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Edgar Reitz

Film e tempo. Lectio magistralis di Edgar Reitz all'Università di Perugia

Data di pubblicazione su web 07/02/2007
Edgar Reitz
Pubblichiamo il testo integrale, biligue, della lectio magistralis che Edgar Reitz ha tenuto a Perugia il 6 dicembre 2006 in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Storia, Filologia e Analisi del testo letterario, intitolata "Film und Zeit" ("Film e tempo").

Film e tempo.
Lectio magistralis

Il raccontare storie, nella terra della mia infanzia, lo Hunsrück, appartiene a una grande tradizione popolare. Nella popolazione, in prevalenza contadina, le stagioni hanno un ruolo significativo anche per l’arte del narrare. In autunno inoltrato e nelle buie sere d’inverno, nei villaggi fioriscono racconti. Parlano di uomini che si conoscono, di abitanti dei villaggi vicini, di familiari, di luoghi e tempi che tutti, gli ascoltatori così come i narratori, conoscono perfettamente. Nei miei anni di gioventù ce n’erano quasi in ogni villaggio di questi uomini e donne che volentieri esibivano il loro talento narrativo nelle locande, sulla strada oppure durante le feste di famiglia. Trovavano sempre una cerchia di ascoltatori attenti, e non di rado venivano tenuti in gran considerazione per il loro talento. Anche il mio nonno di parte materna era un narratore dello Hunsrück di questo tipo. Quando entrava nella locanda i discorsi cessavano, e gli avventori ascoltavano con attenzione la sua voce sonora, con cui declamava i suoi racconti che spesso inventava solo nel momento della narrazione. Puntualmente concludeva queste storie macabre o di spettri, che trattavano di disgrazie, malattie, di una ricchezza improvvisa oppure di una segreta vendetta rimarcando, e ciò "poteva giurarlo solennemente sette volte", che tutto era vero e si era svolto precisamente così come l’aveva riferito. Fa parte dello stile di questi "pezzi", come vengono chiamate nel dialetto regionale dello Hunsrück questo tipo di storie, che le persone e il luogo dell’azione siano del tutto conosciuti. In questo modo nasce l’impressione che si possa in ogni momento verificare nella realtà l’autenticità del racconto.

Ogni volta che, nella mia vita di regista, ho riflettuto sul raccontare e mi sono chiesto in cosa consista il principio narrativo, mi è venuto in mente mio nonno. Lui non aveva una teoria per la sua arte del narrare e tuttavia era fermo nei suoi principi: i luoghi dell’azione dovevano essere reali e non potevano essere modificati. Anche i protagonisti dei suoi racconti avanzavano la pretesa di essere vissuti davvero. Le storie di mio nonno di solito cominciavano così: "Voi di certo conoscete la grande quercia secolare che sta all’uscita del paese, subito a sinistra, vicino al binario della ferrovia…" (mormorio generale di approvazione!) "Quindi conoscete di sicuro anche Hans il grasso, l’oste del paese Y che l’anno passato è morto così atrocemente…?" (Di nuovo un mormorio generale di approvazione perché tutti avevano conosciuto Hans il grasso). "Allora vi voglio raccontare che stamattina presto, mentre andavo a lavorare, mi sono imbattuto nel morto, vicino alla vecchia quercia…" Questo tipo di introduzione poteva essere variato in centinaia di maniere, con luoghi, segnavie, edifici che cambiavano e sempre nuove persone, morte o viventi. In tal modo l’avvio del racconto era già al cento per cento una ricetta di successo. Da nessun modello, né della letteratura né della storia del cinema, ho imparato così tanto sul narrare come da mio nonno. (Lavorò 40 anni nella ferrovia e morì quando avevo 14 anni).

Un giorno, mentre facevo una passeggiata per i campi con mio nonno – avevo appena compiuto sette anni e superato una grave malattia – ci avvicinammo al campanile del villaggio di Bischofsdhron. In modo sempre più chiaro potevamo riconoscere l’iscrizione sotto l’orologio del campanile, che dovetti leggere a mio nonno:

                                   UNA DI QUESTE SARÀ TUA.

Che significava questa frase enigmatica? Dalla sua collocazione sotto l’orologio era da intendere che si riferiva all’ora della morte, che per ognuno un giorno sarebbe stata indicata sul quadrante. "L’orologio guarda verso il futuro", diceva mio nonno, "esso sa che tutto ciò che accade nel mondo ha la sua ora." Questa esperienza io la custodii nel fondo della mia anima, perché ero il figlio di un orologiaio. La casa dei miei genitori era stipata di orologi. In tutte le stanze si sentiva il ticchettio di centinaia di orologi. In molteplici ritmi e interferenze era scandito il tempo che trascorrevo nella casa dei miei genitori nello Hunsrück.

