1. Il filo della memoria Questo intervento illustra uno specimen della lezione di metodo di uno studioso troppo presto scomparso, Ludovico Zorzi. Avverto che alloggi manca unadeguata, auspicabile monografia su di lui. Da qui largomento proposto per il seminario della nostra Scuola Dottorale in Storia dello Spettacolo: Ripensando Ludovico Zorzi. Non con la presunzione di dire cose nuove, ma per tentare di mettere meglio a fuoco, storicizzandoli, alcuni punti della sua biografia intellettuale e del suo magistero umano e scientifico.
Il tempo, indifferente, ritma la vita e la morte inducendoci a relativizzare la nostra effimera ‘rumorosa esistenza, ma non a dimenticare. Non vi nascondo che provo emozione. Eppure in tanti anni di insegnamento ho parlato spesso di Zorzi ai miei studenti. E ne ho parlato non solo doverosamente citando i contributi da lui offerti alla storia dello spettacolo, che a tuttoggi costituiscono una lettura basilare; ma anche sul filo della memoria, del rimpianto e di un debito morale e scientifico ingente; come, infine, del desiderio di trasmettere almeno in qualche misura, consapevole dei miei limiti, il ricordo e linsegnamento di un maestro cui ripenso con gratitudine. Una memoria che nella mia mente è integra, a dispetto del fluire del tempo. Perché – e mi sembra impossibile – è passato quasi un quarto di secolo dalla morte a Firenze di Alvise Zorzi a cinquantaquattro anni il 15 marzo 1983 nella sua ospitale casa di via Ghibellina colma di libri.
Quali i tratti salienti del suo magistero? Anzitutto, credo, la capacità di instaurare con gli allievi un rapporto non banale. Di non circoscriverlo, quellalunnato, nei recinti asfittici dellaccademia. Di conferirgli, invece, orizzonti ariosi, come in alcuni dipinti del Carpaccio da lui amati. Di vita e di speranza. Di rigore didattico e scientifico. Ludovico Zorzi era davvero un professore speciale. Un maestro vero che ha dato ai suoi allievi molto più di quanto abbia ricevuto. Anche se lui, sovente, asseriva il contrario. Diceva illustrando a un convegno del 1976 la raccolta degli scenari della Commedia dellArte da lui progettata e coordinata:
Parlo al plurale, perché, soprattutto in questa circostanza di rendiconto pubblico, la mia parte è quella di coordinatore (prima cè stata ovviamente quella del persuasore) di un vasto e a volte vastissimo lavoro condotto dagli allievi del mio seminario di Storia dello Spettacolo alla Facoltà di Lettere di Firenze. Dico allievi, ma anche qui dico una cosa impropria. A parte il dato burocratico che molti di loro, quasi tutti quelli presenti oggi a questo convegno, si sono nel frattempo laureati, rimane il fatto che nel duro tirocinio del lavoro nei seminari e del lavoro intorno alle tesi, io ho avuto limpressione di aver acquistato rapidamente dei giovani compagni di ricerca e di studio, spesso perfettamente in grado di cavarsela da soli, e dai quali anchio ho imparato e imparo molte cose. Del resto questo rimane il senso immodificabile dello studiare e del fare scuola, naturalmente a un livello, per natura e per necessità, molto specialistico; nel senso che, al di là delle meschinità e delle gelosie che immiseriscono il nostro mondo accademico, esso oltrepassa il momento specifico della formazione professionale in senso stretto e si rivolge con la più ampia volontà di apertura e di scambio alla collaborazione generosa e consapevole di un intero ambiente scientifico.
Sin qui Zorzi. Non si può che concordare e deprecare lattuale declino culturale della nostra opaca Università di massa (in particolare delle discipline umanistiche ritenute a torto ‘improduttive da tanta parte della nostra miope classe politica). E si apprezzi laccenno – significativo per capire la sua mentalità – alle meschinità dellaccademia. Singolare per un accademico, ma Ludovico Zorzi non amava né le furbizie, né la forma mentis mandarinesca dellarcipelago universitario. Non credeva nelle pseudo-gerarchie. Anche per questo può ben dirsi, riferisco parole affettuose di un altro maestro, Cesare Molinari, il ‘padre nobile della nostra disciplina.
