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Italo Moscati

Parole in technicolor. Le "scritture" attraverso gli schermi

Data di pubblicazione su web 28/02/2007
L'uomo con la macchina da presa, di Dziga Vertov (1929)

Nel novembre 2006 si è tenuto a Milano un convegno dedicato alla Scrittura. Al convegno - cui hanno partecipato studiosi come Giovanni De Luna e scrittrici come Silvana La Spina - Italo Moscati ha tenuto una relazione dedicata alla trasversalità delle scritture che qui riportiamo.



Il tema che mi è stato affidato invita a parlare genericamente di "Scritture cinematografiche". Si tratta di un tema che fin dal titolo risulta in linea con le cose che ho fatto e sto facendo, dal cinema alla televisione, dal giornalismo alla radio. Ma va ben al di là. Molto al di là. Fa paura. E’ una bomba di calorie. In questo caso però la bulimia non la temo. Mi piace, mi stimola. Spero di trascinare chi ascolta e chi legge a tentare un cammino insieme. Non c’è da preoccuparsi: penso di saper prendere le precauzione necessarie per evitare conseguenze pericolose. La dieta controllata. Il peso lieve.

Parole in technicolor è un nuovo titolo per lo stesso tema. Se lo trasformo - e lo preferisco, tornando sull’argomento a distanza dall’occasione creata dalla Fondazione Mondatori - è perché mi sono accorto che devo fare una premessa per avvicinarmi con qualche speranza di suscitare interesse su un intreccio complesso, aperto a una infinità di importanti considerazioni. Per alleviare e alleviarmi qualche impaccio di fronte al compito che mi sono assunto, scelgo una strada "cinematografica". Mi propongo fin da principio come una sorta di Forrest Gump, il protagonista del film omonimo di Robert Zemeckis (1994), ovvero come una sorta di "idiota" che entra senza paura nella vita, un Candide, un "idiot savant" (si fa per dire) che, senza sapere (troppo), passa di storia in storia. Il modello in realtà sarebbe il principe Miskin, l’Idiota di Fedor Dostoevskij. Inarrivabile.

Quando sento pronunciare la parola "scritture" reagisco in modo personale, forse troppo, e voglio spiegare bene il perché. Da molti anni a questa parte, grazie alla concretezza dei lavori compiuti e attraverso le esperienze meditate, la parola "scritture" mi pare corrispondere sempre più a una parola "civetta" che viene usata come convenzione. Allo scopo di stabilire qualcosa di scritto, nero su bianco, che appartiene a un progetto creativo (ma anche non necessariamente non creativo) o alla sua realizzazione. Anche per un film, per uno show televisivo, un quiz, un talk show o un telegiornale o uno spot si dice volentieri la parola "scritture", e nessuno storce il naso. Figurarsi per l’eredità che riguarda sia il romanzo o il saggio, sia il teatro nelle sue varie forme di espressione. Siamo in un mondo in cui persino una "scaletta" qualunque per un qualunque set è considerata il frutto di "scritture" che vengono prima di un "copione" o di un "testo", e nessuno osa giudicarle come "scritture" subalterne (davvero?).

Questo è un punto decisivo. I dubbi in proposito sono andati via via scomparendo, lasciando una tale libertà per cui tutte le confusioni sono possibili e benvenute. Ciò non toglie che non continui lo sforzo per delimitare campi e settori, e anzi non riesca ad assumere il valore di provocazioni che potrebbero o dovrebbero portare chiarezza. Pensiamo alle discussioni o alle vere e proprie polemiche che alcuni critici organizzano appositamente per chiamare un romanzo un romanzo, un saggio un saggio, insomma per tenere distinti percorsi e obiettivi creativi. Salvo poi scoprire la sempre maggiore difficoltà di fissare criteri di separazione. Per fare un esempio recente, qui da noi, uno scrittore giovane come Roberto Saviano riesce a confondere le acque con Gomorra in cui il suo talento scavalca agilmente gli steccati e raggiunge risultati molto lodati, sia dai critici patentati che dai lettori.

