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Lucia Leggio

«Coazione allo spettacolo». L'Opera dei Pupi di Mimmo Cuticchio

Data di pubblicazione su web 14/06/2007
Mimmo Cuticchio - Pupi Saraceni

Ho conosciuto Mimmo Cuticchio nel mese di marzo del 2004, a Pianoro, in provincia di Bologna. Presentava lo spettacolo Alla ricerca della città di Troia, una delle varie sperimentazioni narrative del teatrante palermitano che al pari di un equilibrista tiene ben teso il filo della continuità provando ad andare avanti. Le due tradizioni di riferimento, Opera dei pupi e Cunto, assumono, nella personale pratica scenica e orale di Cuticchio, un volto e un significato contemporanei. Dalle origini ad ora profondi mutamenti socio-culturali hanno condizionato l’esistenza del teatro dei pupi e di quello orale del Cunto. Un pubblico non più familiare e stanziale, amministrazioni politiche manchevoli e inadeguate, nuove forme di intrattenimento di massa hanno fatto sì che mestieri antichi smettessero la loro attività. Il rarefarsi di un contesto compatto e strutturato ha determinato inoltre il dissolversi del rigoroso sistema di trasmissione della sapienza teatrale. Ciò che Cuticchio ha ereditato non è soltanto un mestiere ma anche un disorientamento sociale e l’ambiguità del presente. 

La pratica teatrale di Cuticchio non si limita alla riproposizione, più o meno rinnovata, del repertorio tradizionale, ma si amplia nella creazione di nuovi allestimenti, nell’invenzione di occasioni rappresentative di respiro diverso da quello da cui proviene. La necessità di rappresentare e giocare ancora con le sue arti, più che un’azione di sopravvivenza, è una vitalità espressiva, è un bisogno di metamorfosi intenso e profondo. Cuticchio si perpetua nel cambiamento, nella ricerca infaticabile di codici performativi e logiche rappresentative di ciò che è sostanzialmente immutabile: la sua identità e la sua memoria.

La  sua teatrografia è vasta ed eclettica ma è possibile evidenziare un percorso discorsivo e di ricerca puntando l’attenzione su alcuni suoi spettacoli, che hanno dato corpo a questa volontà di metamorfosi: La spada di Celano (1983) [1], Visita Guidata all’Opera dei pupi (1989), Francesco e il Sultano (1992), L’urlo del mostro. Viaggio nei poemi omerici per puparo-cuntista, pupi e manianti (1993), Storia di Manon Lescaut e del Cavaliere Des Grieux (1999) [2], Don Giovanni all’Opera dei pupi (2002) [3] e Alla ricerca della città di Troia del 2004.

La spada di Celano nasce come omaggio al maestro Peppino Celano, morto nel 1973, presso cui Cuticchio ha svolto il suo apprendistato per tre anni (1970-1973), nelle forme e nei tempi previsti dalla tradizione orale ottocentesca. La formula scenica e drammaturgica che Cuticchio sceglie per rappresentare questa fase fondamentale della sua carriera artistica, è l’uso teatrale del cunto e di un aspetto della sua autobiografia, e più che come spettacolo esso si configura come una sorta di conferenza scenica e poetica di una storia. Egli entra in scena con una spada, emblema dell’arte del cunto, ed in particolare, della nascita di Cuticchio come cuntista. Il cunto è messo in gioco, è guardato e parlato dall’esterno, è un cunto del cunto, è razionalizzato in regole e codici, che un tempo non venivano presentati ma vissuti contestualmente e, cosa più interessante, non regalati dal maestro ma rubati dall’allievo. La storia dell’apprendistato di Cuticchio, così rappresentata, va oltre il testo autobiografico e diviene un pretesto per ricontestualizzare l’arte del cunto in un nuovo ambiente, quello teatrale. Qui il teatro è inteso come il luogo della riflessione e del distanziamento, come lo spazio entro cui può muoversi materia umana e poetica in assoluta libertà creativa. Categorizzando le regole del cunto, egli trasforma le possibilità di trasmissione di un sapere, perché in questo modo provoca, o quanto meno, consolida «il passaggio dalla cultura performativa popolare», rigorosamente contestualizzata, «alla cultura teatrale», intesa come patrimonio sfruttabile da qualunque teatrante. L’arte del cunto diviene patrimonio teatrale perché è Cuticchio stesso ad essere entrato nel linguaggio universale del teatro, con la sua prassi sperimentale e metamorfica. L’iniziativa di utilizzare in modo diverso i propri strumenti poetici, in una cornice fertile e rischiosa, come quella teatrale, è originale anche in un altro senso: porta a compimento un processo innovativo già presente nella storia del cunto, in quanto, consciamente o no, è attratto da un teatrante che nello scenario tradizionale ha costituito una novità, per la sua eccletticità, completezza e capacità di sperimentare.

