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Italo Moscati

Roma Italia, diurna e notturna

Data di pubblicazione su web 03/04/2007
Sophia Loren e Franca Valeri in "Il segno di Venere" di Dino Risi (1955)

Dino Risi ha compiuto novant’anni e ha annunciato il suo definitivo addio alla macchina da presa, dopo una carriera straordinaria che comprende film come Il sorpasso, I mostri, Una vita difficile - sono per citarne alcuni - che sono entrati nella storia del cinema ma anche in quella del costume italiano della seconda parte del secolo scorso, il Novecento. A Risi è dedicato un volume che si concentra su un altro film del regista, meno conosciuto ma non meno felice e significativo, intitolato Il segno di Venere che dà il titolo allo stesso volume che esce in coincidenza del restauro della pellicola.
Tra gli scritti pubblicati ce n’è uno di Italo Moscati che qui riportiamo.


Il "Segno di Venere" di Dino Risi, a cura di V. Caprara, Torino, Lindau, 2007, pp. 216, ISBN 978-88-7180-650-1, € 25,00



Roma Italia, diurna e notturna


A poche centinaia di metri dalla Stazione Termini di Roma, davanti al Museo di Palazzo Massimo, c’è una tettoia sporca. Sporca è anche la porta, sporchi i vetri delle finestre dietro inferriate, i muri dell’antico palazzo, sporchissima la scritta sulla tettoia: Albergo Diurno. Quando è notte, se aguzzi l’orecchio, puoi persino sentire il fruscio dei topi che vivono al Diurno e ci portano gli avanzi delle trattorie lì intorno. A breve distanza, in mezzo a cespugli aridi, sotto alberi abitati da uccelli pigolanti in perenne evacuazione sulle teste dei passanti e dei tettucci delle auto, c’è il baretto dove nella notte del 2 novembre del 1975 una lussuosa vettura sportiva si fermò, chi era al volante fece un cenno, qualcuno rispose. Il cenno era di un regista, Pier Paolo Pasolini. Poche ore dopo l’uomo famoso in cerca d’amore, o di disamore sbrigativo, brutale, moriva assassinato sulla spiaggia di Ostia.

1955. L’Albergo Diurno è splendente, tirato a lucido. Profuma di lozioni e di creme. Si chiama La Casa del Pellegrino. O meglio, così la chiama il regista Dino Risi con i suoi sceneggiatori nel film Il segno di Venere. Qui dentro, dove si sentono i ticchettii delle macchine da scrivere e passano veloci ragazze in gonna e golfino stretti stretti, s’incrocia il popolo indaffarato appena sceso dal treno a Stazione Termini per farsi la barba, scrollarsi di dosso le muffe dei vagoni con una doccia, rassettarsi i vestiti spiegazzati, rifarsi il trucco, cambiarsi un intimo, dare un colpo al vezzoso cappellino per presentarsi come si deve al principale in attesa, mentre legge in giornale, in uno dei ministeri lì accanto. Lo si capisce subito, rivedendola oggi.  La Casa del Pellegrino è nel film la metafora chiusa in una larga cantina, sotto il livello della strada, di una Roma di passaggio, in cui gli aromi non sempre gradevoli dei pellegrini dell’Italia anni Cinquanta - pendolari di lusso, impiegati, puttane, omosessuali, sfaccendati, amanti in prossimità di appuntamento - si mescolano al respiro pesante della Città Eterna. Risi ne fa una sorta di coscienza limacciosa di una città con le sue pretese di lindura e di compostezza metropolitana.

Chinarsi verso la cantina per curiosare, sembra suggerire il regista,  significa andare al ventre di Roma. Coincidenze, citazioni. Matilde Serao scrisse a fine Ottocento il suo Ventre di Napoli, Risi mezzo secolo dopo ci racconta il suo più discreto e, come dire, meno viscerale, ventre della Capitale. Risi lavora con finezza intellettuale e ironia. L’idea di un viaggio nelle profondità del corpo di una città ci spinge in un intreccio di fogne e di desideri. Dopo, non si può far finta di nulla.