Ma, soprattutto, si prenda atto della ‘cifra del rigore e dellimpegno: il ricordato «duro tirocinio del lavoro nei seminari e del lavoro intorno alle tesi». Perché, è bene sottolinearlo, la proverbiale generosità intellettuale e umana di Zorzi non va confusa con improduttivo lassismo. Detestava la mancanza di serietà, al pari della demagogia. Uomo buono e giusto, giustamente pretendeva impegno e rigore dai suoi scolari. Anche se poi abbinava a quella non negoziabile richiesta etica una paziente, mirata pedagogia: incoraggiamento, rassicurazione, gratificazione e, persino, intrattenimento-consolazione degli allievi. Era convinto, credo, che troppi pesi gravassero e avrebbero gravato sulle spalle di quelli che definiva i «suoi infelici scolari». Perciò esprimeva loro solidarietà e fiducia (si veda la Premessa a Il teatro e la città) inducendoli con il suo esempio allonestà intellettuale, alla generosità umana e scientifica, al senso di responsabilità, alla consapevolezza. Consapevolezza che in lui era interiormente intrisa di una melanconia carica, uso sue parole, «di angosce proiettive»: «quale sarà lultima sera del nostro carnevale gratificante e accidioso?». Si prenda allora un brano di una conferenza tenuta da Zorzi a Faenza nel 1981 intitolata Parere tendenzioso sulla fase. Una riflessione amara e lucida su passato e presente, sul senso profondo del fare storia. 1981, gli anni terminali della nostra prima Repubblica che volgeva al tramonto tra anni di piombo e cospirazioni della P2; come, uscendo dal nostro sfortunato paese, del ritorno a Teheran dellayatollah Khomeini e del decollo dei fanatismi religiosi che tante prevedibili catastrofi oggi stanno producendo. Cosa pensava Zorzi di tutto ciò? Come viveva quel periodo? Ascoltiamo la sua parola di storico e di docente che suona viva, attuale a distanza di un quarto di secolo:
Osservo soltanto che molti travagli e molti guai collettivi, soprattutto in questi ultimi anni di sviluppo e di crescita (di crescita, si sperava, anche del grado di consapevolezza e di responsabilità civile), molti dei guai che oggi stiamo scontando ci sarebbero stati risparmiati, se nei gruppi di guida delle parti sociali e negli organismi di formazione dellopinione pubblica – partiti, confederazioni industriali e sindacali, stampa quotidiana e altri simili – si fossero osservati degli atteggiamenti politici razionali e non ispirati, come è avvenuto e in gran parte avviene, a rozzi criteri di privilegio, di sopraffazione dei più deboli e, per converso, agli slogan fideistici della controparte, che per difetto di cultura ha praticato finora una sorta di nominalismo idealistico, illudendosi che il dire, il semplice evocare le speranze e le cose equivalesse a realizzarle. Ad atteggiamenti di questo tipo, su entrambi i versanti, i quali non fanno che riprodurre il clima rozzo, torbido e protervo in mezzo al quale si sono svolti e si svolgono i processi socio-culturali del nostro paese, possiamo opporre la consapevolezza della lunga e della lunghissima durata in mezzo a cui si sviluppano i mutamenti sostanziali, e della sostanziale invarianza con la quale la natura umana collabora alla disgregazione dellordine originario (unica immagine possibile questa dellidea divina), mentre essa stessa precipita verso linerzia finale che la attende. Questa, e non altra, è la nozione di cultura che, per quanto mi concerne, cerco di trasmettere ai miei infelici scolari. Cerco anche, alternativamente, di rallegrali e di-vertirli (nel senso etimologico della parola: di di-vertire, di far divergere la loro attenzione da questo) con la pratica degli oggetti istituzionali della nostra disciplina, che infatti possiedono indubbiamente un loro potere accattivante e benigno.