Peppino Celano, appartenente all’ultima generazione dell’ottocento, è un ibrido: a differenza degli altri pupari-cuntisti era capace di costruire i pupi in tutte le loro parti, e il processo di acquisizione del repertorio narrativo e del mestiere, in genere, non avvenne in modo canonico, non era un figlio d’arte né un semplice apprendista. Tutto quello che Don Peppino ha ereditato è stato il frutto di un’azione individuale, di un’opera personale di ricognizione narrativa. Con lui si interrompe la linea di continuità delle performance dei cuntisti precedenti, perché per la prima volta avviene un «ripensamento delle strutture compositive del cunto» alla luce della drammaturgia dell’Opra, e soprattutto mette in connessione oralità e scrittura: riscrive gli antichi canovacci, rendendoli più funzionali alla sua particolare performance orale, ne scrive di nuovi, andando quindi oltre il tradizionale repertorio dei paladini, rinnova un sapere sistematizzandolo [4].

Dopo la morte di Celano, Cuticchio è impegnato nella promozione e crescita del suo nuovo teatrino. In questo momento egli sta vivendo un’altra morte, quella dell’Opera dei pupi: suo padre fa spettacoli per i turisti, molti altri pupari hanno abbandonato il mestiere, le istituzioni non pensano ancora ad una politica di recupero di questo patrimonio. Dall’apertura del teatrino (1973), fino ai primi anni ottanta, Cuticchio si dedica alla ri-scrittura degli antichi canovacci, competenza di litterazione ereditata da Celano, e tenta di scriverne altri con altri argomenti e storie: sta maturando un sentiero e una rinascita dalle macerie [5]. Questo è anche il periodo in cui consolida l’amicizia con Salvo Licata, giornalista, drammaturgo e critico teatrale palermitano, la cui sapienza scritturale si innesta con la sapienza e l’intuito scenico di Cuticchio, insieme inventano un vero e proprio metodo di mediazione teatrale tra drammaturgia orale e drammaturgia per parole: «Il metodo che è nato nella pratica del nostro lavoro prevedeva che io improvvisassi sulla scrittura di Salvo, il quale a sua volta rimodellava la scrittura sulla mia interpretazione». L’autorialità del teatrante si fa sempre più corposa e significativa, è ormai padrone del proprio patrimonio ed è pronto per ampliarlo e rinnovarlo in qualcosa di diverso ma sente il bisogno di avvertire tutti che qualcosa è stato sacrificato e frainteso: la sua tradizione.

Nasce Visita Guidata all’opera dei pupi, (in collaborazione con Salvo Licata), come denuncia e monito, riflessione ed esplosione creativa. «Non si tratta di rispettare ciò che è morto nel senso della conservazione ma piuttosto di accettare la trasformazione. (…) Di rifiutare un presente senza futuro e trovare nei depositi del passato il progetto che trasformi il delirio quotidiano in teatro» [6]. Questo spettacolo, che nasce dal ricordo di una città martoriata dalla guerra (siamo nel 1945) e degli ultimi atti dell’opra, mette in scena il disperato e disorientato tentativo di un puparo di conservare una memoria, di recuperare i pezzi ormai distrutti e spersi di un’identità: il suo mestiere, i suoi pupi. La visionarietà del puparo, solo in mezzo alle sue macerie, unico oggetto rimasto un vecchio pianino, rievoca voci, volti, personaggi: i fantasmi di un’esistenza. Nello stesso momento in cui Cuticchio attesta che l’arte dei pupi è morta, perché la verità dei suoi personaggi non incontra più nessuno, pone le basi per uno sguardo diverso: «Se i pupi hanno perduto il pubblico è anche vero che non tutti i pupari sono morti. Se rimane una sapienza scenica che farne? Questo è il punto di partenza di Visita Guidata, il punto d’arrivo un delirio» [7]. I pupi appaiono come spiriti senza anima, hanno perso la corporeità che avevano nell’antico teatrino, giungono dal buio per frammenti e senza storie da raccontare a qualcuno, se non al puparo che attende di ripristinare un dialogo. Tutta la forza evocativa e narrativa di questo teatro non è però persa perché si incarna e prende di nuovo vigore nel corpo del puparo, ancora detentore di una sapienza.

Tramite l’arte del puparo pupi e voci possono ancora essere teatro, sotto altra forma e funzione. La questione è ancora la capacità di guardare e progettare oltre la cornice del contesto tradizionale e inventare a partire da ciò che è rimasto, reagire ad una disappartenenza. Se un tempo i pupi erano l’alter ego dell’identità del pubblico, adesso diventano il doppio del maestro, del puparo, del narratore, perché i pupi non sono solo le storie che raccontano. Il puparo approda in una terra dove l’impossibile, l’ignoto, l’estraneità si ergono a parola e possibilità di significazione di una esistenza: è il presente del teatro. Qui risiede il nuovo progetto discorsivo di Cuticchio. «Sulle spalle di Mimmo, lo spettacolo smonta il meccanismo classico, cercando di esaltare le potenzialità del teatro dei pupi nel più ampio spazio di un palcoscenico. Gli elementi costitutivi di una tale flagrante tema compongono adesso una rituale d’avvicinamento tra altre macerie» [8]. Il delirio del puparo, di Visita Guidata, per il disfacimento del suo patrimonio, corrisponde al delirio e al disorientamento di un intero linguaggio di espressione che non trova più un referente e un contesto, perché ha perso di vista la propria identità. Il teatro, oggi, subisce i meccanismi di una spettacolarizzazione e di un appiattimento culturale che sottrae verità e corporeità all’espressività in genere. Anche in questo senso la progettualità di Cuticchio non si risolve nella sicurezza della sorpresa per il nuovo, ma si confronta con la complessità e l’ambiguità del contemporaneo.