Risi muove le sue pedine in un teatrino che trascende il sottoscala della Casa del Pellegrino e s’infila ovunque, anche più in là, nei locali della non lontana piazza dell’Esedra con la sua grande fontana, nei caffè eleganti e in quelli equivoci, sotto i portici i cui si affacciano sale cinematografiche che espongono manifesti sguaiati con le “maggiorate” dell’epoca. Corpi di carta e di celluloide. Un’abbondanza di corpi ambiti davanti alla quale sfilano gli occhi malinconici dei barboni e della piccola borghesia che beve ieri come oggi cappuccini con molta schiuma e molti cucchiaini di zucchero. Una delle “maggiorate” è Sophia Loren che sale e scende dai manifesti per salire definitivamente, questa volta presa per mano da Risi e da Raf Vallone, verso la gloria del grande schermo. 

Dunque, 1955. Roma, centrista e ancor più democristiana, sulla quale si alza ancora il dito severo di Pio XII, va in gran massa al cinema o legge i fumetti d’amore: si stringe intorno al baluardo del  sesso come approdo di salvezza rispetto ai bisogni di tutti i giorni. La ricostruzione postbellica è quasi ultimata, ognuno cerca un posto sicuro e folle di speranzosi vanno in parrocchia o al partito per farsi raccomandare. Il “miracolo economico” pare che arrivi, ma quando arriva?; se ne parla, è una promessa , è dietro l’angolo, ma ancora non si vede: bisognerà che si compia il 1958, l’anno che gli storici hanno battezzato come quello in cui si sentono davvero i vagiti di un benessere che, dopo l’euforia del periodo andrà come gli pare, fino ai moti della contestazione giovanile del 1968.

Dieci anni di pane e tv, le trasmissioni della Rai sono iniziate del 1954. Di pane e cinema, la commedia comica con Totò, Sordi e un gruppo di formidabili attori e caratteristi commuove, diverte, provoca e mette alla berlina  milioni e milioni di spettatori che non ancora abbandonano la gloriosa sala buia. Di pane e canzoni, dal Festival di Sanremo, da Domenico Modugno a Rita Pavone ad Aurelio Fierro o Sergio Bruni o a Teddy Reno (che non ha ancora conquistato la vergine Rita) il paese decolla nel suo firmamento preferito: un immaginario aereo trascina nel cielo dei sentimenti sociali la scritta senza tempo: “Canta che ti passa”.

A proposito del 1958. E’ un anno fondamentale che ci porterà con un rapido passo indietro all’anno che ci interessa, al 1955; e non solo perché è l’anno di Nel blu dipinto di blu , ovvero Volare, o perché Pio XII muore, non più Vicario raggiunge il Superiore; ma soprattutto perché è un appuntamento che scandisce la fine di un periodo storico e l’apertura di uno nuovo, secondo gli studiosi dell’Italia repubblicana. Molte situazioni si capiscono meglio se le si vede da questa data.  L’anno è fondamentale anche perché viene approvata la legge Merlin che chiude le case chiuse o di tolleranza.  Un avvenimento che la televisione, con Ugo Zatterin, sussurra nelle case aperte ai primi telegiornali. Zatterin racconta e commenta il fatto, senza mai pronunciare la terribile parola: prostituzione. Si accontenta di alludere, far capire, dar di gomito, strizzare l’occhiolino.

Intanto, felici, per prime si fanno un devoto segno della croce le beghine e i mariti in loro presenza. Questi ultimi molto spesso frequentatori clandestini dei paradisi tanto amati anche dal cinema: decine e decine sono le pellicole dedicate al tema e “a quelle signore” dalla fine della guerra.  Una stagione di pellicola e di eros. Indro Montanelli, che scrive nel 1956 il pamphlet Addio Wanda sulle inquiline nelle case protette, si intenerirà in un saluto a una delle tante Wanda conosciute. Se ci sono persone che si fanno il segno della croce per dare il benvenuto a una nuova fase della storia della prostituzione - dal chiuso all’aperto delle strade - contemporaneamente altre, in parte le stesse, vivono o cercano di vivere sotto un altro segno, quello di Venere. Ma non si tratta di astrologia, “scienza”, abitudine, gioco, nevrosi, sempre esistita. Si tratta di una mania che diverrà obbligatoria, collettiva, vent’anni dopo, quando le rubriche apposite si annideranno sui giornali più popolari, dopo le pagine col “pastone” sulla vita politico-parlamentare e dopo le pagine sportive con le imprese ciclistiche di Fiorenzo Magni e Ercole Baldini e quelle calcistiche della Juventus di John Charles e Sivori, vincitrice dello scudetto davanti alla Fiorentina.

