, innovativo Archivio Multimediale degli Attori Italiani diretto da Ferrone), non il fine ultimo dei nostri corsi di laurea zelighiani: troppo spesso in bilico tra le insidiose ‘sirene’ della comunicazione e introflessioni letterario-filosofiche mascherate; e, aggiungo, troppo spesso al servizio, troppo zelante, del troppo ‘rumoroso’ mercato come dell’ottusa burocrazia universitaria. Una miscela ‘formativa’ che, almeno per me, ha il sapore amaro di un surrogato (penso a Totò). E la storia? E i tanto preziosi quanto inevitabili tempi lunghi della ricerca? E l’impegno civile dei nostri maestri?      

Warum
? si sarebbe chiesto uno spazientito Zorzi (che – lo ricordiamo bene, lo ricordiamo in tanti – si ribellava alla demagogia, come alle ‘mode’ e all’arroganza delle cosiddette materie ‘forti’[176], sottolineando inoltre che nel nostro campo d’indagine, «a differenza di altri settori degli studi umanistici in cui l’aria è ormai quasi asfittica, circola ancora un’aria respirabile, […] un’aria da terra vergine, o almeno da prateria»)[177]. A chi giova? Così facendo si dimentica (si finge di dimenticare) che la storia dello spettacolo è storia contestuale globale e unitaria di un fluido e complesso sistema di relazioni fondata sull’interrogatorio incrociato di molteplicità di fonti, testi e documenti diversi. Sulla reinvenzione costante dei campi d’indagine. Promotori organizzatori e realizzatori dell’evento spettacolare costituiscono un trittico inscindibile. Trittico da porre in relazione con lo spazio e i meccanismi di fruizione di un determinato spettacolo e di un determinato ambiente, con l’analisi del gusto e delle emozioni provate dagli spettatori. Vale a dire con lo studio del pubblico nelle sue mutevoli mentalità e composizioni sociali, senza tralasciare le multiformi strutture testuali a esso destinate, certo (siano esse consuntivi di palcoscenico o preventivi letterari)[178], ma nemmeno privilegiandole come unica «vera e globale misura intrinseca di valore»[179]. È vero che, se indagato correttamente, cioè nel suo specifico contesto storico-culturale, il testo è un serbatoio di conoscenza teatrale, ma è altrettanto vero che la sua preconcetta egemonia ermeneutica è sterile.  

Si pensi al valore assertivo dei documenti iconografici cui Zorzi ha dedicato tanta intelligenza. Al riguardo occorrerebbe uno specifico corso (che potrebbe congiuntamente prender le mosse dallo scritto sulle documentali incisioni veneziane di Giacomo Franco (fig. 16); e da quello, denso di acuta erudizione, sulle pregevoli tavole del codice Bottacin di Padova (fig. 17) messe pionieristicamente in rapporto con la analoga serie iconografica di ‘scene’ venete del codice di Yale)[180].

Basti qui accennare alla ricognizione del ciclo delle Storie di sant’Orsola dipinto da Vittore Carpaccio dal 1490 al 1497-’98. Il saggio ursuliano[181] dispiega un’analisi lenticolare a autentica vocazione ‘poliziesca’ giungendo a distinguere con maestria filologica, all’interno del ciclo, tre gruppi di teleri, svarianti dal tema della ambasceria a quello della peregrinatio, caratterizzati dalla memoria, distanziata nel tempo nella mente del pittore, di differenti ‘semi’ dello spettacolo veneziano ‘teatrale’ e cerimoniale: rappresentazione sacra, cerimonia di stato, sfilata stradale, momaria[182].

Leggendo quelle pagine si comprende meglio quanto Zorzi scriveva nel 1979 affrontando per la Storia dell’arte italiana Einaudi la vexata quaestio della «partita senza fine»[183] tra arte e spettacolo. Zorzi, è noto, mette in pagina un incipit che a una prima lettura suona eccessivo: «Senza la storia dell’arte, la storia dello spettacolo rischierebbe di rimanere una disciplina senza oggetto»[184]. L’affermazione, infatti, è sembrata una forzatura alla maggior parte degli studiosi[185].