Nel 1992 nasce lo spettacolo Francesco e il sultano, in cui vengono utilizzati i pupi di farsa, oltre che pupi nuovi (circa quaranta) costruiti per questa rappresentazione, nata in occasione di un convegno sulla figura del santo. La genesi e il processo di elaborazione di questo spettacolo è magmatico, vivace, e conflittuale, come molti altri lavori di Cuticchio, qui la ricerca raggiunge l’acme della teatralità. È estremamente interessante l’uso che fa dei pupi di farsa, i più antichi personaggi del teatro popolare palermitano. Ognuno di loro incarnava non soltanto un sentimento o un carattere sociale ma la verità della vita di tutti i giorni. Erano gli ufficiali portavoce di una fetta di società che non possedeva canali di espressione e di critica, gli umori e le lamentele dei pupi erano le parole e il sentire di una società: il doppio di una umanità. Nello spettacolo, e non soltanto in questo, diventano testimoni della tradizione, sono quello che una volta era il contesto di riferimento, in modo altamente poetico si regalano come memoria di qualcosa che non c’è più: uno sguardo e un essere del passato. Non a caso nella drammaturgia di Cuticchio essi spesso assumono il ruolo del popolino che assiste a cunti e scene e che soli possono capire, e comunicare di riflesso al pubblico reale, la forza e l’emozione di quel teatro. Il fantasma del pubblico perduto è diventato un personaggio teatrale: pupi dalle fattezze caratteristiche, deformi, ingenui, cinici e comici si assumono la responsabilità di uno sguardo e di un’attenzione che non si può più rinnovare. Il pre-testo della storia di San Francesco, che qui ha inizio con il prologo dei pupi di farsa Nofrio e Virticchio giunti a Palermo per raccontare la storia, è anche il sotto-testo di una riflessione più ampia: «(…) “Francesco” si dimostra in realtà il centro ispiratore di un mondo teatrale che fa della sua diversità il suo centro di attrazione e di fascino» [9].

Nel 1993 giunge a LUrlo del mostro. Viaggio nei poemi omerici per puparo e cuntista, che rappresenta un ritorno di sguardo sul personale viaggio di rottura e creazione, dalle macerie di Visita Guidata alle macerie di un’appartenenza. In questa operazione Cuticchio inventa, letteralmente, un nuovo linguaggio: per la prima volta sulla scena si incontrano pupi e cunto, manianti e puparo, poemi omerici e opra. Se fino a questo momento le due tecniche espressive dell’opera dei pupi e del cunto convivevano nel personale patrimonio, adesso si confrontano in teatro, e qui è il pupo in paggio-Omero a narrare con i ritmi del cunto, incarnando, allo stesso tempo, il ruolo del puparo-regista. Cuticchio ha spesso sottolineato la funzione del cuntista come puparo senza pupi, un «guerriero a mani nude» che spoglio di qualsiasi strumento e orpello deve, narrando, far immaginare e far credere. Ciò che è affascinante nell’ Urlo del Mostro è la funzione svolta dal pupo, come narratore e maestro esso ha trovato una nuova collocazione nel piccolo bocca-scena del teatrino, da cui risuona la sua nuova realtà. Le radici a cui Cuticchio è legato non vengono, quindi, sostituite ma rivalorizzate e impiegate per altri significati, pupi e cuntista assumono una presenza scenica differente: «Il personaggio “morto” (…) ritrova il proprio doppio» [10].

Un ulteriore sconfinamento è la presenza di due manianti, i due aiutanti a cui spetta il compito di interpretare Telemaco e che, in alcuni momenti, recitano litanie e canzoni infantili che sono i ricordi dei due autori (Cuticchio e Licata). Rivelandosi al pubblico, mostrandosi vicino al puparo, un tempo unico detentore delle voci di tutti i personaggi, essi spezzano un incantesimo, l’antico mistero del dietro le quinte del teatrino, ma contribuiscono a crearne un altro: il mistero della trasformazione. Quando il personaggio-Ulisse parte per le sue avventure, i due manianti trasformano il teatrino, davanti a tutti, in barca, quella su cui tutto un repertorio e una storia intraprenderà un nuovo viaggio. È anche la prima volta che la tradizione dell’opera dei pupi tratta i temi omerici, e che incontra il narratore e il poeta per eccellenza, Omero. Visita Guidata si concludeva con la pazzia di Orlando, il guerriero e il folle che rappresenta il dolore, la solitudine e la lotta intellettuale del puparo; qui, attraverso la poesia di Omero, come «contrappeso alla follia dell’intelletto» [11], è Ulisse, il viaggiatore e lo sperimentatore, a farsi portavoce delle intuizioni e delle inquietudini del teatrante: mostri, fantasmi, avventure sono lo scenario entro cui si muove Cuticchio. Dalle macerie di una tradizione all’odissea di una nuova esistenza. «Il teatro è il paese in cui i contrari convivono, ci dice l’urlo muto di Helene Weigel; che nella fragilità del teatro sta la sua forza, ci dice lo schianto dei Giganti; che il vero teatro sta nella mente, ci dice l’inizio di Wielopole. Mimmo Cuticchio attore gigante- un colpo- tra i suoi pupi a misura d’uomo, ci dice che la vita del teatro è “lotta di tradizioni”» [12].