1955. Niente stelle. Niente astrologia. Caso mai vengono interpellate le carte o il pendolino, come mostra il film di Risi, nel quartierino di una piacente e solitaria indovina.  Quattro pareti entro la quali Cesira-Franca Valeri, cugina di Agnese- Sophia, trova pane per i suoi sogni: ci sono uomini che la guardano, la desiderano, forse addirittura la chiederanno in sposa. Ma le  sicurezze e le fantasie si cercano terra terra. Il segno di Venere, dice Risi, si rifà esclusivamente al sesso. Venere sprigiona l’ondata montante di un sesso potente e irresistibile, ma invisibile, trattenuto eppur caricatissimo. E’ proprio questo l’anno in cui, secondo il film, l’uragano si fa intenso e  batte furiosamente alla porta degli italiani qualunque. Le ragazze si sfogano con i romanzi a fumetti che leggono con accanimento, immaginando un bacio, una carezza, un piedino sotto la tavola, la speranza di un invito ad uscire o di andare al dancing a dispetto dei genitori. Una delle prime scene del film mostra Agnese-Sophia che sfoglia un giornaletto, sospira davanti a storie romantiche e carnali dai titoli di esasperata eccitazione, come Rendimi la mia vita.

I maschi ancora non tremano per un gioco che sta per essere a loro sottratto: la Merlini è lontana, non ci pensano; scaricano nei luoghi designati le energie che le ragazze e le fidanzatine titillano e solo raramente soddisfano, con candore e ingenuità, vittime del desiderio del carnefice che le farà contente. La forza soffocata  o espressa alla brava potrebbe mettere in azione possenti centrali elettriche. L’Italia dei maschi avverte confusamente che la senatrice Merlin, la coraggiosa paladina della non tolleranza, prima o poi vincerà la sua battaglia e cancellerà  insieme una vergogna e un rifugio: la mercificazione del corpo femminile insieme allo sfogo della libertà di orgasmo. Sfumerà un retaggio di tempi antichi e se ne andranno all’improvviso come un miraggio le oasi del piacere per i maschi meno fortunati fisicamente. Prima della approvazione della legge, ai giornali arrivarono migliaia di lettere di protesta da parte di handicappati d’ogni tipo. Le missive resteranno senza risposta.

Intorno al sesso, nel 1955, lo scenario della vita italiana appare freddo come un elenco cronologico in apparenza senza sorprese. Il nostro paese gode ancora di rilevanti finanziamenti degli Stati Uniti d’America: l’ambasciatrice Claire Booth Luce comunica al ministro Scelba che oltre quindici milioni di dollari cadranno come una manna sull’economia nazionale. L’Italia viene ammessa alle Nazioni Unite. Un dirigente democristiano, Giuseppe Chiarante, viene espulso dal partito per avere partecipato a un convegno dei “partigiani della pace” , un’iniziativa dei comunisti ispirata dall’Unione Sovietica. Antonio Segni, democristiano, diventa presidente del consiglio. Esce il primo numero di un settimanale che fa subito scandalo, L'Espresso.  La mafia colpisce a morte il sindacalista Salvatore Carnevale.

Il sesso continua a bussare alla porta, sfida le leggi e le convenzioni. Accade un fatto a quei tempi clamoroso che solleva polemiche ad oltranza. Giulia Occhini e Fausto Coppi - il campionissimo, il grande rivale di Gino Bartali - vengono condannati dal tribunale di Alessandria a tre e a due mesi di carcere per adulterio e abbandono del tetto coniugale. La sospensione condizionale della pena non frena, anzi scatena i giornali, e lo scandalo continua per mesi a riempire le chiacchiere degli italiani. Non riesce ad attutirlo il successo fin dalla prima puntata di Lascia o raddoppia? condotto da Mike Bongiorno. Migliaia di italiani incollati alle vetrine dei negozi di televisori o ammassati nei salotti degli ancora pochi abbonati alle trasmissioni tv. Un popolo di voyeur. Buchi della serratura e piccoli schermi.