Un uomo. Un uomo che amava collegare lo studio del passato al presente facendo interagire la ricerca con le dinamiche della vita. Un docente capace di ricavare e trasmettere ai suoi scolari, dallo studio storico-filologico di quel passato indagato attraverso lo specchio rivelatore della storia dello spettacolo (così allora si chiamava a Firenze la nostra disciplina), di trasmettere agli allievi, dicevo, strumenti. Strumenti etici, anzitutto; strumenti di pronto impiego per affrontare il «mestiere di vivere». Dunque, dialettica vitale tra passato e presente, non fredda ‘archeologia: è questa la prima delle tante basilari ‘lezioni del fecondo magistero zorziano. Una «fusione di orizzonti» che sarebbe piaciuta al Gadamer di Wahrheit und Methode. E vengono alla mente le parole di Eugenio Montale a proposito di un altro maestro: quel Giorgio Pasquali filologo stravagante (che ritroveremo tra poco spettatore curioso della ruzantiana Moscheta) capace di «sentire la cultura come un drammatico fatto di vita, come un fiume perenne che può raggelarsi nella fissità delle “schede” ma non respira se non ritorna dalle schede alla vita».
2. Un accademico atipico
Ludovico Zorzi fu, sè detto, un accademico atipico. E lo fu non per un eccentrico snobistico desiderio di ‘differenza. Fu atipico perché il suo ventaglio di scelte morali come di esperienze di vita, di lavoro e di studio infranse lingessato curriculum-tipo di un docente universitario. Di accademico aveva ben poco, anche nella selettiva scelta dei propri interlocutori e negli sfoghi polemici palesati con rassicurante sincerità. Non amava né i giochi di potere, né il tornaconto. Perciò non era reticente.
Nato a Venezia da una aristocratica famiglia lagunare il 2 agosto 1928 (la medesima estate in cui si sciolse la compagnia del Teatro dArte di Pirandello, un anno prima dellavvio delle «Annales» di Bloch e Febvre), si trovò, non ancora ventenne, a fare i conti, come tanti altri della sua generazione, con il clima politico sociale e culturale dellItalia dopo la fine della seconda guerra mondiale. In quel contesto complesso, denso di tensioni irrisolte, si generarono le scelte di rigore morale che caratterizzarono la sua non lunga vita. In tale contesto egli maturò la decisione di aderire a un progetto laico di rinnovamento democratico del nostro paese schierandosi a sinistra con razionale convinzione, intelligenza brillantissima e onestà di intenti, poco teorizzando, per nulla approfittando e molto operando nel corso del tempo su più livelli.
Se non dimentichiamo quanto allepoca proprio larea veneta fosse sede privilegiata del conformismo cattolico non è difficile comprendere la scelta del giovane Zorzi cresciuto a Venezia negli anni del fascismo (e che da ragazzo, insieme al coetaneo amico carissimo Marino Berengo, aveva visto allopera nel suo liceo le milizie della Repubblica di Salò). Scelta che poi si sarebbe interiormente incrinata per le delusioni provocate dalla crisi delle ideologie del «secolo breve» (si ripensi al citato Parere sulla fase), pur non tradendo le istanze etiche e politiche originarie.
Nel 1949 Zorzi, ventunenne, studiava allUniversità di Padova. NellAteneo patavino studiò lettere sino al 54, quando decise di interrompere quellesperienza prima del conseguimento della laurea. Importante, in quel periodo di formazione, fu lincontro con leclettico docente-poeta Diego Valeri il quale, in quegli anni, dirigeva il Teatro dellUniversità. Iniziò così lattività teatrale di Zorzi o, se si preferisce, quella militanza teatrale, detector della sua vocazione di studioso ‘atipico, che, è ben noto, segna un primo importante momento della sua biografia intellettuale. Come si configurava agli occhi del giovane Alvise quella città in cui aveva deciso di studiare? Padova, raccontava Zorzi a Claudio Meldolesi in un colloquio del 1976, era allora
una città di preti, moralista, provinciale, economicamente parassitaria, paralizzata da un lontano conformismo; e anche il suo corpo universitario era ben disposto alla restaurazione, a parte Marchesi, Meneghetti e qualche altro professore antifascista, a parte le curiosità culturali di Valeri.