Le trasmigrazioni di Cuticchio continuano, fino ad imbattersi nel mondo dell’opera lirica; dalla fascinazione della parola alla fascinazione della musica, due linguaggi aperti e ineffabili che comunicano sul palcoscenico, ancora una volta luogo del possibile. Nel 1999 mette in scena Storia di Manon Lescaut e del cavaliere Des Grieux, con le musiche di Giacomo Puccini. Nell’allestimento di Manon Cuticchio affronta diverse difficoltà, così come per altri allestimenti per la grande scena, perché non possiede un proprio spazio dove provare, ideare rappresentazioni più complesse, che il teatrino-laboratorio non può contenere. Tutto quello che assume forma sul palcoscenico è prima ideato, monitorato e cucito nella sua mente, e solo occasionalmente ha a disposizione un altro luogo dove poter verificare o meno la funzionalità delle sue intuizioni sceniche. La drammaturgia dello spettacolo prevede la promiscuità tra pupi e cantanti lirici veri, oltre al gioco di sdoppiamento e scambio di ruoli fra Cuticchio e i suoi personaggi-pupi [13]. In uno spostamento concettuale, la corporeità dei personaggi non è affidata alle persone dei cantanti ma alla drammaticità dei personaggi-pupi, infatti i cantanti rappresentano non il doppio dei pupi ma la loro anima, i loro sentimenti e travagli. L’espressività terrena è dei pupi, attorno a cui si agitano spiriti, voci, proiezioni di immagini, oggetti scenici che si trasformano continuamente. In Manon pupi e marionette non sono apparizioni ma attori immedesimati ed estatici, portatori di storie senza tempo, e per questo vicine ad una sensibilità contemporanea.

Nel 2002 Cuticchio rappresenta Don Giovanni all’Opera dei pupi, altro significativo esempio di sconfinamento e di contaminazione di tecniche. Per l’analisi di questo spettacolo vorrei riportare una sezione del dialogo con Cuticchio a Palermo (agosto 2004), in cui si può comprendere, in parte, la sua modalità di ideazione e creazione di uno spettacolo, e cogliere alcune caratteristiche della visionarietà e polivalenza della drammaturgia scenica e personale di Cuticchio.

«Per adesso sto sperimentando, sono in fase di pensiero, siccome io non scrivo a tavolino, ma prendo appunti, soprattutto leggo e viaggio. Sperimentare in tanti modi uno spettacolo credo che sia un po’ come, per esempio, il teatro elisabettiano. Shekespeare girava con la compagnia, lui scriveva, dava battute, dava copioni, poi cambiava, tagliava, accorciava, allungava. Infatti arrivano a noi i copioni scritti per la scena, non come quelli di Pirandello, che li pubblicava. Io lavoro, penso, più in quel modo, lavoro sulle idee sceniche, sui testi che poeticamente e umanamente mi toccano. Parto dal testo e arrivo al mio teatro di gioco. Metto il gioco e la gioia insieme alle cose drammatiche della vita. Perché il ballo con i pupi che hai visto tu (nello spettacolo) non è che il Mimmo Cuticchio bambino che vive tra i pupi da quando si ricorda. I pupi erano i miei giocattoli, erano i miei compagni di gioco, assieme ai miei fratelli con cui ci vedevamo sul palco per giocarci. Per cui anche se io sono adesso un uomo, un adulto, mi libero in un’opera che è un’opera giocosa, è un dramma giocoso. Il problema iniziale di questo spettacolo è che avevo visto il Don Giovanni delle marionette di Salisburgo, che mi era piaciuto molto, a livello di messa in scena, ma non mi interessava farlo in quel modo. Lo spettacolo era anche ironico, c’era un maestro che rappresentava Mozart, e che giocava un po’ sulla scena. Poi tutto il resto era serio, la musica, le marionette rappresentavano il testo ecc. Quando ho dovuto affrontarlo io, l’ho montato una settimana prima dello spettacolo, perché prima è stato un continuo studiare e più leggevo più scoprivo altri Don Giovanni, e più pensavo che non mi interessava. Ero qui dentro con tutti i miei pupi appesi, e quando ero solo e avevo delle idee mi segnavo delle cose, siccome c’era una data e una scadenza non mi potevo nascondere, non potevo fare come con altri spettacoli miei che dicevo, va bé non sono pronto, non ho il tempo lo faccio un’altra volta. Questa volta avevo preso un impegno, un contratto. Lo dovevo fare, tanto che dissi ai miei familiari di non preoccuparsi perché se alla fine non mi veniva l’idea giusta avrei fatto il cunto. Rimarranno delusi perché non ho fatto una messa in scena con i pupi, però almeno salvo la faccia con il cunto, perché con il cunto me la sento di raccontarla da solo la storia. Invece poi quando a volte ero solo o con mio figlio Giacomo, mi giravo, guardavo i pupi e facevo loro delle battute “e tu chi talii?”, “tu chi talii?!”, “no iu ti rissi a tia tu chi talii?”, ”io staiu sintennu a tia chi si in confusioni pi muntari u Don Giovanni”, “ah si, e tu comu u muntassi u Don Giovanni?”, “ma se è un’opera giocosa e drammatica, uno avissi a chianciri, avissi a rirri”, ”e va bè non è che facile fari chianciri e fari rirri” [14]. C‘era questo gioco con i miei pupi che poi era con me stesso, erano le domande che io mi volevo fare e me le facevo a voce alta parlando con i pupi, e soprattutto quei pupi di quando io ero bambino e che mio padre utilizzava per le farse. I personaggi della farsa sono legati alla mia infanzia, al dialetto siciliano, alle battute, all’animo popolare. Facevo parlare loro che non erano altro che il mio io, perché sì io potevo parlare con mio figlio della musica, dello spartito, delle belle voci, dei cantanti, perché mio figlio studia pure musica ecc., però la verità è che dentro di me avrei voluto dire le cose che dicevano i pupi di farsa. A questo punto ho capito che quella era la via da prendere, qui a salvare la faccia dovevano essere loro».