Nella Roma diurna, le immagini della tv che si affacciano si mescolano con le mani che toccano. Il film di Risi è, sotto questo profilo, la sagra della mano morta e soprattutto la sagra della mano attiva. Dove? e come? Potrebbe sembrare una notazione di colore, un poco esasperata,  ma il regista con i suoi soci di sceneggiatura attraverso la manualità in cerca di peccato ci invita ad entrare nella logica diffusa del tatto e del contatto, oltre che delle attenzioni non sempre scherzose suggerite dai laceranti fischi d’ammirazione dei maschi d’ogni età al passaggio di una ragazza avvenente, e dagli sguardi concupiscenti rivolti per strada  alle donne più procaci, come documenta nel 1953 Alberto Lattuada nell’episodio Gli italiani si voltano in Gli italiani e l’amore

Si aprono le condizioni per una sociologia leggera del morboso. Comincia dagli autobus. Che c’entrano i bus? Le inquadrature parlano, anzi mostrano chiaro. La grande città degli impiegati - altro che Roma imperiale - intasata nel centro storico e nei viaggi dei pendolari tra centro e periferie, vive negli anni Cinquanta pendendo dalla labbra delle portiere dei bus, portiere che non si chiudono per la ressa di viaggiatori e di chi resta a terra; e possono essere sofferenze di mezze ore. Finalmente il bus arriva. L’assalto è violento, rissoso, soffocante. Poi, nel colmo dei cappotti o delle pelliccette  (il film di Risi porta l’inverno nella città di solito soleggiata), mentre trionfa l’acme dei sudori, l’autista riesce a chiudere la morsa delle portiere e si parte. Tutto si placa per un istante. Le schiene schiantate dallo sforzo di salire sono, nell’occhio della camera da presa, sostituite dai volti. Sono volti di romani (cominciano ad essere minoranza) e di italiani immigrati, volti puliti, sbarbati, quelli degli uomini,  e truccati con parsimonia, sotto chiome fluenti e provocanti quelli delle donne. La carica della ressa subito si agita come ondate a ripetizione, cavalloni marini che si fanno sempre più intensi, insistiti, possenti.

Le onde sono estensioni d’amore, o meglio di sesso, sospirato. Sotto, come in una partita di pallanuoto, si muovono mani e gambe. Le mani degli uomini che cercano le rotondità delle donne, le gambe in pantaloni che cercano intrecciano altre gambe sotto le gonne. Avviluppi da tango, ma la musica è un’altra. Volano occhiatacce, non sempre, e qualche schiaffo. Gli orgasmi sono rimandati, resta il frenetico petting dei cappotti, cioè toccare come si può, senza concludere.

Agnese-Sophia nel Segno di Venere sperimenta personalmente la pratica dei toccamenti sugli autobus che prende ogni giorno con la cugina Cesira-Franca Valeri per andare al lavoro. Le due giovani donne ne parlano, con qualche sospiro di Cesira che da bruttina  ha sperimentato poco, anche in questo senso. Agnese racconta, fin dall’inizio del film, delle botte a mano aperta sui fianchi ricevute a bordo dei mezzi pubblici ma anche nell’ufficio del principale, luogo in cui la botta o volgarmente pacca sul sedere si trasforma in saluto complice e, se permane il silenzio di colei che l’ha ricevuta, in una  implicita promessa di carriera sicura. Ma non ci sono solo mani che toccano, negli anni della Casa del Pellegrino, ci sono le mani scorsoio e le mani insanguinate. Il perno è sempre quello: il fiore del peccato che, nella tradizione cattolica del nostro paese, sboccia e non appassisce mai nel delta delle donne.