Tuttavia, forse, non ci si è interrogati abbastanza sul perché di una siffatta perentoria enunciazione di metodo ché sarebbe riduttivo ignorare quanto il concetto stesso di fonte fosse da lui concepito in modo scaltrito, allargato. Quella affermazione perentoria ed eccessiva va interpretata, a mio parere, come una forzatura voluta; o, meglio, come una consapevole ‘provocazione’. Un’ulteriore tendenziosa zorziana provocazione, che si aggiunge a quelle sin qui menzionate, dettata da almeno tre valide motivazioni interiori: 1) la necessità di un assunto metodologico ‘forte’ al momento di formulare una teorizzazione dell’annoso problema figurazione pittorica/figurazione teatrale in rapporto a una disciplina allora in nuce come la storia dello spettacolo («una disciplina ‘da fare’», asseriva Zorzi in quegli anni: si riveda la citata Premessa a Il teatro e la città); 2) le pregresse e contestuali esperienze degli studi su Schifanoia e sul Carpaccio, che tanto hanno contribuito al concretizzarsi della nuova storia del teatro aprendo nuovi orizzonti interpretativi; 3) la concezione ‘allargata’ di storia dell’arte. Una storia dell’arte che, per lo studioso veneziano, viveva di contesti, di respiri culturali ampi, di warburghiana ‘scienza del significato’, cioè di una scienza «che chiama a raccolta – scriveva Zorzi – le fonti della storia dell’arte, della filosofia, della letteratura e della musica»[186], nonché di ‘colloqui’ tra le discipline delle cosiddette scienze umane da cui ricavare – avvertiva Zorzi, e la notazione è importante, – «non solo tecniche e metodologie sperimentate, ma anche delle logiche di lavoro»[187]. Conoscere mille per conservare dieci[188], senza dogmi o etichette. Che è poi il citato metodo multilineare attuato senza indugi e senza prediche nel Teatro e la città come nel Carpaccio.

Tutto ciò trova conferma proprio in una pagina del Carpaccio che svela, credo, il ‘sottotesto’ dell’incipit di Figurazione pittorica e figurazione teatrale: «È tempo di convenire che, ai fini della ricerca storica, il particolare trasmesso da una fonte figurale possiede il medesimo valore assertivo di quello convenzionalmente riconosciuto a una fonte scritta, ovvero che un quadro o un disegno equivalgono o sono essi stessi un documento, purché, beninteso, si dimostrino assimilabili, quanto a potere di prova, a una serie omologa di testimonianze»[189]. Allargamento del concetto di fonte e incrocio delle testimonianze[190]; e inoltre, è stato ben osservato, «tenacia polemica di chi troppi ostacoli di ottusità critica ha dovuto incontrare sulla sua strada di investigatore»[191]. Sicché va ribadito il valore fondante, anche sul piano del metodo, dell’investigazione zorziana centrata sul recupero della memoria di spettacoli nei teleri di Orsola (dipinti – si badi – da considerare anche quali straordinari documenti della civiltà veneziana di fine Quattrocento). Una memoria ‘filtrata’, è ovvio; formalizzata e ‘interpretata’ dalla memoria e dal linguaggio pittorico di Vittore come dalle richieste della committenza, è evidente; ma non per questo meno preziosa se indagata con rigore contestuale. Senza i teleri ursuliani, afferma Zorzi, poco sapremmo sul multiforme «spettacolo veneziano dello scorcio del secolo»[192]. Osservazione in larga misura condivisibile; che si salda, in una sorta di dittico metodologico, con il citato incipit di Figurazione da cui abbiamo preso le mosse.