Nello spettacolo ho visto un gioco a più livelli, per esempio tu che sei di spalle e dai vita a dei pupi che…

«Posso risponderti subito. Prima sono dietro le quinte e faccio il canto Vitti na crozza [15], fatto con l’antica voce dei carrettieri (una musicalità della voce siciliana), per attirare il pubblico, e anche perché Vitti na crozza ha un legame con la storia di Don Giovanni che comincia proprio da una piccola favola su un teschio. Per me tutti i conti tornano, non ci sono dubbi. Poi nomino ‘Peppennino [16] che rappresenta anche me stesso, bambino, è infantile come tutti i ragazzi che venivano al teatro di mio padre e chiedevano continuamente cose, che partecipavano. C’erano anche gli adulti che facevano come  ‘Peppennino, non erano solo i bambini, che chiedevano “ma stasira cè Rinardu?”, “no, nun cè”, “allura nun viegnu, rumani assira viegnu, picchì a mia mi piaci Rinardu” [17]. Succedeva di tutto quando ero bambino io. Allora ‘Peppennino chiama Mastro Ramunnu [18], perché lui ama il cunto e questo significa anche che Mimmo Cuticchio oggi fa il cunto e molti vengono da me perché gli piace il cunto. Allora ‘Peppennino aspetta il cuntista come il ‘Peppennino di oggi, il giovane di oggi che non sa niente di me, o l’amatore, o quello che si intende di teatro, che gli piace il cunto ma non sa che dietro l’arte dei pupi c’è una grande teatralità. Allora che faccio io? Gli faccio dire a ‘Peppennino “ma Mastro Ramunnu, viene?”, come dire “ma stasera Mimmo Cuticchio fa il cunto?”, e l’oste dice “non ti preoccupare, quello all’orario è sempre qua e comincia puntuale e chi c’è c’è”; questo era ciò che anche mio padre diceva, che all’orario bisognava cominciare, non bisognava mai aspettare nessuno, “chi c’è c’è, noi all’orario dobbiamo isare u tiluni, u sipariu all’orario” [19]. Quindi mi vengono in mente tutte queste frasi di mio padre. Quando poi, in questo spettacolo, esco dalle quinte, lo faccio da Mimmo Cuticchio, esco anche per dire al pubblico “ora giochiamo a carte scoperte, volete che Mimmo vi faccia il cunto, e io ve lo faccio, però poi ascoltate anche un’altra storia che vi propongo io”, e gli faccio quei dieci minuti di cunto sul duello di Orlando e Rinaldo e Gattamugliere».

È interessante la sovrapposizione di immagini, quelle del racconto di Leporello e quelle dei paladini che sono poi ciò che vedono in quel momento i popolani, quando Leporello elenca le donne deluse.

«Questo è ciò che diviene man mano drammaturgia, per ora io ti sto spiegando il viaggio, visto che tu dici “come si monta lo spettacolo?”, se non ho preparato un copione prima come lo monto. Quindi avevo trovato questo rapporto con i pupi e andavo mettendo dentro tutto una serie di elementi, ti sto spiegando anche il sotto, la doppia linea, quella drammaturgico-teatrale e quella drammaturgico-personale che rientra nei ricordi della mia infanzia, nel vissuto con mio padre e con la mia famiglia. Allora io faccio Mastro Ramunnu, mi sono preso questo nome che è anche per me un nome mitico perché io Mastro Ramunnu non l’ho mai sentito raccontare, però quando ero da Celano, quando stavo a bottega da lui, lui mi diceva sempre che Mastro Ramunnu quando faceva i duelli faceva vedere le cose, quando descriveva i duelli a cavallo con le lancie ecc. Io sentivo sempre parlare di questo Mastro Ramunnu che ho conosciuto una volta, prima che lui morisse, perché era passato vicino a dove abitava Celano, in via Scippateste al Capo, e Celano me lo fece conoscere. Quindi io lo conobbi così, vecchio e di passaggio ma non l’ho mai sentito, per cui per me Mastro Ramunnu era l’Omero della situazione. Perché mentre Genovese, Celano, Totò Spataro e i vari cuntisti, che erano prima di me, li ho sentiti o dal vivo attraverso le registrazioni, Mastro Ramunnu no. Questa volta l’ho voluto scegliere io, il bravo, il “nome”, non ho voluto dire “u ‘zu peppino c’è!” Questo per dire che se avessi detto “u ‘zu peppino” sarei caduto nella commedia folkloristica locale. Potevo dire Totò Palermo o altri contastorie, invece ho scelto Mastro Ramunnu perché era per me leggendario. Mastro Ramunnu, che poi sarebbe Raimondo, lo chiamavano Mastro non perché era Maestro di cunto, ma perché era un maestro che costruiva pennelli, pennelli per imbiancare le case, li costruiva a mano, come suo padre, per cui Mastro in questo senso, di maestro. Da noi in Sicilia si dice “mastro” per dire artigiano-maestro. Però a me piaceva e lo misi».