Nel 1955, due anni soltanto sono passati da un caso che farà sensazione a lungo, anche dopo il 1957, data della sentenza su un processo epocale, come ancora non si diceva, che chiuse solo apparentemente il caso. Nell’aprile del ’53 un corpo nudo di ragazza viene trovato sulla spiaggia di Capocotta. E’ di Wilma Montesi. Wilma ha preso parte a una festa di quelle che oggi chiameremmo vip, very important person, persone scritte sull’acqua. Si fanno nomi importanti. I cinegiornali (il telegiornale non c’era ancora) e la stampa si scatenano. La domanda di tutti è fredda e scabrosa: la ragazza ha perso la vita accidentalmente, si tratta di un suicidio o addirittura di un assassinio? Roma è scossa e lo sarà a lungo. La trama delle cronache è più appassionante di quella di un film. Gli arresti fanno sensazione: manette a Piero Piccioni, compositore di colonne sonore di film, con l’accusa di omicidio colposo e uso di stupefacenti; e a Ugo Montagna, personaggio discusso e presente alla festa in cui partecipò Wilma. Le rivelazioni si susseguono a getto continuo, e vengono da attrici o aspiranti tali. Roma notturna fiuta cocaina e sesso facile.

La notizia più ghiotta è che il compositore è figlio di un importante politico democristiano, Attilio Piccioni, e quindi si parla di manovre anche del palazzo del potere. Il processo si tiene, come ho detto, nel 1957, quattro anni dopo il fatto. Non emerge alcun elemento nuovo. Gli imputati vengono tutti assolti. Su Wilma la pietra della tomba diventa più glaciale. Roma notturna respira, rimuove così i suoi incubi. Questa Roma notturna e amatissima da un esercito di divi, amatissima dal crescente turismo sessuale degli stranieri e dalla mondanità sempre più aggressiva proposta da nobili in disarmo e da artisti come Novella Parigini o delicati gay esibizionisti come Giò Stajano, a poco a poco tenderà a prevalere sulla Roma diurna. 

Un esempio di questa Roma di giorno che stava per scomparire è  in Poveri ma belli, pellicola che Risi girò nel 1956. E’ un altro esempio della capacità del regista di cogliere, per contrasti, l’anima un poco sordida e navigata di una città capace di inghiottire ogni cosa, ogni scandalo. I volti belli e levigati di Maurizio Arena, Renato Salvatori e di Marisa Allasio, quest’ultima ancora più nota per le misure del corpo, nel film sono impassibili come statue di cera rispetto alla cornice della Roma notturna. Intorno a loro, fuori dal set, il demi-monde macina storie nuove. Cinecittà è piena di attori americani, da Gregory Peck e Audrey Hepburn per Vacanze romane a Charlton Heston per Ben Hur e a Elizabeth Taylor per Cleopatra. I kolossal storico-mitologici riempiono i portafogli di tecnici, comparse, figuranti, attricette, giornalisti pettegoli. Un bacio, un sospiro di adulterio tra i pellegrini di Via Veneto è già uno scoop.

Roma è tutto un albergo e tutta una trattoria per i divi d’oltreoceano. In una di queste trattorie, il Rugantino, era accaduto qualcosa nel ’53 che continuava a fare sensazione. La  spogliarellista turca, Aiche Nanà, in una serata di festa, presente Anita Ekberg non ancora Silvia nel film di Fellini, si tolse ogni striscia di stoffa e restò in mutande. Gli agenti fecero subito chiudere il locale dello scandalo, che resterà famoso; denunciarono Aiche, mentre i fotografi d’assalto scattavano i loro flash. Federico Fellini prendeva appunti per la sua Dolce vita.

Mentre Risi gira con la Loren, Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Franca Valeri e Sordi Il segno di Venere, suscitano brividi le notizie di un altro delitto misterioso. Un contadino, sulle rive del lago di Castelgandolfo, trova il corpo di una donna decapitata. Castelgandolfo, il paese dove i papi passano parte delle vacanze estive. La testa dell’uccisa non viene trovata. I pompieri sommozzatori si calano nelle acque limacciose del lago. Pescano soltanto scarti di vario tipo , il lago è ormai una discarica. La testa forse l’ha portata via l’assassino, come souvenir. Il mistero si unisce ad altri misteri. Ben ventotto donne vengono uccise nel giro di pochi anni. Nessun colpevole viene rintracciato, nonostante le indagini. Non si tratta di un  serial killer. Situazioni, circostanze, modalità delle morti non mostrano alcun elemento in comune. Una catena di fatti di sangue che non ha tregua, fra delitti passionali e di una criminalità sempre più intraprendente. La catena culminerà nel 1958 in un caso meno misterioso e, forse anche per questo, concentrando tutta l’attenzione sui possibili responsabili, più capace di interessare, incuriosire spasmodicamente l’opinione pubblica. Si tratta dell’omicidio Martirano, anzi nel cosiddetto caso Fenaroli.