Cominciai a riflettere sull’orologio. Quando osservavo molto attentamente le lancette mi sembrava che stessero ferme. Il tempo si arrestava solo perché io guardavo in modo così preciso? Verificai il fenomeno in altri campi. Provai a vedere come cresce un bambino o un cespo d’insalata in giardino. Anche in quel caso il tempo si fermava non appena guardavo. Nessuno era in grado di vedere come un panino diventa raffermo o un capello grigio. Io potevo vedere solo i movimenti più veloci: come la gente va in giro, come le auto viaggiano, come le nuvole avanzano. Ma quelli velocissimi, come ad esempio il passaggio di un proiettile, ancora una volta non ero capace di vederli. Scoprii che non possiamo vedere neanche il tempo stesso. Lo possiamo un po’ avvertire, ma anche questo dipende molto dalle nostre condizioni e non è certo. Il tempo è invisibile, invisibile come la vita stessa. Forse tempo e vita sono la stessa medesima cosa, pensavo. "Quando nasciamo entriamo nel tempo, e la morte è quando lo lasciamo?" Mi rattristai nei miei pensieri: "Ma il presente cos’è davvero? Noi ci lasciamo dietro ogni secondo di ciò che chiamiamo il presente. Tutto ciò che tocchiamo, che vediamo, che amiamo e desideriamo viene divorato in ogni istante dal flusso del tempo. Ciò mi rendeva triste. Un ininterrotto accomiatarsi, l’incessante morte a rate. Le ore sul grande quadrante dell’orologio del campanile della chiesa di Bischofsdhron significavano per me, il bambino di sette anni, la somma di tutte le ore della morte.

In età adulta non si osa più porre domande così capitali come quelle che facevo a mio nonno: "Cos’è la vita?" Ma persino a questa domanda enorme lui in quei giorni mi diede una risposta che mi sono fissato nella memoria: "La vita è una storia. Si devono raccontare storie, allora la gente sente la vita. Gli istanti, che fuggono sempre via, rimangono insieme in una storia. E quando uno compare in una storia allora il tempo non gli può più nuocere." "E cosa succede se tu, nel raccontare, metti insieme i vari momenti in modo sbagliato oppure racconti storie inventate?" chiesi, perché sapevo che i racconti di mio nonno consistevano di sette spergiuri moltiplicati per mille volte. "Non fa niente, non conta la verità, ma che la tua storia sia una buona storia. Deve essere così accurata che potrebbe essere anche vera." È risaputo che i bambini non smettono mai di fare domande e pertanto volevo ancora sapere se si può predire ciò che un uomo farà in futuro. Allora mio nonno – Dio l’abbia in gloria! – disse: "Se io sapessi come finisce una storia non avrei più necessità di raccontarla. Guarda attentamente la gente, perché tu non sai mai di cosa crederla capace e neppure di cosa credere capace te stesso." Ciò mi turbò notevolmente ed ebbi paura di alcuni uomini.

Molti anni più tardi, quando iniziai a fare film, il mio interesse principale si volse al tempo. Sin dall’inizio diventò il mio tema. Nei primi cortometraggi si trattava dei tempi di una rovina (in Destino di un’opera), dell’ebbrezza della dissipazione del tempo (in Velocità), di un viaggio nel tempo nel mondo dei Maya (in Yucatan). Anche la trilogia di Heimat, che mi ha impegnato per più di 25 anni, va alla ricerca del tempo perduto e descrive quattro generazioni di una famiglia dello Hunsrück. Mi era balzato all’occhio che la maggior parte dei film, in un modo o nell’altro, si confrontava con il tema del tempo. Il motivo mi sembra che sia profondamente legato al narrare storie, ma anche alla tecnica del film.

Lo strumento più importante del regista è la cinepresa. Con la sua invenzione, l’umanità si è dotata di un mezzo con il quale possiamo riprendere il tempo. La fotografia, la cui invenzione precedette quella della cinematografia, creò i presupposti per questo. Con la macchina da presa si riuscì a fare un balzo in una nuova forma di esistenza. Diventammo dei dominatori del tempo e della memoria. D’un tratto potevamo conservare delle sequenze di immagini della vita degli uomini estremamente realistiche, trasportarle in altri luoghi, ripeterle più volte a piacere, travasarle in altri contesti. Con esse si poteva davvero raccontare storie, come in precedenza avevano fatto solo la letteratura e la mitologia popolare. Anzi, imparavamo a narrare con frammenti di tempo reali, ciò che la letteratura fino ad allora poteva realizzare solo in modo incompleto. Il film fu fin dall’inizio un modificatore del mondo.

Quando accendiamo la macchina da presa, accade qualcosa di magico: produciamo un duplicato delle cose, degli uomini, insieme con l’illuminazione unica, i gesti e le parole irripetibili, in un tempo assolutamente definito. Una ripresa cinematografica è una copia degli avvenimenti nel loro tempo. Il film rappresenta qualcosa di trascorso che è irrimediabilmente perduto nella forma del presente. Ciò che per sua natura può verificarsi una sola volta, è diventato ripetibile senza perdere il suo carattere di presente. Ogni opera cinematografica è pertanto un unicum. Ma questo unicum può essere copiato e moltiplicato. Ogni ripresa cinematografica è irripetibile nella sua genesi, ma è ciononostante proiettabile ogni volta che lo vogliamo come fosse l’originale.