Si ricordi allora, in particolare, la magistrale ‘lettura’ del III telero[193], il Ritorno degli ambasciatori, gremito di ‘semi’ spettacolari. L’inedita dimostrazione scientifica zorziana acquisisce con sicurezza il dipinto alle fonti della nostra disciplina superando le colonne d’Ercole di una canonica iconografia teatrale[194]. Viviamo così un «sogno della storia»[195] supportato dalla vis filologica dispiegata dallo studioso nell’intero saggio. Ascoltiamo di nuovo la vivissima ‘voce’ di Zorzi per tentare di comprendere davvero la sua lezione scientifica (fig. 18):

La figura dello scalco, non a caso associata a quella del suonatore, presiedeva all’ordinato incedere del corteo, segnando con i colpi della mazza battuta al suolo gli spunti per le partenze e gli arresti. Qui vediamo alcuni membri  dell’ambasceria muoversi secondo i tempi scanditi dalla mazza e dal suono: il primo a sinistra, più prossimo al piccolo musicante e con in capo il berretto ‘all’inglese’ di feltro bianco, attende il suo turno da fermo, contando mentalmente le battute; il secondo, seguendo una nota tenuta lunga, avanza allentando il passo in una sorta di anticipo della genuflessione da compiere dinanzi al sovrano; il terzo, e forse il quarto di spalle (posto che costui faccia parte della missione e non sia il principe in attesa), sostano in una pausa marcata, compiendo entrambi una conversione all’interno, che probabilmente costituiva una figura del corteo cerimoniale: attendono che l’altro passi avanti, per chiudere e seguirlo insieme verso l’edicola reale. Il suono della ribeca, regolato dai colpi del mazziere, si estende fino a coprire questa metà della scena. […] Qui l’ora prescelta appare quella di un tardo meriggio, il cui oro caldo accende i colori e li diffonde, nell’onda di una sinestesia che assimila il soffio del vento al fiotto sottile delle note. La musica sale sopra il silenzio della folla in attesa: nell’intervallo tra un accordo e l’altro potrebbe udirsi la voce di colui che legge il messaggio sotto l’edicola, stabilendo un contrappunto sonoro tra i due poli entro i quali l’azione si agisce[196]

Storia dello spettacolo, infine. Nuova storia dello spettacolo: ponderatissima ipotesi di lavoro librata, sul filo impalpabile di una sinestesia, in un tardo pomeriggio del Quattrocento veneziano inondato di luce. Aria e luce. Scrittura limpida, precisa e avvincente, del massimo studioso novecentesco dello spettacolo del Rinascimento. Metodologia che può ben definirsi schiettamente zorziana. Davvero, nel caso specifico, la storia dello spettacolo senza la storia dell’arte rischierebbe di rimanere una disciplina senza oggetto. Si pensi, inoltre, alla coltissima ‘aristocratica’ «digressione» sui concetti di hortus conclusus e locus amoenus in rapporto alla genesi del luogo teatrale signorile rinascimentale[197]. E si ricordi che la stesura del saggio sulla figurazione (edito, si diceva, nel 1979) è prossima agli studi e ai seminari fiorentini di Zorzi sui cicli di Schifanoia (1975-1976, 1980-1981) e di Orsola (1979-1980). Naturale che molto di quegli studi e di quei seminari appassionati (e appassionanti) riecheggi in quell’incipit riflesso di una vicenda scientifica incentrata in primis, in quel breve giro d’anni, sulla restituzione della visualità dello spettacolo del Quattrocento (così recita il sottotitolo del postumo volume einaudiano che, peraltro, avrebbe dovuto intitolarsi L’ingegno e l’angelo. Ricerche sullo spettacolo nel Quattrocento schierando altri due saggi e due appendici).

Ma, attenzione, la produzione scientifica zorziana non va parcellizzata. Va gustata nel suo insieme per comprenderne sino in fondo l’importanza[198]. Perché, è stato osservato, «ciò che più colpiva in Zorzi era proprio l’entusiasmo intellettuale inesauribile, l’insoddisfazione costante e la volontà caparbia ogni volta di andare oltre quella insoddisfazione (esemplare prova di autocritica e umiltà) per tentare strade diverse e più persuasive secondo un processo mai quietamente stabilizzato, ma drammaticamente dinamico»[199].

Piove sulla tua tomba a San Felice, a Ema, e la terra non trema.


[116] Sullo stato attuale degli studi ruzantiani cfr. almeno gli scritti raccolti in «In lengua grossa, in lengua sutile» cit.