Maria Martirano verso sera apre la porta all’uomo che le toglierà la vita in pochi minuti, un uomo che evidentemente la conosceva. Sposata al geometra Giovanni Fenaroli - ma i due vivono separati - è una donna di mezza età, riservata e introversa. Chi può avere interesse a ucciderla? La polizia ricostruisce il delitto nei dettagli grazie a un delatore e alle intercettazioni telefoniche raccolte. A colpire è stato un sicario di Fenaroli, l’elettrotecnico milanese Raul Ghiani. Ghiani ha preso l’aereo per Roma, ha ucciso ed è tornato al posto di lavoro con un treno nella notte. La posta in gioco è la ricca polizza assicurativa sulla vita della Martirano stipulata da Fenaroli, il marito in difficoltà. Al processo, la sentenza è di ergastolo per Fenaroli e Ghiani, viene condannato anche un tal Carlo Inzolfa che ha creato il contatto tra il mandante e il sicario. Un intreccio di affari e di sangue. Ce ne saranno altri di omicidi, a lungo sotto l’occhio della stampa: modelle e attricette, amanti venute dalle molte province e periferie italiane, prostitute, sognatrici a caccia di un piccolo ruolo nei film dei muscle boys e delle bighe muoiono in appartamenti nelle adiacenze di via Veneto.

Fellini sta completando i suoi appunti che diventano giorno dopo giorno pagine di sceneggiatura che si completerà nei giorni di lavorazione della Dolce vita anche dopo il ciak. Il film porta la data del 1959. La data di una svolta.

Dalla Roma diurna della mano morta o attiva o attivissima tra i paltò negli autobus si è passati definitivamente alla Roma notturna con i suoi vizi, spesso puerili, e con la sua sotterranea voglia di vivere comodamente nel formaggio del “miracolo economico” che si è consolidato, nonostante alti e bassi. La lira riceve l’Oscar come una delle più forti moneti del mondo ma la paura di una recessione manda in piazza le massaie. In politica, esaurite le formule centriste a guida democristiana, cominciano le prove del centro-sinistra, sempre a guida democristiana ma con il partito socialista tra i principali alleati. Ci sono resistenze a non finire. Tra cui quelle che portano al governo Tambroni, appoggiato dalla destra e in particolare dal Movimento sociale italiano, che prova scontri tra polizia a cavallo e dimostranti di sinistra.

La Roma notturna nel Segno di Venere la vediamo nei servizi dei cinegiornali, primo fra tutti La settimana Incom, in cui penne acuminate come quelle di Ennio Flaiano e di altri scrittori prendono giro una società di arrivisti e di profittatori, di arricchiti non si sa come, di arrampicatrici senza scrupoli, di politici, di cantanti che imitano i ritmi rock venuti dall’America. La Roma notturna, tra strade del centro intasate di prostitute e di night eleganti sempre sull’orlo del fallimento, la  si può intuire. La si può spiare per quel poco che lasciano intravedere le luci di piazza dell’Esedra e di qualche bar o caffè che sfoggia insegne intermittenti come quelle dei luna park, ammalianti. La si può intravedere almeno in una scena del Segno di Venere, una scena centrale del film nonostante la sua brevità.

Nella scena, coinvolto in un leggero incidente stradale, compare Maurizio Arena al volante di un’auto sportiva con una maggiorata bionda accanto. In attesa di essere un “povero ma bello” qui Arena è un fusto che veste da ricco, uno di quei personaggi montanti nelle fortune dell’epoca, con il fisico da bagnino, il sorriso ammaliatore da bulletto trasteverino, l’abito da sera portato con rozza disinvoltura, Arena sembra un giovane del popolo travestito, colto in un salto di classe. Nella stessa scena, alle luci di una sera che per Maurizio e maggiorata va incontro a una notte al night, tra entreneuses che sono ragazze di Gallarate o della cintura torinese ribattezzate con nomi esotici, entra nel pieno della discussione il personaggio di un pompiere, affidato a  Raf Vallone.