Una città soffocante, con unaltrettanto soffocante università. Anche per reagire a tutto ciò prese vita lesperienza zorziana presso il Teatro dellAteneo. Un teatro di base che, si sa, ebbe in Italia una non secondaria rilevanza. Si pensi alla ‘scoperta di Ruzante e di Brecht e alla scuola di mimo di Lecoq.
3. 1974-1976, consuntivi di palcoscenico
Tuttavia, come sempre nel fare storia, occorre non idealizzare, perché in quegli anni il vecchio e il nuovo spesso convissero, anche in teatro; e parte di ciò che sembrava nuovo non lo era, o lo era solo in parte, o stentava ad affermarsi. Il teatro allantica italiana stentava ad adeguarsi al nuovo, e il nuovo, cioè la regia, spesso improvvisava. Si prenda una lettera scritta nel 1974 da Strehler a De Monticelli rievocando gli anni ‘eroici del dopoguerra:
Noi ci trovammo, nel nostro paese, a rifare rapidamente la storia della regia, senza cadere o cadendo poco, negli errori del passato prossimo. Pure li facemmo questi errori, talvolta o spesso […]. Dovemmo improvvisarci. Improvvisarci esperienze, età, e peso, e metodi e personalità che non avevamo ancora e che altri, gli “altri” non ci riconoscevano. Ho passato, abbiamo passato la nostra giovinezza a sentirci scrivere e dire che la regia era una cosa inutile, che eravamo dei giovanetti ai quali non si doveva né poteva ubbidire. Diventammo spesso rigidi e dogmatici (Costa insegna) per “imporci”. Sostenemmo un ruolo che non volevamo […]. Venti prove, erano un miracolo! Una lettura di un testo, una novità sconvolgente e noiosa […]. E noi giù accanitamente, Orazio per primo, a lavorare male, come si poteva, talvolta carognescamente, imponendo, Orazio con la sua implacabile erre e lo sguardo allucinato, severo, fanatico. Io, gridando, bestemmiando, sbracciandomi con un calore umano bianco, con lesempio, il dolore, lurlo, il contatto, il “conte” [Visconti] con il distacco accanito del grande dilettante o signore medievale o rinascimentale, regalando anche cani e dischi agli attori maltrattati […]. E il teatro stabile? La Lilla [Brignone], sempre, mi diceva: «Basta co sta topaia! Basta stare sempre con lo stesso pubblico, ci scocciamo noi e loro!». Erano talmente “malati” che amavano viaggiare con i bauli, vivere negli alberghi, non avere una casa, una vera famiglia e tante altre cose.
Si legga poi il consuntivo stilato da Zorzi a trentanni da quel dopoguerra da lui vissuto, sè accennato, in Veneto e in specie a Padova:
Il 18 aprile 1948 io avevo 19 anni, non votai (allora la maggiore età era di 21); ma ricordo perfettamente il clima, la «cultura» che espresse la maggioranza assoluta alla DC di De Gasperi e soci, le nostre deficienze e i nostri errori, il «provincialismo» mortificante della sinistra di allora, la nostra preparazione ridicola, assai più idealista-fascista che marxista in senso proprio. Cerchiamo di non rimirarci con gli occhi del poi, e soprattutto di questi ultimi anni. Scoprire la linea Ruzante-Brecht, come indubbiamente facemmo, fu una specie di miracolo; ma Brecht lo scoprimmo per il tramite di Eric Bentley, mentre a Ruzante arrivammo da soli (era il «classico» locale da recuperare; così almeno in un primo momento ci parve). Sicché tanto della politica successiva dei teatri stabili (ovvero del teatro di regia) fin verso il 1962-65 si spiega con la cultura dei GUF (che io, per età, non feci in tempo a conoscere) e con le buone intenzioni posteriori.