[117] Cfr. Zorzi, Note alla ‘Pastoral’, in Ruzante, Teatro cit., p. 1296; Id., Note alla ‘Betia’, ivi, p. 1347 (e passim).

[118] Come osserva, per esempio, anche F. Taviani, Una pagina sulla Commedia dell’Arte, in Ludovico Zorzi e la “nuova storia” del teatro cit., pp. 73-81: 77-78.

[119] E cfr., per successive, proficue esemplificazioni di metodo, S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1993 (in particolare il cap. V. Arlecchino rapito e il cap. VI. Lelio bandito e santo). 

[120] Cfr. Zorzi, Nota al testo cit., p. 1633.

[121] L. Zorzi, Tra Ruzzante e Vitruvio (appunti sul luogo scenico di casa Cornaro), in Alvise Cornaro e  il suo tempo, catalogo della mostra a cura di L. Puppi (Padova, 7 settembre-9 novembre 1980), Padova, Comune di Padova, 1980, pp. 94-104 (estratto).

[122] Zorzi, Note alla ‘Vaccària’, in Ruzante, Teatro cit., p. 1549 (e cfr. Ferrone, Da Ruzante a Andreini cit., pp. 23-24). 

[123] Zorzi, Nota al testo cit., p. 1635.

[124] In d’Amico, Testimonianza cit., p. 6.

[125] L’elenco dei seminari e dei corsi universitari di Zorzi è registrato in Ludovico Zorzi tra ricerca, didattica e organizzazione culturale cit., pp. 47-48. Per una testimonianza sulle lezioni torinesi cfr. Tessari, Ludovico Zorzi e la Commedia dell’Arte cit., pp. 82-88.  

[126] Si veda il ricordo di Apollonio stilato da Zorzi per il «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1972, vol. CXLIX, pp. 478-479.

[127] Vd. la pregevole scelta di scritti raccolta in Schacherl, Il critico errante cit.; in particolare, per quanto qui ora interessa, cfr. pp. 63-66, Tutto Ruzante nel testo critico (1968).

[128] Cfr. Università degli Studi di Firenze-Facoltà di Lettere, La fortuna e l’opera di Angelo Beolco detto Ruzante. Seminario di letteratura italiana, Firenze, Centro Stampa della Facoltà, a.a. 1968/1969 (p. VI, per il gruppo di studio di cui fece parte Lia Lapini). 

[129] Per la vita della facoltà in quegli anni difficili di profondi mutamenti vd. P. Marrassini, Una facoltà improduttiva: Lettere fra cultura e politica, in L’Università degli Studi di Firenze 1924-2004, Firenze, Olschki, 2004, vol. I, pp. 49-164: 122-137.

[130] Rivedi nota 125.  

[131] Si veda la Bibliografia degli scritti di Lanfranco Caretti, a cura di R. Bruscagli e G. Tellini, Roma, Bulzoni, 1996. 

[132] Cfr. Caretti, Congedo da Ludovico Zorzi cit., p. 195. 

[133] In prima battuta Caretti aveva proposto a Schacherl di insegnare a Firenze. Egli declinò l’invito asserendo che il «migliore» era Zorzi. Devo questa notizia alle gentilezza di Siro Ferrone.

[134] Così Caretti (Congedo da Ludovico Zorzi cit., p. 196).

[135] Ibid.  

[136] Mamone, Le “tesi” di Ludovico Zorzi cit. p. 36 (a proposito della generosità scientifica di Zorzi).

[137] Rivedi nota 32.

[138] La manifestazione, voluta e ideata da Siro Ferrone e Sara Mamone, vide Marcello Bartoli recitare Ruzante, Sandro Lombardi leggere una scelta degli scritti di Zorzi e, infine, l’esecuzione di musiche care allo studioso eseguite dall’Orchestra della sua Università. 