«Da quel momento bisognava che uscisse fuori questa storia, come? Allora Leporello arriva con la nave da Napoli a Palermo; si dice che Napoli e Palermo, al tempo del Regno delle due Sicilie, fossero un po’ simili, poi c’è questo legame con la Spagna, poi, ancora, siamo nel ‘700, quindi tutto sommato Leporello può tornare a Napoli dalla Spagna, e perché l’ho fatto arrivare a Napoli? Perché quando io facevo il gioco con i miei pupi avevo preso il napoletano che è uno dei pupi di farsa e sta qui il contrasto; un po’ come a Napoli avranno il siciliano che è un mafiosetto o a Torino avranno il meridionale fessacchiotto, noi abbiamo il napoletano che vuole fare il furbo ma poi vince sempre il palermitano. Quindi nelle farse c’era il napoletano che si chiama Tistuzza, sarebbe un gioco per dire “testa grossa”, perché ha il corpo piccolo e la testa grossa. Una delle farse che faceva mio padre era Tutti i santi a Napoli, che era una sfida fra il napoletano e il palermitano, a quanti più santi c’erano a Napoli e Palermo. Il napoletano faceva lo stampatore dei santini, e qua a Palermo non riusciva a venderli, siccome Virticchio si sentiva offeso, in quanto Tistuzza diceva che i palermitani sono tutti protestanti, facevano la gara, alla fine vinceva Virticchio. Elencavano ognuno i propri santi, fino ad arrivare, questo Virticchio, alla festa del 2 novembre che è la festa di tutti i santi e quindi lo fregava. Io prendo spunto da questa farsa per fare questo gioco sui santi, e questo gioco lo faccio arrivare con Leporello. Leporello non era altro che un pupo che io avevo usato nel ’73, quando ho montato il “Cagliostro”, faceva il servo di Cagliostro. Era un pupo appeso all’ultima fila, tra quelli che non utilizzavo più, un po’ perché te lo ricordi come Antonio, il servo di Cagliostro, un po’ perché è vestito in un certo modo, un po’ perché vuoi fare pupi nuovi e non lo guardi più. Quando cominciai a pensare che il gioco poteva iniziare con Leporello, dovevo prendere un pupo, uno qualsiasi per fare una prova, ognuno dei pupi ha un proprio nome, una propria storia quindi veniva difficile chiamarlo Leporello se tu sai che ha un’identità precisa. Allora a un certo punto lancio lo sguardo in alto, lì dove ci sono i pupi che non usavo da anni e dico “ talè ora pigghiu a chiddu I dda supra, ave trintanni ca nun travagghia, armenu ci fazzu scgranchiri i ammi” [20], appena lo scendo e me lo metto in mano quello comincia a saltare, come lo hai visto tu nella scena e così è nato. Appena gli facevo fare un giro lui ballava, e allora facevo il gioco “attia tu chi fa abballi?”, “e che devo fare? È un’opera giocosa questa”, “sì giocosa, allora abballamu tutti”. Da questi giochi, da queste battute mi andavo costruendo un‘immaginario, più che un copione vero e proprio. Tanto che il copione vero e proprio lo abbiamo provato l’ultima settimana, prima di trasferirci al Teatro Bellini, dove lo abbiamo messo in scena per la prima volta. Diciamo che abbiamo cominciato a cucire qui, nemmeno al teatrino, ma qui sotto, nel magazzino, mi muovevo qui».

«Nel frattempo per Don Giovanni cerco le teste, ne costruisco qualcuna, insomma da due, tre teste ne viene fuori una oltre tutto un po’ particolare; l’armatura l’ho fatta io perché mi piaceva che il pupo avesse un po’ di armatura perché i pupi senza armatura mi sembrano più marionette e meno pupi. Poi serviva Donna Anna e Don Ottavio, “facciamo la prova, guarda lì c’è Maria Antonietta e Luigi XVI che non fanno niente”, che non usavo più da tempo; l’ho usato per il Cagliostro che ho rappresentato per tutti gli anni ’70 e poi quando non l’ho più fatto ho appesi i pupi dietro al teatrino. Alla fine sono andati a finire nella sala espositiva. Quindi pensando che questi personaggi avevano costumi del ‘700, perché il Cagliostro era di quel periodo, che non utilizzavo ormai da anni, e che secondo me potevano funzionare bene quando li ho presi in mano, va bè… Maria Antonietta diventa Donna Anna e Luigi XVI diventa Don Ottavio. Già i pupi praticamente c’erano. I pupi erano lì che mi circondavano, io li chiamavo, mi giravo e loro erano lì che mi guardavano come per dire “io sono qua utilizzami”. E così quando ci trasferimmo l’ultima settimana al Teatro Bellini, tutti i miei collaboratori erano in tensione perché viaggiavano nel mio immaginario, gli dicevo “ballate con i pupi anche voi, trovate una confidenza con loro, giocate”, e poi quando siamo arrivati là gli cominciai a dare forma. Mentre recitavo dicevo “facciamo una cosa, siccome deve arrivare poi qua Don Giovanni e non mi piace andarlo a prendere dietro le quinte, facciamo che quando lui scappa tu corri di qua e io me lo prendo. Andiamo avanti. Poi sarebbe da aggiungere una cosa concreta, ci vuole una scena nuova, non come quella dei pupi. Facciamo che sotto il teatrino facciamo apparire pupi, oggetti e tutto quanto è nuovo, mentre nel teatrino quello che appartiene alla tradizione”. Allora riproduciamo l’atrio della casa. Io avevo la visione del cortile interno di Palazzo Bonagia, questo che adesso stanno recuperando in Via Alloro, allora dico a Tania di andare in via Alloro e di guardare dalle grate, perché ci sono all’interno i ruderi del Palazzo Bonagia. Io ci sono stato tanti anni fa con una troupe cinematografica, era tutto abbandonato; mi piaceva farlo su quella linea, per avere una cosa nostra siciliana nella scena».