Così, nellestate veneziana del 1976, uno Zorzi ormai deluso dalla prassi come dalla fruizione della scena (e così lo abbiamo conosciuto anche noi, suoi studenti dal 79 (fig.1), quando paradossalmente asseriva che ormai, salvo eccezioni tipo La classe morta e Wielopole-Wielopole di Kantor, che lo avevano entusiasmato, landare a teatro era per lui evento soporifero, e auspicava di frequente un libro sulla noia a teatro e minacciava parimenti ai suoi numerosissimi scolari, quando troppo irrequieti e rumorosi, la «‘rappresaglia» di un corso sullAlfieri), così, dicevo, egli scriveva a Meldolesi riflettendo su quellambiguo periodo di transizione. Ripensava, storicizzandoli, gli inizi della sua attività di studio e di palcoscenico. Che poi la riflessione di Zorzi fosse sin troppo severamente autocritica è probabile. Resta, tuttavia, la lezione feconda a non accontentarsi; a non guardare al passato con compiacimento o idealizzazioni. In specie a quello in cui si è direttamente implicati. Zorzi non praticava lautocelebrazione. La studiava, è noto, in modo magistrale. Si guardino gli studi sulla scena medicea da lui compiuti negli anni Settanta (Firenze: il teatro e la città) culminanti, in sintesi, nella fortunata formula storiografica dell«autocontemplazione indotta», cifra della Scena del principe. Ci torneremo.
4. Il Teatro dellUniversità di Padova, la riscoperta di Ruzante
Torniamo intanto al giovane Alvise a Padova. Si è accennato che la sua esperienza teatrale maturò nellambito del Teatro dellUniversità fondato grazie allaiuto di un Rettore illuminato, Egidio Meneghetti. Il «teatro di De Bosio, a Padova, agì nel 1948-49 come Scuola darte drammatica del Teatro delluniversità; dal 1949-50 al 1951-52, come Compagnia stabile del Teatro delluniversità; e nel 1952-53, come Teatro stabile della città. Quindi si sciolse».
Nel 1947, conseguita la laurea, De Bosio (classe 1924) si era recato a Parigi. Quellesperienza conferì respiro europeo alla sua cultura teatrale. Frequentò lÉcole dÉducation par le Jeu Dramatique in cui insegnavano Barrault, Marceau e il citato Lecoq. Da qui il suo interesse per il mimo e il suo invito a Padova di Lecoq (classe 1921). Fu dopo il rientro da Parigi (1948) che De Bosio, tramite Valeri, conobbe Zorzi. Iniziò allora unamicizia fondata sullindagine della drammaturgia del Ruzante. Importante fu anche la collaborazione tra De Bosio e Marceau; nonché lincontro con uno dei fondatori del Berliner Ensemble. Dico Eric Bentley (classe 1916), studioso, critico e regista doltre oceano, assistente di Brecht. Fu costui, ce lo ricordava poco fa Zorzi, a favorire la ‘scoperta di Brecht da parte dei giovani del teatro universitario. Fu lincontro con «questo personaggio più brechtiano del maestro» (così Zorzi) ad accendere la scintilla degli allestimenti italiani del teatro di Brecht prima dessere consacrato nel nostro paese dalle regie di Strehler. E va ricordata, infine, la nota collaborazione tra il Teatro dellUniversità di Padova e lo scultore Amleto Sartori che ebbe il merito di riproporre con originalità luso della maschera in scena. Una fitta trama di relazioni culturali, di esperienze di palcoscenico.