[139] Il 13 marzo, nell’aula magna del rettorato dell’ateneo fiorentino si tenne un convegno internazionale (Ricerca teatrale e teatro di ricerca); tre giorni dopo, nell’aula B della facoltà di Lettere, stracolma di studenti, si tenne un vivacissimo incontro con Giorgio Strehler affiancato da Tullio Kezich e da Siro Ferrone (Goldoni e memorie). L’intervento del regista si legge ora in Strehler, Memorie cit., pp. 275-295 (Appendice III. Lezione goldoniana agli studenti di Firenze). Si ricordi infine, nel medesimo anno, la citata mostra bibliografico-documentaria sullo studioso allestita dall’Istituto Ludovico Zorzi per le arti dello spettacolo in collaborazione con la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (di cui abbiamo già avuto modo di ricordare il catalogo). Per notizie sull’Istituto Zorzi cfr. ILZ, Newsletter 1 (giugno 1994).

[140] Per Ludovico Zorzi, a cura di S. Mamone, in  «Medioevo e Rinascimento», VI/n.s. III, 1992 (per la cit. ivi, p. XVII).

[141] Catalogo della mostra a cura di M. Fabbri, E. Garbero  Zorzi, A.M. Petrioli Tofani, introd. di L. Zorzi [ordinatore] (Firenze, 31 maggio-31 ottobre 1975), Milano, Electa, 1975. Allo stesso anno si ancora anche l’esposizione veneziana Illusione e pratica teatrale. Proposte per una lettura dello spazio scenico dagli intermedi fiorentini all’opera comica veneziana, catalogo della mostra a cura di F. Mancini, M.T. Muraro, E. Povoledo, presentazione di G. Folena, Vicenza, Neri Pozza, 1975.

[142] Paris, CNRS, 1964.

[143] Catalogo della mostra a cura di E. Garbero, A.M. Petrioli Tofani, L. Zorzi [ordinatore] (Firenze, 1980), Firenze, Edizioni Medicee, 1980.

[144] Cfr. E. Garbero Zorzi, La difficile vita dei musei teatrali, in «Hystrio», 1994, n. 4, pp. 23-25 (estratto). Vd. inoltre la citata Newsletter dell’ILZ, pp. 13-14 (anche per la notizia sul carteggio 1977-1981 tra Zorzi e gli assessorati alla Cultura degli enti locali).

[145] Maquettes poi riproposte e discusse in Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, catalogo della mostra a cura di E. Garbero Zorzi e M. Sperenzi  (Firenze, 1° aprile-9 settembre 2001), Firenze, Olschki, 2001. Al riguardo cfr. S. Ferrone, La grandezza di Ludovico Zorzi, www.drammaturgia.it (data di pubblicazione sul web 1 gennaio 2002).  

[146] Cfr. S. Mazzoni, L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria», Firenze, Le Lettere, 1998, p. 114. 

[147] Si veda ad esempio, a botta calda, la breve ma succosa recensione di F. Cruciani, in «Biblioteca teatrale», 1978, nn. 21-22, p. 301; e cfr., da ultimo, P. Puppa, Storia e storie del teatro, in Avanguardie e utopie del teatro cit., pp. 1267-1284: 1275-1277.

[148] Lévi-Strauss, Tristi tropici cit., p. 119.  

[149] Vd. a conferma Lapini, Che cos’è la storia dello spettacolo? cit., pp. 33-34. 

[150] Scritto pionieristico edito per la prima volta con il titolo La scena veneta prima del Palladio, in «Comunità», XVIII, 1964, n. 119, pp. 40-75; poi, con ritocchi e con diverso titolo (Elementi per la visualizzazione della scena veneta prima del Palladio), nel vol. Studi sul teatro veneto fra Rinascimento ed età barocca, a cura di M.T. Muraro, presentazione di G. Folena, Firenze, Olschki, 1971, pp. 21-51; e, infine, appunto, con il citato titolo Note sul motivo della scena a portico, in Il teatro e la città cit., pp. 293-326.   

[151] Si ricordi, per uno specimen anche metodologico di referenze, la collana «Storia dello spettacolo» diretta da Siro Ferrone per la fiorentina casa editrice Le Lettere. 

[152] F. Marotti, Prefazione ad A. Appia, Attore musica e  scena. La messa in scena del dramma wagneriano. La musica e la messa in scena. L’opera d’arte vivente, introd. e cura di F. M., Milano, Feltrinelli, 1983³, p. 8. 