«Lei è andata là, ha fatto un paio di foto e ha ricostruito una scena che riprende l’atrio di palazzo Bonagia, solo che lì è tutto diroccato, diciamo che l’ispirazione è quella, e dicono che il disegno è più simile al palazzo quando era intero. Io volevo avere anche la mia storia, quella della mia città, della mia infanzia, della visione dei palazzi, di quello che io vedevo e vedo tuttora. Insomma man mano continuavo a farmi domande e a darmi le risposte con i miei pupi tanto che all’inizio, la prima sera fu veramente un’improvvisata, mi ero perso; io mi perdo sempre nei miei spettacoli, non è che mi leggo mai niente prima o so come iniziare, non ci penso mai. Però quando più o meno hai fatto delle prove, bene o male ti crei una traccia ben precisa e poi improvvisi.[…] invece nell’improvvisazione con i miei pupi di farsa mi sono lasciato andare, mi ci sono messo a discutere, ho cominciato a far ridere di più la gente perché dicevo “cunfusu mi sentu, nun  staiu capiennu cchiù nenti” [21], ed ero io che non capivo più niente perché mi ero talmente infilato nel gioco con loro, che era diventato un concerto di voci in cui tutti chiedevano, e quindi non dico che perdevo il filo della situazione però c’era questo gioco continuo che io avevo con me stesso, mi piaceva e allo stesso tempo dicevo “mi state facendo confondere”. Poi dopo le prime tre repliche ho cercato quanto meno di darmi una regolata per evitare che i miei collaboratori si trovassero spiazzati sui movimenti, se improvvisavo troppo».

«Per esempio sul palcoscenico, mia nipote e mio fratello non sanno esattamente quando parlano i pupi di farsa, quindi loro devono stare sempre con le mani in alto pronti, sanno più o meno i pupi che io voglio fare parlare e quando a me viene di improvvisare il dialogo a seconda come si sviluppa, loro già devono essere pronti a muovere il pupo. Quindi è come se lo spettacolo lo facessimo tutti insieme per la prima volta, cioè in tutti c’è una tensione continua, perché là deve funzionare a orologio. Nel momento in cui si mette in moto la macchina, deve andare avanti. A me non piace fare le repliche, mi annoio, mi stanco, mi stufo. Invece mi piace perdermi e quando io guardo il pubblico non lo vedo, non mi interessa cosa fa, ce l’ho davanti ma ho un velo davanti ai miei occhi, io vedo le mie immagini e vado avanti, lo sento come i ciechi, non guardo il pubblico ma lo vedo. Mi dà questa possibilità solo l’estemporaneità del mio gioco, nel momento in cui entro ho la lucidità di chi sta entrando in scena, ma ho anche il piacere di perdermi in un labirinto che io mi costruisco e che alla fine so da dove voglio uscire. La trasposizione tra la scena davanti e la scena di dietro un po’ rappresenta l’immaginario del popolino, di ‘Peppennino ma anche di tutti quelli che amano l’opra dei pupi. Per es. ieri sera c’era è un vecchio appassionato, che ha settanta anni, che mi ha detto “bellissimo ca ci facisti a cosa ri Orlando”, questo signore un po’ come ‘Peppennino anziché guardarsi la storia di Don Giovanni si seguiva invece le scene del teatrino; ed è per questo che io le ho fatte perché pensavo all’immaginario di chi ascoltava l’opera dei pupi, che vede le battaglie, i fuochi, le città che bruciano, gli scheletri che spuntavano negli incanti; tutte queste cose le ho portate nel mio gioco del Don Giovanni. C’è un continuo sdoppiamento e un doppio binario e questo sono anche io, è la mia vita vissuta, io non posso fare il moderno, l’avanguardista cancellando il mio passato. Il mio passato è quello che mi dà la capacità di essere moderno, perché io non lo amo a tal punto da essere bigotto e non capire che il mondo è cambiato, io lo guardo per mettermelo a confronto e cercare di risolvere il problema di come andare avanti. Ed è questo che mi fa sperimentare sempre».

L’intera elaborazione vissuta da Cuticchio sfocia in palcoscenico, dove accadono e nascono altri giochi e altre proiezioni a cui solo altre rappresentazioni potranno dare voce.