Il 30 novembre e il 9-10 dicembre 1950, rispettivamente al Teatro Sociale di Rovigo e poi in replica al Teatro Verdi di Padova, andava in scena la Moscheta di Ruzante proposta integralmente in dialetto originale, testo a cura di Emilio Lovarini, rivisto da Zorzi, scene e costumi di Mischa Scandella, regia di De Bosio, attori Cesco Ferro (Ruzante), Mario Bardella (Menato), Giuliana Pinori (Betìa), Giulio Bosetti (Tonin). Lallestimento del 50 segnò linizio ufficiale di una duratura collaborazione teatrale e culturale che avrebbe riportato la drammaturgia del Beolco sulle scene italiane liberandola da non pochi pregiudizi e fraintendimenti sia critici che di messinscena. Penso, appunto, al citato sodalizio tra il ventiduenne attivissimo Zorzi e il ventiseienne De Bosio che poi, anche dopo la chiusura del Teatro dellUniversità, avrebbe dislocato in palcoscenico altri esperimenti ruzantiani. Registro qui alcuni esiti salienti: drammaturgia a cura di Zorzi, regia di De Bosio e, dal 65, scene e costumi di Emanuele Luzzati: 1) 1960: ripresa della Moscheta, ovvero la commedia del parlar fino, con Franco Parenti (Ruzante); 2) 1965: LAnconitana e Bilora, con Paolo Graziosi (Ruzante) e Carlo Bagno (Bilora); 3) ancora 1965: Dialoghi del Ruzante. Spettacolo che debuttò al fiorentino Teatro della Pergola inaugurando la prima Rassegna Internazionale dei Teatri Stabili dedicata al tema Luomo e la guerra. Da qui la scelta di mettere in scena la storia del soldato Ruzante e dellaspirante soldato Bilora (entrambi interpretati da Glauco Mauri); 4) 1969: la Betìa allestita al Piccolo Teatro di Milano. Un successo. Ricorda De Bosio:
La scelta e la riduzione del testo fu compiuta prima di tutto da Zorzi, e con molta abilità: bisognava ridurre al tempo di uno spettacolo contemporaneo un materiale […] nato per altre convenzioni dintrattenimento. Eliminato il lungo primo atto, che costituisce quasi un prologo indipendente sul tema dellamore, iniziammo le prove. Decidemmo di unificare platea e scena del Piccolo Teatro, rivestendo dello stesso rosso della sala le pareti del palco, e vi inserimmo un dispositivo di praticabili scuri e tende bianche che si ispirassero al disegno originale della scena contenuto nel manoscritto cinquecentesco della commedia (fig. 2).
Infine, agli inizi degli anni Ottanta, 5) la Recita fantastica del famosissimo Angelo Beolco detto il Ruzante alla corte dei Cardinali Marco e Francesco Cornaro. Due tempi di Angelo Beolco a cura di Gianfranco De Bosio e Ludovico Zorzi, prodotti dal Gruppo della Rocca (1981), con in scena un efficace Marcello Bartoli (fig. 3) nei panni di Ruzante e costumi bellissimi di Santuzza Calì. Fu questo lultimo frutto della trentennale collaborazione tra lo studioso-dramaturg e il regista. Unantologia scenica della drammaturgia ruzantiana, certo; ma unitaria nellindagare lidentità artistica del Beolco autore-attore e ‘regista. Uno spettacolo azzeccato di cui va ricordato anche limpegno profuso dagli attori, in prevalenza toscani, nello studio del linguaggio pavano.
5. Moscheta (1950)
Riconsideriamo ora gli inizi di quellavventura teatrale. Perché Ruzante? Che significato poteva assumere in un teatro veneto del 1950 unostica messa in scena in dialetto pavano che proponeva agli spettatori limpatto tra mondo contadino e città dipanando una drammaturgia della sessualità in cui, è noto, una contadina, Betìa, per vendicarsi della stupida gelosia del marito (Ruzante), fa prima allamore con il soldataccio bergamasco Tonin e poi viene posseduta dallastuto compare il contadino Menato? E allora, dicevo: perché Ruzante?