[153] Vd. O. Soriano, El ojo de la patria. Il brano in questione è posto in epigrafe da Lionello Puppi al suo volume Museo di memorie, strip-tease di uno storico dell’arte, Padova, il Poligrafo, 1995.

[154] 1. Ferrara: il sipario ducale (versione ampliata della relazione tenuta nell’ottobre 1975 a Ferrara al convegno Società e cultura al tempo di Ludovico Ariosto edita, senza note e con il titolo Il teatro e la città: ricognizione del ciclo di Schifanoia, in Il Rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari, De Donato, 1977, pp. 531-552); 2.  Firenze: il teatro e la città (saggio pubblicato per la prima volta come Introduzione  al citato catalogo della mostra Il luogo teatrale a Firenze, pp. 9-51); 3. Venezia: la Repubblica a teatro (scritto edito per la prima volta, con il titolo I teatri di Venezia [secoli XVII-XVIII], come introduzione a I teatri pubblici di Venezia [secoli XVII-XVIII], mostra documentaria e catalogo a cura di L. Zorzi, M.T. Muraro, G. Prato, E. Zorzi,  Venezia, La Biennale, 1971, pp. 9-50).   

[155] Si vedano in particolare i ‘microsaggi’ sull’‘archeologia’ della scena di città e sul binomio tecnica teatrale romanza/ecdotica classicistico-vitruviana (cfr. Zorzi, Il teatro e la città cit., rispettivamente pp. 48 n.-54 n.; 170 n.-174 n.).

[156] Cfr. inoltre Id., Intorno allo spazio scenico veneziano, in Venezia e lo spazio scenico, catalogo della mostra (Venezia, 6 ottobre-4 novembre 1979), Venezia, Edizioni La Biennale di Venezia, 1979, pp. 81-109. 

[157] Prendo in prestito parole di Michele Barbi (vd. qui avanti nota 173).

[158] Si vedano le condivisibili ‘chiose’ di S. Mamone, Storia dello spettacolo: il testimone preterintenzionale, in Per Ludovico Zorzi cit., pp. XI-XVIII: in particolare pp. XIV-XV.

[159] Cfr. Zorzi, Il teatro e la città cit., in particolare p. 156 n. E cfr. Id., La scenotecnica brunelleschiana. Problemi filologici e interpretativi, in Filippo Brunelleschi. La sua opera e il suo tempo. Atti del convegno internazionale di studi (Firenze, 1977), Firenze, Centro Di, 1980, to. I, pp. 161-171 (estratto).   

[160] Cfr. Zorzi, Il teatro e la città cit., in particolare pp. 214 n.-216 n. 

[161] Ivi, p. 171 n. (e rivedi qui nota 155).

[162] Cfr. F. Cruciani, Dietro le origini del teatro rinascimentale, in Ludovico Zorzi e la “nuova storia” del teatro cit., pp. 14-21: 21 (poi in Il teatro italiano nel Rinascimento, a cura di F. C. e D. Seragnoli, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 45-52). 

[163] Cfr. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967.

[164] Zorzi, Il teatro e la città cit., p. 189 n. (a proposito della scena fiorentina tra Quattro e Cinquecento).

[165] In Lapini, Che cos’è la storia dello spettacolo? cit., p. 31 (a proposito delle molteplici storie insegnate nelle nostre facoltà umanistiche). 

[166] Osservava Zorzi a proposito degli epigoni di Croce: «Si fa storia per conoscere, possibilmente senza miti (quindi con un minimo di posizione euristica) il passato e per interpretarlo, e insieme per percorrere razionalmente il nostro presente, in modo da consegnarlo a noi stessi quali saremo domani e a chi verrà dopo di noi. Questo il senso possibile di fare storia. Quali sono però gli a-priori, i preconcetti, i pregiudizi che intervengono nostro malgrado nelle nostre riflessioni? Sono a-priori di natura ideologico-religiosa spesso, abitudini mentali che possono produrre dal punto di vista scientifico letterali catastrofi. Per Benedetto Croce, per esempio, dall’unità dello “spirito” discendono le forme necessarie a comprendere i fenomeni storici; di quale spirito si tratti non è dato sapere, né è dimostrabile. In questo caso la storia si identifica con la filosofia, cioè con un a-priori. Da qui la schiera degli epigoni, gli storici italiani di formazione e di impostazione idealistica (e ne esistono ancora molti, anche fra i cosiddetti marxisti), che si sentono autorizzati ad astrarre da inquadramenti storici precisi» (ibid., da una lezione tenuta da Zorzi nel marzo 1981 presso la sua cattedra di storia dello spettacolo dell’Università di Firenze).