Da Forrest Gump, ma meno "savant" di lui, penso a quanto è capitato a tutti coloro che hanno imparato a scrivere facendo le "aste" sul quaderno delle elementari e poi hanno continuato con le vocali e le consonanti, scoprendo, visualizzando le parole dopo averle ascoltate. E’ stato un esercizio di pazienza iniziato da segni simili a graffiti che poi, col tempo, e con l’affinamento delle tecniche didattiche, hanno lasciato il posto ad altre forme di apprendimento. Le "aste" non le ho mai dimenticate. Continuo a farle. La mia domanda, uscendo dal caso personale, è la seguente: ci hanno insegnato a farle, e poi a dimenticarle, ma se dopo di esse, le linee sul quadernetto, sono venute le parole e poi le frasi, cosa accade con le immagini? Qualcuno sa come si arriva alle immagini? C’è qualcosa che in qualche modo ha svolto o svolge la stessa funzione di quelle "aste" che propongo come sintomo di un avvicinamento alla costruzione di una scena, di una sequenza, di un gruppo di sequenze che formeranno le parti di un racconto per immagini?

Dopo avere ingerito negli anni quantità non numerabili di immagini ferme e in movimento, mi sono posto il problema (più tardi anche come docente universitario) di cercare nella concretezza della realizzazione di un documentario o di un mio film di fiction una risposta a quello che mi è parso e, mi appare ancora, il vero nucleo della questione. Ero approdato alle immagini del cinema e della tv disegnando, leggendo i fumetti, andando al cinema, frequentando le mostre, e così via. Affrontavo le immagini sulla base della storia dell’arte e della fotografia, del cinema e poi della televisione, ma anche dei manifesti pubblicitari, insomma di tutto ciò che era altra cosa rispetto alle "scritture" fatte di parole e di costruzioni con le parole. Empiricamente. E mi è capitato anche di considerare empiriche, nonostante gli sforzi, le ricerche degli studiosi prevalentemente di cinema che si sono dedicati a studiare le immagini, la loro grammatica, la loro sintassi. Queste ricerche hanno preso gran lena con la semiologia (collegata alla filmologia, scienza che nasce dalla influenza prepotente di oltre un secolo di lavoro del cinema) e ad esse hanno fatto ricorso tante persone interessate a definire le caratteristiche di linguaggi fondati su ciò che si vede, o meglio su ciò che si vede e si sente, ovvero i cosiddetti audiovisivi.

Audiovisivi. Parola e definizione generica caduta in disgrazia che per un certo periodo, con l’arrembaggio delle televisioni agli spazi della comunicazione, ha avuto una sua utilità. Ha ad esempio obbligato tutti gli osservatori, quelli meno sprovveduti, a fare i conti con le trame segrete e invisibili di strutture narrative e drammaturgiche non occultate dalle immagini, ma, caso mai, potenziate dalle immagini stesse e dalle loro inesplorate possibilità, possibilità senza fine, aggiungo, come accade per le note musicali. In questo senso, sono stati fatti passi avanti in questo senso e se siamo meno sprovveduti rispetto, diciamo, al mistero dell’immagine e delle immagini, delle logiche che le governano e governano i racconti di cui sono capaci e da cui siamo affascinati, lo dobbiamo tra gli altri - sono i primi nomi che mi vengono in mente - a Umberto Eco, Christian Metz, Pier Paolo Pasolini. Anche Pisolini, che da letterato passato al cinema con passione e voglia di imparare-insegnando, come dimostrano i suoi scritti in proposito, ha tentato di produrre teoria sulla scorta del suo navigare nell’arcipelago del cinema che amava e si collegava al suo bisogno di collegare la classicità della sua formazione culturale all’idea di realtà collegata al "suo" Marx e al "suo" Freud. Siamo di fronte a studi, a ricerche, a empirismi più o meno eretici, che hanno inciso profondamente nell’ambito degli studiosi, dei critici e delle generazioni che sono cresciute con loro o dopo di loro più che in quello dei creativi, degli artisti, dei comunicatori. Lo si può constatare oggi, soprattutto oggi perché quegli sforzi meritevoli, e comunque duraturi, sono entrati in circolo ma non hanno preso il posto per fortuna delle verifiche tecniche e drammaturgiche dei linguaggi sul piano artistico, creativo, realizzativo.