Vorrei fare un ultimo riferimento ad una rappresentazione proposta da Cuticchio, qualche anno fa, ad un gruppo di ragazzi della scuola superiore; una delle varie sperimentazioni dello spettacolo Alla scoperta della città di Troia, la cui prima è avvenuta a Pianoro, in provincia di Bologna nel 2004. In questa occasione Cuticchio mette in relazione tre livelli narrativi: quello di Omero (nella versione dell’Iliade di Vincenzo Monti), quello dell’archeologo tedesco Schliemann, e quello del puparo-cuntista. Il racconto si svolge per rimandi, visioni e riconoscimenti; Cuticchio si muove da un soggetto ad un altro, da una lingua ad un’altra, da un sogno all’altro. Quando, ad esempio, Cuticchio-Schliemann trova la maschera di Agamennone, prende avvio l’evocazione immaginifica attraverso il cunto: dalla maschera fissa alla maschera sonora. È una narrazione viva che per mezzo del gioco comunica ai ragazzi la profondità e la bellezza di una storia, mettendo in pratica una dimensione pedagogica di alto spessore. C’è un altro particolare di grande interesse ed è la presenza, alle spalle del narratore, dell’aiutante (Tania) che nel corso della narrazione, va componendo un mosaico di pezzi di tela di sacco, ognuna delle quali raffigura elementi della storia narrata, il tutto su una struttura che alla fine si rivelerà essere il cavallo di Troia. Mentre si consuma la storia, e il tempo trascorre, si compone, cresce e prende forma una figura. Cuticchio srotola una matassa, il cui filo è la materia con cui Tania, una sorta di Penelope, cuce un’altra storia. Dalle macerie delle mura di Troia si recuperano i pezzi di un altro luogo. Qui è significativa la metafora della narrazione come arte del tessere, del cucire, mettere insieme brandelli apparentemente lontani che possono ancora essere un corpo, grazie agli strumenti del narratore-sarto.







[1] Conferenza-spettacolo in collaborazione con Guido di Palma.

[2] Tratto dal libro dell’abate Prévost e dal libretto di D. Oliva, G. Ricordi, L. Illica e M. Praga. Musiche di Giacomo Puccini.

[3] Tratto dal libretto di Lorenzo Da Ponte, musiche di W.A.Mozart.

[4] Cfr. V. Venturini, Dal cunto all’opera dei pupi. Il teatro di Cuticchio, Roma 2003.

[5] Il primo testo che Mimmo ha scritto è per pupi in paggio, cioè pupi senza armi (i primi rudimentali personaggi dell’opra), dal titolo Giuseppe Balsamo Conte di Cagliostro, copione e adattamento suo, ispirato alle letture di A. Dumas e altri romanzi popolari sulla vita di Cagliostro; è interessante questo dato perché le iniziali prove di Cuticchio ripercorro dall’origine la sua tradizione.

[6] Cfr. Visita guidata. Viaggio per parole e immagini nel teatro di Mimmo Cuticchio e Salvo Licata, a cura di R. Giambrone, Palermo 2001.

[7] Cfr. Ibidem.

[8] Cfr. Visita guidata all’opera dei pupi. Serata speciale tra i capannoni e i fantasmi di un’antica fabbrica, a cura di m. Cuticchio-s. Licata, (Quaderni di teatro, L’isola da svelare, IV), Palermo 1996.

[9] Cfr. Guida all’opera dei pupi, a cura di m. Cuticchio, Palermo 1998.

[10] Cfr. T. Kantor, La classe morta, Milano 2003.

[11] Cfr. Ibidem.

[12] Cfr. F. Ruffini, Lontane vicinanze, in Venturini, op. cit.

[13] Cfr. J. F. Lane, Tra Opra e Opera- Evviva i pupi siciliani, in Mimmo Cuticchio cunta la storia di Manon Lescaut e del cavaliere De Grieux, a cura del Teatro Valle, Roma 1999.

[14] “Che guardi?”- “Tu cosa guardi?”- “No, io ho detto a te che guardi!”- “Io sto sentendo te che sei in confusione per montare il Don Giovanni”- “Ah sì, e tu come lo monteresti?”- “Ma se è un’opera giocosa e drammatica, uno dovrebbe piangere, dovrebbe ridere”- “E va bene, però non è facile fare piangere e far ridere”.

[15] “Ho visto un teschio”.

[16] Pupo-personaggio della farsa.

[17] “Ma stasera non c’è Rinaldo?”- “No, non c’è!”- “Allora non vengo, vengo domani sera perché a me piace Rinaldo”.

[18] Mitico contastorie palermitano.

[19] “Noi, senza guardare chi è venuto e chi deve ancora arrivare dobbiamo alzare il telone, il sipario in orario”,

[20] “Ma guarda, ora prendo quello in alto, da trenta anni non lavora, almeno gli faccio sgranchire le gambe”.

[21] “Mi sento confuso, non sto capendo più niente!”.


 













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Lucia Leggio,
Mimmo Cuticchio.
Pratica teatrale fra
Cunto e Pupi


 


Maurizio Buscarino,
Dei Pupi
(recensione di Siro Ferrone)

 

 

Figli d'Arte Cuticchio






 
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