[167] Cfr. B. Croce, I teatri di Napoli. Secolo XV-XVIII, Napoli, Luigi Pierro, 1891. Si veda ora la  ristampa della quarta edizione (1947): I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1992. Il noto saggio Intorno alla «commedia dell’arte» (apprezzato e citato da Zorzi anche a lezione) si legge in B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Bari, Laterza, 1933, pp. 503-514. E cfr. L. Zorzi, Conversazione-riflessione intorno alla Commedia dell’Arte (1978), ora con diverso titolo (Sui caratteri originali del fenomeno) in Id., L’attore, la commedia, il drammaturgo cit., pp. 141-153. 

[168] Le parole di Zorzi si leggono in  Lapini, Che cos’è la storia dello spettacolo? cit., p. 30 n.

[169] Mamone, Le “tesi” di Ludovico Zorzi cit., p. 39. Mio il corsivo.

[170] Cfr. S. Ferrone, Scrivere per lo spettacolo, in Drammaturgia a più mani, «Drammaturgia», I, 1994, n. 1, pp. 7-22.

[171] S. d’Amico, L’attore e la messinscena, in Id., Tramonto del grande attore, Milano, Mondadori, 1929, pp. 9-38: 11 (ripubblicato con una presentazione di L. Squarzina e un saggio di A. Mancini, Firenze, La Casa Usher, 1985).

[172] A Pio Rajna, in  Montale, L’opera in versi cit. p. 519 (Quaderno di quattro anni). 

[173] Cfr. M. Barbi, La nuova filologia e l'edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze, Sansoni, 1938 (rist. anast., con la bibliografia degli scritti di M. Barbi, a cura di S.A. Barbi. Introduzione di V. Branca, Firenze, Le Lettere, 1994). E si veda F. Mazzoni, Michele Barbi filologo, in «Farestoria»,  VII, 1988, nn. 1-2, pp. 3-11.  

[174] A History of Italian Theatre, edited by J. Farrell and P. Puppa, New York, Cambridge University Press, 2006. 

[175] Cfr., per esempio, Informatica per le scienze umanistiche, a cura di T. Numerico e A. Vespignani, Bologna, il Mulino, 2003; e, soprattutto, F. Metitieri-R. Ridi, Biblioteche in Rete. Istruzioni per l’uso, Roma-Bari, Laterza, 20054 (nuova ediz. riveduta e aggiornata). 

[176] Molteplici i ricordi personali al riguardo (e vd. a conferma Ferrone, La grandezza di Ludovico Zorzi cit.).

[177] Zorzi, La raccolta degli scenari italiani cit., p. 200.

[178] Cfr. S. Ferrone, Drammaturgia e ruoli teatrali, in «Il castello di Elsinore», I, 1988, n. 3,  pp.  37-44.  

[179] G. Folena, Presentazione a Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento. Machiavelli Ruzzante Aretino Guarini Commedia dell’Arte, Padova, Liviana, 1970, pp. IX-XIX: XIII (cfr. anche ivi, p. XVI).

[180] Cfr. L. Zorzi, Spettacoli popolari veneziani del tardo Cinquecento (dagli ‘Habiti’ di Giacomo Franco) (1956), ora Id., L’attore, la commedia, il drammaturgo cit., pp. 172-180; Id., Costumi e scene italiani: il codice Bottacin di Padova, in Storia d’Italia cit., II (1974). Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, to. II, pp.  n.n. (dopo p. 1466). Si ricordi che nove tavole di tale codice erano già state impiegate dallo studioso per illustrare l’edizione 1967 del teatro del Beolco (cfr., nell’ ediz. cit., pp. 1637-1638, Nota alle illustrazioni ).     