Riprendo il racconto del mio cammino. Se le immagini, nella loro varietà, mi sono venute incontro e anzi spesso io sono andato loro incontro, questo mondo visivo, questo mondo incredibilmente complesso e affascinante, l’ho sentito vivere per sedurmi dalle pagine dei libri. I libri più convenzionali dei ragazzi della mia epoca, Emilio Salgari, con le sue avventure (meno convenzionali di quanto si potesse pensare), si sono affiancati a libri della grande letteratura come i romanzi di Dostoevskij, Walter Scott, Dickens, Flaubert, pochi italiani (Svevo), e poi gli americani del Novecento, Steinbeck, Dreiser, Faulkner e altri. Non voglio fare un elenco, sciorinare i titoli che sono finiti nelle mie librerie o che sono andato a cercarmi nelle biblioteche. Vorrei soltanto accennare a quel che mi è capitato, sorprendentemente, andando per i sentieri delle parole. In questi sentieri ho sentito spalancare i miei occhi sugli scenari che gli autori mi presentavano. Scenari in bianco e nero come le pagine a stampa. Scenari che subito però diventavano colori. Technicolor anche quando questa tecnica era nettamente schiacciata dal bianco e nero del grande schermo. I colori dei libri sono fecondi perché la tavolozza ce la mette in mano lo scrittore e ci tiene la mano mentre riempiamo i contorni dei personaggi e dei paesaggi.

La letteratura mi ha aiutato con il cinema, e quindi il cinema mi ha aiutato con la letteratura e, insieme, con il teatro e le sue magie, con la televisione e i suoi pastiches fra informazione e spettacolo, persino con il suo "trash", appare più chiaro se esiste un deposito letterario o la controprova del cinema che vale, e c’è molto che vale nella sua non lunga storia di poco più che un secolo. Se interrogo la mia memoria, scopro cose che saltano fuori da sole. Ad esempio, nel cinema. Da ragazzo ci andavo tutti i giorni nel pomeriggio, a Milano, accompagnato da mia madre che era un’appassionata. Vedevo allora qualsiasi tipo di film in quelle sale, ampie e fumose, così come le ha immortalate Giuseppe Tornatore in Nuovo Cinema Paradiso. Una valanga di storie e di personaggi. E tre film, di getto, tornano dal passato, dal secondo dopoguerra quando mi ci sono imbattuto in ritardo negli anni Cinquanta: La carica dei Seicento di Michael Curtiz (1938) con Errol Flynn, Beau Geste di William W. Wellman (1939) con Gary Cooper, Le quattro piume di Zoltan Korda (1939). Due film in bianco e nero, il terzo a colori. Ai quali aggiungo anche Gunga Din di George Stevens (1939) con Cary Grant. Guerra di Crimea con il massacro dei cavalleggeri inglesi che vincono sull’onda dei versi di Alfred Tennyson; fortini nel deserto difesi dalla legione straniera o meglio dai suoi cadaveri infilati tra solo i merli del forte per ingannare le orde beduine; l’Africa a colori sfondo del riscatto di un ufficiale considerato codardo; e infine, l’India di Ruyard Kipling. Romanzi gonfi come hamburger ma digeribilissimi, leggeri come farfalle, nonostante le cariche, le cannonate, le insidie della giungla.