Abbozzo, con Meldolesi, una risposta. Nella Padova conformista e reazionaria di quegli anni De Bosio e Zorzi, con la riscoperta del Ruzante attore-autore a lungo frainteso e ‘difficile (si pensi alle allusioni sessuali e allaspro dialetto dei testi originali), dettero vita a una provocazione ‘politica capace di coniugare cultura, filologia e teatro. Chiosava Zorzi:
Landata in scena della Moschetta al Teatro Comunale di Padova […] (non si disponeva ancora della piccola sala che in seguito attrezzammo a teatro e intitolammo al Ruzante) fece esplodere un «caso». Il testo, rigidamente conforme alloriginale, non concedeva nulla allaccessibilità leggera e al divertimento. Linterpretazione era volutamente tendenziosa: De Bosio aveva letto la commedia in chiave «populistica», nel senso puntuale del termine, e ne proponeva una regia impegnata, fondata sulla scoperta dellantico mondo contadino italiano come mondo oppresso dalle classi dirigenti, storicamente succube e socialmente sfruttato. Prendemmo, alla lettera, le parti del personaggio contadino, indicandone didatticamente linnocenza storica, individuando la sostanziale non-responsabilità di un mondo emarginato, rescisso dai valori culturali e sociali del tempo.
Operazione tendenziosa, al pari del citato tendenzioso parere sulla fase. Ruzante, letto allora in chiave gramsciana (nel 47 Einaudi aveva pubblicato le Lettere dal carcere) e brechtiana (attraverso il filtro decisivo di Bentley), fu «luomo simbolo» del percorso drammaturgico di De Bosio-Zorzi. Essi capirono che alla messa in valore di un grande autore-attore cinquecentesco come Ruzante «faceva velo – così Zorzi – il pregiudizio, accreditato dalla fittizia “ufficialità” linguistica del periodo fascista, che il dialetto, o comunque linfrazione della italianità letteraria, rappresentasse una categoria in qualche misura inferiore dellespressione artistica e della comunicazione sociale»; onde, anzitutto, la «ricerca dei gesti e dei suoni». Il dialetto e i gesti come chiave di lettura scenica. Sicché, stando a De Bosio, il
linguaggio istintuale, scabro, arduo, invalicabile, colpiva allo stomaco il pubblico, che accusava la durezza delle parole […]. Ebbene, allora facemmo uno spettacolo che offese proprio per il suo impegno di recitare il linguaggio di Ruzante comera. Perché offese? Perché ad un certo pubblico che aveva censurato il Ruzante arrivavano violentemente le asprezze verbali e quindi questo pubblico sindignava perché capiva solo culo, merda, puttana, ecc. (forse la comprensione di quel pubblico non arrivava oltre a queste parole); vicino cera un pubblico più moderato che faticava a capire e diceva che questo Ruzante non valeva la pena di riportarlo alla luce, perché era troppo difficile capirlo. Così si alternarono le sale piene di spettatori perplessi alle sale semivuote con pochi spettatori partecipi. Ricordo una recita a Firenze al Teatro dellUniversità di Via Laura nel 1951, a cui presenziarono 8 o 9 persone. Cerano però Lisi, Cicognani, Pasquali, Caretti, Luzi […] e il seme fu buttato.
Quel linguaggio Zorzi e De Bosio lo avevano studiato specialmente ‘dal vivo. Sia soggiornando con gli attori nei colli euganei, sia recandosi al mattino presto ai mercati generali di Padova a caccia di ‘fossili dellantico mondo pavano. Una ricerca ‘sul campo. Compiuta dando debita attenzione a un ambiente che, secondo lo studioso, era allora «generoso, estrovertito, ricco di una sua cultura genuina e di personalità originali e definite». Ascoltiamo infine, concludendo su questo punto, linizio di una ormai rara testimonianza audio che registra le voci di De Bosio e di Zorzi mentre nel 1977 raccontano la loro giovanile ‘scoperta di Ruzante che tante proficue ricadute aveva avuto sullo studioso maturo [vedi multimedia G. De Bosio-L. Zorzi, Il Ruzante. Storia di una scoperta].
[II parte]
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