Raf Vallone, nella vita ex calciatore e giornalista, nel cinema interpreta preferibilmente ruoli da bello serio, riflessivo, motivato. Nulla in comune con i tipi alla Maurizio. Raf fa perdere la testa alle spettatrici perché ispira fiducia, trasmette un messaggio di amplessi proletari impreziositi di umanità e di saggezza, cita i poeti. Ed ecco che, in un’altra  notte, lungo la via Appia Antica, rivediamo Raf nel film denominato Ignazio Bolognini, pompiere, ex pugile,e Agnese-Sophia. Sono sotto le stelle. Raf-Ignazio incanta sapientemente la ragazza che sogna i fotoromanzi: non allunga le mani, non la provoca, va adagio, la rassicura, la persuade sapientemente, finchè al lume della luna sempre più alto è lei a perdere la testa e a baciarlo sulla bocca in fretta, con passione, con speranza.

Notti di semina per amori fatti di travolgenti stordimenti di desiderio, ma anche di candore estremo. Notti in cui tutto può accadere se le vene del desiderio e del piacere convergono per accecare gli innamorati. Infatti, nella Roma (e nell’Italia) degli ormoni allarmati nella società che reclama soddisfazioni per i corpi che esplodono sotto i vestiti, tutto può letteralmente accadere. Dopo le ipocrisie cattofasciste e dopo le ipocrisie molteplici del dopoguerra, gli innamorati si lanciano gli uni sugli altri nelle alcove disordinate ed eccitate delle emozioni. Lì, in quei momenti strappati al mondo esterno, alle famiglie e ai moralisti, costruendo un piccolo grande mondo di attrazioni fatali, i semi sono veloci come staffilate di estasi.

Non si sa come (gli occhi di Sophia sono limpidi come specchi) Agnese resta incinta. Nascerà un bambino che andrà ad arricchire il baby boom in corso. Raf-Ignazio è perplesso, ma che può fare? Accetterà l’invito a pranzo dei familiari di Agnese - Guglielmo Inglese, ex parroco di Pane,amore e fantasia, e Tina Pica, ex governante del maresciallo Carotenuto/De Sica nello stesso film. Il destino del pompiere è segnato nel segno della continuità della famiglia. Il peccato si onora, lavandolo,  con la sacralità del matrimonio, soprattutto quando dal nulla le pance crescono. Pane, amore e rassegnazione. Qui, su questo piano di vita, la Roma diurna s’imbatte in una Roma notturna piccoloborghese, fatta di tradizioni che non si discutono.  Tina Pica fronteggia Agnese-Sophia e Cesira-Franca con le parole d’ordine dell’epoca: onestà e famiglia, nel senso che senza il parere positivo dei parenti nulla è lecito; i baci sono vietati prima delle nozze, i bambini nascono sotto i cavoli; per le nozze, auguri e figli maschi, soprattutto maschi; la donna non deve lavorare, deve stare a casa, a cucinare e a litigare col marito; la donna dopo il matrimonio è bene che ingrassi un poco o anche molto, è davvero importante che il marito trovi il letto adeguatamente imbandito.

All’aperto, sotto le stelle, o magari in una casa chiesta in prestito ad un collega pompiere, Raf-Ignazio e Agnese-Sophia si sono gettati nella mischia delle lenzuola, lei felice di donargli la sua sempre più insopportabile verginità, lui bramoso di togliergliela fidando nella sorte. Niente preservativo, niente pillola anticoncezionale, niente coitus interruptus, niente di niente. Vieni, apriti sesamo, e che dio ce la mandi buona. I due giovani e inesperti innamorati nel giro di soli nove mesi si troveranno due volte davanti al prete, per il matrimonio e per il battesimo. Si fanno i conti. Ai maschi la frequentazione delle case chiuse non ha insegnato nulla a livello di  concepimento, anzi, li ha abituati ad andare liberi o meglio incoscienti. Tutti e tre,  i giovani sposini e il loro bambino, entrano nel “miracolo economico” in punta di piedi, scivolandoci dentro. Il paese si avvia a diventare consumista, con una pioggia di elettrodomestici che invadono gli appartamenti e di auto utilitarie che occupano le strade strette costruite dagli speculatori. La nuova Italia ha bisogno di questi miracoli in nome dalla passione senza freni,  del flusso di  sentimenti che s’impenna nella carne impaziente, dell’orgoglio consumista.