Dentro questi romanzi - dallo schermo della pagina al grande schermo - si infilarono uno dopo l’altro i cartoni animati di Walt Disney. A mio gusto, nella memoria, resistono due fra i molti che piacevano a tutti, tranne che ai critici: Fantasia (1940) e Bambi (1942). Cartoni simili e diversi. Fantasia arrivava a far la spia su un cinema americano che in nome dello spettacolo mostrava di avere capito fino in fondo la lezione delle avanguardie europee. Bambi aveva e ha la grazia di una favola in cui l’ecologia non arriva a correggere una storia "umana" di candore e di destino. Due capolavori. Vilipesi, ridimensionati. Da gran parte della critica italiana, Disney era considerato un volgare speculatore sullo stupore e sull’incanto infantile trasversale a tutte le età. Ci sono voluti più di sessant’anni per dare a Walt quel che era e che è di Walt: al Beaubourg gli hanno reso un omaggio che cancella prevenzioni e cattivi pensieri su un lavoro capace di tessere una gran varietà di risorse. La matita di un disegnatore si trasforma in pennello, in cinepresa, in colori che scattano con i ciak. La colonna sonora spazia dalla musica classica al ritmo della batteria jazz, ai primi segnali del rock. Qualcuno che lo aveva capito c’era: Giacomo Debenedetti, letterato, soggettista, sceneggiatore, giornalista. Lo aveva capito in quanto il detestato Walt era maestro nell’eclettismo e della duttilità creativa.

Anch’io,come migliaia di spettatori, subito dopo spalancai gli occhi sul cinema del neorealismo: Paisà di Roberto Rossellini che preferii a Roma città aperta e soprattutto Sciuscià e Ladri di biciclette del mio amato Vittorio De Sica. Il cinema si nutriva di quel che l’aveva preceduto, sia nelle scelte di nuovi autori e produttori, sia nelle scelte che il pubblico faceva sue e rilanciava, imponendone delle altre. Si viveva una grande stagione. Federico Fellini e Luchino Visconti con tanti loro film - del primo ricordo La dolce vita (1960), del secondo Senso (1954) e Rocco e i suoi fratelli (1960) - collegavano il neorealismo con il cinema del mondo, con un cinema più moderno. Dopo di loro verrà la commedia all’italiana dei Dino Risi, Mario Monicelli, Luigi Comencini ("incolpato" di avere fatto Pane, amore e fantasia e di avere ammorbidito con storie popolaresche le pellicole nate fra le macerie). La commedia all’italiana: una saga acuta, persino violenta dell’Italia del miracolo economico e di quel che la caratterizzava con l’arrivo dei modelli americani attraverso la televisione, gli elettrodomestici, la pubblicità.

Dopo la commedia all’italiana, i film di Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Glauber Rocha e poi Stanley Kubrick, Martin Scorsese…

Mi fermo qui. Cercavo i misteri, i segreti delle "scritture" in tutte le direzioni. Li cercavo anche nel teatro che non era più lo stesso di prima. Il cinema e poi la televisione gli avevano imposto un’altra luce. Giorgio Strehler sapeva illuminare William Shakespeare, Carlo Goldoni e Bertolt Brecht con i colori dei riflettori e i giochi delle gelatine. Senza gli uni e gli altri sarebbero stati altri Shakespeare, altri Goldoni, altri Brecht. Carmelo Bene sapeva illuminare i testi classici, i melodrammi ritrovati nella soffitta del teatro, farli a pezzi e poi farli rinascere; o creare le pagine di Nostra Signora dei Turchi facendo rivivere il deposito di immagini raccolti da tutti gli schermi o scene, anche le processioni pagane del Sud. Julian Beck con Judith Malina, con il loro Living Theatre, o Robert Wilson con il suo teatro immagine, sapevano andare anche oltre l’illuminazione e proponevano qualcosa di tangibile e insieme di surreale che veniva dalle arti visive, dagli artisti che il cinema aveva provocato obbligandoli a reinventare con la fisicità, negli spazi obbligati dei teatri o degli esterni trasformati in teatri o in arene cinematografiche naturali.

Il bianco e il nero, dunque, quello delle parole sulla pagina e quello delle immagini sul lenzuolo bianco nella sala buia, sono stati i primi colori che mi hanno portato ad amare le "scritture", tutte le "scritture" e a cercare dentro di esse i percorsi dove mettere, o restituire, quel che esse mi avevano suggerito, possibilmente aggiungendo qualcosa, andando avanti, tornando indietro, andando ancora avanti. Un processo creativo in cui si ritrova il senso di una ricerca iniziata dalla pagina, continuata durante le riprese, approdata nel luogo dove si tirano tutte le somme.