[181] L. Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di Sant’Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento [1980-1981], Torino, Einaudi, 1988.  

[182] Cfr. ivi, in particolare pp. 29, 132.

[183] S. Mamone, Arte e spettacolo: la partita senza fine (1996), ora in Id., Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese (XV-XVII secolo), Roma, Bulzoni, 2003, pp. 27-67. 

[184] L. Zorzi, Figurazione pittorica e figurazione teatrale, in Storia dell’arte italiana, vol. I. Questioni e metodi, Torino, Einaudi, 1979, pp. 419-463 : 421.

[185] Cfr. C. Molinari, Sull’iconografia come fonte della storia del teatro (1991), ora in Immagini di teatro, a cura di  G. Botti, «Biblioteca teatrale», n.s., 1996, nn. 37-38, pp. 19-40: 21; Mamone, Arte e spettacolo cit., p. 29; R. Guardenti, Teatro e iconografia: un dossier, in «Teatro e Storia», XVIII, 2004, n. 25, p. 14.

[186] Zorzi, Figurazione pittorica e figurazione teatrale cit., p. 422 (L’analisi teatrale).

[187] In Lapini, Che cos’è la storia dello spettacolo? cit., p. 30. Mio il corsivo.  

[188] Prendo in prestito parole di R. Romano e C. Vivanti, Premessa a Storia d’Italia, Annali, I. Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. XV-XXV: XVIII.

[189] Zorzi, Carpaccio cit., p. 81.

[190] Da qui, per esempio, l’interrogatorio delle notizie registrate dal Sanuto, condotto da Zorzi in parallelo all’indagine sull’enciclopedica pittura del Carpaccio. Nell’a.a. 1981-1982 il corso tenuto dallo studioso si intitolava Notizie di teatro nei ‘Diari’ di Marin Sanuto (1497-1533) (conservo tra le mie carte la ricca bibliografia di quel corso per me fondante).

[191] S. Ferrone, La selva opaca e il castello della mente, in  «Il castello di Elsinore», I, 1988, n. 3, pp. 157-161: 157. Per la ricezione storiografica del volume postumo cfr. inoltre M. Pieri, Ludovico Zorzi e il metodo della curiosità, in «Belfagor», XLIV, 1989, fasc. 1, pp. 66-70 (estratto); R. Guarino, Immagini di spettacolo a Venezia nel tardo Quattrocento. Riflessioni sul «Carpaccio» di Ludovico Zorzi, in «Teatro e Storia», IV, 1989,  n. 6, pp. 19-70.

[192] Zorzi, Carpaccio cit., p. 3.

[193] Cfr. ivi, pp. 49 ss.

[194] Per la quale si veda il prezioso dvd-rom Dionysos. Archivio di iconografia teatrale. Theatre Iconography Archive, coordinato da R. Guardenti e C. Molinari, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2006 (oltre 21.000 immagini dall’antichità alla prima metà del Novecento corredate da schede). E cfr. i saggi raccolti in European Theatre Iconography. Atti degli workshops dell’European Science Foundation Network (Mainz, 22-26 luglio 1998; Wassenaar, 21-25 luglio 1999; Poggio a Caiano, 20-23 luglio 2000), a cura di Ch. Balme, R. Erenstein, C. Molinari, Roma, Bulzoni, 2002.

[195] Penso alle osservazioni formulate da Georges Duby, in particolare alle riflessioni raccolte da Guy Lardreau, in G. D., Il sogno della storia (1980), Milano, Garzanti, 1986, specialmente pp. 40-42.

[196] Zorzi, Carpaccio cit., pp. 53-54.

[197] Cfr. ivi, pp. 78-96.

[198] Come già sottolineato da Sara Mamone (Storia dello spettacolo: il testimone preterintenzionale cit., p. XIII).

[199] Caretti, Congedo da Ludovico Zorzi cit., p. 198.


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multimedia G. De Bosio-L. Zorzi, "Il Ruzante. Storia di una scoperta", Milano, Audiolibri Mondadori, 1977



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