Assiste a questo spettacolo notturno a lei rubato dalla sorte, fra night, lenzuola e concepimenti, la delusa Cesira-Franca che è scesa dal nord a Roma, per cercare lavoro e soprattutto uno straccio di uomo che la sposi. Lei, bruttina, sa di esserlo, si accontenterebbe, ma come si fa? Di maschi belli e seduttori ce n’è a iosa. Ma non la vogliono e comunque la incantano. La seduce senza toccarla il poeta della radio, il personaggio di De Sica, che l’ha sbalordita e dettando a Cesira, dattilografa alla Casa del Pellegrino, la lettera di minaccia di suicidio al dirigente di Radio Rai che non gli dà più lavoro. La affascina  il personaggio di Romolo Proietti-Sordi, ladro di automobili, che è specialista nell’ingraziarsi con l’istrionismo da imbroglione da quattro soldi il candore troppo scoperto di una zitella  senza speranza.

E’ una commedia amara, verniciata di ironia e satira, quella di Risi. Non fa parte in pieno del genere comico e s’inserisce con originalità in quella commedia cosiddetta all’italiana che, esaurito il neorealismo, in una società spaesata e condannata a vivere nuovi tempi, non si stanca a rappresentare l’incertezza tra passato e presente, e la di difficoltà di padroneggiare il futuro. Il segno di Venere si svolge a Roma, ma il racconto ha un respiro gogoliano, i personaggi sono anime smarrite nel sottosuolo, figure che vivono di stenti e di illusioni, e che sono paralizzati dallo loro pochezza e dalla riverenza generica mai messa in discussione verso l’Autorità. Il film con il suo tono apparentemente dimesso, colmo di attese, intriso di illusioni, grazie anche alle immagini senza luce, in un soffocato bianco e nero, ricorda Il cappotto di Lattuada (1952) interpretato da Renato Rascel, ispirato all’autore russo, Nicolaj Gogol. 

La commedia all’italiana sembra sfatare gli alti versi di Thomas Stearns Eliot secondo i quali nel passato c’è il presente, e nel presente ci sono sia il presente che il passato e il futuro. Il tempo è fermo nella Roma della Casa del Pellegrino. La rassegnazione domina. Le abitudini, i costumi, le regole di comportamento più retrive e ostinate sono forti come rocce. Almeno in questo film.

La Casa del Pellegrino è un terminal, un capolinea. I titoli di coda, dopo la parola fine, allungano a noi la domanda: e adesso? cosa avverrà adesso?

Per noi, che viviamo cinquant’anni dopo - e la pillola, il preservativo o il coitus interruptus li abbiamo scoperti, insieme a molto altro ancora - qual è l’equivalente della Casa del Pellegrino? La televisione? Diurna e nottura. Lavaggio e stiratura del gusto, dell’apparire. Pellegrini, per rassettarsi e andare dove? Domande che fanno paura. L’incisivo film di Risi trasmette ad oggi, al persecutorio trash televisivo, e del cinema, l’invito felpato, sorridente ma non troppo, di correggere i difetti della vista con cui guardiamo intorno a noi. Non scrivo la “realtà”, che nessuno sa che cosa sia, ma le trame diurne e notturne che trasformano gli spettatori in pellegrini senza casa, abbarbicati ai televisori e ai suoi molti canali. Del resto, vanno così le cose del mondo e di Roma. Il cinema ne coglie l’anima persino nella polvere delle teche in cui si pellicole si ossidano.

Nei pressi della Stazione Termini, davanti a Palazzo Massimo con le sue preziose antichità, a pochi metri dal Teatro dell’Opera, la Casa del Pellegrino, ovvero l’Albergo Diurno con le sue insegne impolverate e arrugginite, i vetri opachi dello sporco, la storia degli anni Cinquanta invecchia male e anzi è già morta. Ma un colpo di spugna su un film come quello di Risi e torna nuova, spandendo un profumo di nostalgia gentile e un poco acida.










 






 
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