Piccola parentesi. Chi conosce il lavoro alla moviola del cinema, con la pellicola che viene spostata centinaia di volte per dare senso compiuto alle riprese delle immagini (cosa che avviene anche con le moderne tecniche digitali), sa che i segreti delle "scritture" si svelano e si creano nelle alchimie dei montaggi e delle scelte visive e sonore prima di "stampare" il racconto definitivo. Ma anche chi non lo sa, lo intuisce, o addirittura lo ha appreso o apprende semplicemente diventando – come siamo ormai diventati tutti - spettatori di professione.

Chiusa parentesi. Penso che, avendo raccontato in breve le cose compiute, posso ritrovare un filo connettivo in un percorso fatto di tanti percorsi.

Gli esempi in questo senso sono riconducibili ai libri, ai film, ai programmi radio e tv che ho fatto. Dalle storie di personaggi del cinema e della musica (Anna Magnani, Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini, Wolfi e Nannerl Mozart…) alle storie messe in pellicole o in nastro magnetico (i divi di Hollywood e di Cinecittà in Stelle in fiamme, Osvaldo Valenti e Luisa in Gioco perverso…), alle storie trasferite nel linguaggio radiofonico (La storia in giallo, Il ritorno di Belfagor sono imprevedibili, senza fine, gli uni rimandano ad altri, e poi ad altri ancora, ogni giorno scoprendo qualcosa di nuovo. Un processo che, per darne una consistenza figurativa, assomiglia a un lungo cannocchiale da marina fatto di tanti segmenti. Ovvero, lo schermo della pagina si dissolve dal libro alla sceneggiatura, da questi schermi nero su bianco passano al grande schermo del cinema, quindi al piccolo schermo della tv, e ora allo schermo del computer che ospiterà presto, definitivamente (?) gli altri schermi. Anche se non ci sarà da preoccuparsi. Lo schermo della pagina non muore e lì si ritorna, sempre. Il cinema sarà meno leggendario, seducente, persino delirante di quello che era un tempo. La sala buia ha ceduto al salotto, anzi a tutti i luoghi domiciliari dove si sono infilati i televisori (che raggiungono gli aerei e i taxi, e così via). I salotti o gli abitacoli saranno comunque meno pragmatici e ovvi degli schermi del computer? I dvd saranno sostituiti dalla "pennetta" che digerisce in poco spazio parole e immagini? Tutto diventerà ancora più piccolo.

Ma la pagina sarà sempre grande.

Chi lo ha capito molto bene da tempo sono John Gardner che ha proposto con Il mestiere di scrivere qualcosa di più di un manuale, e Robert McKee che con Story riprende Gardner e lo cala nelle immagini. Ne parlo spesso con i miei studenti e dove posso, in situazioni come quella creata dalla Fondazione. Ma aggiungo che senza imparare le "aste" non si va avanti. Le parole non diventano né bianco e nero, né technicolor. Lo strumento c’è. Vi ho fatto cenno: la moviola, l’Avid, gli schermi dove precipita e si mette in ordine il mondo delle immagini. "Aste" che non si fanno una volta per tutte. Le ricominci ogni volta da capo. Il montaggio è la prova del nove su quel che sai e su quel che devi ancora sapere. Ieri il montaggio era sacrale, chiuso in laboratorio colmi di pellicole e di polvere mistica di creatività; oggi è un lindo, quando è lindo, spazio di alchimisti che giocano (lavorano) con i dischi e in pochi secondi puoi creare una sequenza.

Wim Wenders ha detto qualche tempo fa che attende il momento in cui potrà sedersi davanti a un Avid come ci si siede davanti a un pianoforte. Spingi i tasti e crei la tua pagina, di immagini e di musica e naturalmente di parole in technicolor.

Il momento è arrivato. Quasi.









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