Nelle produzioni di lungometraggi, accade spesso che delle scene vengano ripetute dozzine di volte davanti alla cinepresa. Gli attori, i tecnici, gli addetti alla macchina da presa eseguono continuamente gli stessi – o, per meglio dire, simili – movimenti, si affannano dietro una certa espressione che vogliono ottenere, cercano di ottimizzare la ripresa – ma alla fine è il regista che si decide a favore di una. Questa è la testimonianza di un felice o infelice affiatamento di tutte le persone e le cose coinvolte, in un tempo precisamente definito (una volta sola, in un certo giorno d’estate del 1996, Emily Watson interpretò l’indimenticabile scena della deflorazione in Breaking Waves di Lars von Trier. Una sola volta Giulietta Masina riuscì a interpretare la scena d’amore con Antony Quinn, nel modo in cui questo momento di La strada ci è rimasto per sempre nella memoria.) Quando i componenti di una troupe cinematografica, nel momento in cui hanno terminato un giorno di riprese oppure una produzione, si separano, sanno che nel film hanno lasciato pezzi della loro vita. Un attore, che nel corso della sua vita ha interpretato molti ruoli, percepisce che ha lasciato nel film le sue diverse età, le sue condizioni fisiche e interiori, che è morto più volte in una serie di storie cinematografiche. Quando stiamo seduti al cinema non siamo messi a confronto con una accadere che si verifica "qui e ora", bensì veniamo afferrati da altri tempi, tempi che sono passati da molto. Avvertiamo la presenza personale degli interpreti in luoghi e tempi lontani. Diventiamo dei contemporanei di una storia che si svolge al di fuori del nostro presente. Può così accadere che persone morte da lungo tempo, come James Dean o Gérard Philipe, Marilyn Monroe o Romy Schneider ci commuovano fino alle lacrime, che la loro deliziosa giovinezza ci soggioghi, che viviamo la loro lontana presenza come un’entrata in scena attuale e siamo pronti ad amarle oltre la morte. Il cinema è la prima macchina del tempo che davvero funzioni.

Una ripresa cinematografica si differenzia sostanzialmente da una fotografia. Non si tratta soltanto della riproduzione delle superfici e dei loro movimenti, di cui è capace la cinepresa. No, riguarda la conservazione e la riproduzione del tempo, nella misura in cui esso trascorre nell’apparire delle cose e degli uomini. Il tempo non è solo sulla superficie, ma in profondità nelle cose. Supponiamo di filmare una pietra pesante e immobile. Non c’è nemmeno un filo d’erba nelle vicinanze che si possa muovere al vento; nessuna ombra proiettata dalle nuvole che scorra sopra. Quindi è semplicemente una pietra. Anche senza un movimento visibile, la ripresa cinematografica mostra un frammento della realtà temporale della pietra, documenta un periodo della sua esistenza, ciò che la fotografia non potrebbe fare. (È quindi per me inconcepibile che dei registi talvolta pensino che una fotografia, oppure un singolo frame, possa sostituire la ripresa cinematografica mancante di un oggetto immobile. Sono ridicole le riprese nelle quali un attore deve rappresentare un cadavere, che nei primissimi piani non respira solo per il fatto che si è inserita una foto da fermo).

Nel corso degli anni ho sempre tentato di comprendere il funzionamento della cinepresa. Non si tratta solo di utilizzare la sua funzione di macchina del tempo, ma riguarda la domanda su cosa sia il segreto dell’arte del raccontare con i film. Il motivo principale – come per ogni attività artistica - è di conferire durata alle cose fuggevoli. Cosa sarebbe più fuggevole della vita stessa e della nostra percezione diretta del mondo? Ma le nostre percezioni del mondo sono ricoperte dalle nostre idee. Noi percepiamo il mondo solo nel modo in cui deve essere, secondo l’opinione comunemente accettata. Persino la memoria soggiace a questa regola. La memoria è un compromesso fra regola e vissuto. Quando più persone riportano come si è svolto un incidente d’auto, ogni testimone racconta la sua storia, nel modo in cui egli crede si siano verificate le cose. Essi subordinano la realtà alla loro teoria. La percezione è in questo un’ipotesi sulla realtà e niente più. La percezione è da considerare soggettiva. Ogni essere umano percepisce il suo ambiente in modo diverso, ognuno vive per così dire nel "suo mondo", ha altre opinioni e idee di ciò che è giusto, sbagliato, vero o falso. A tale riguardo l’opinione del nonno sulla realtà e irrealtà nei racconti è l’unica giusta: il raccontare non è storiografia, né la conservazione museale delle nostre esperienze di vita, bensì l’ideazione di una nuova logica della memoria. Tutto ciò che ci troviamo davanti nella realtà della vita e che conserviamo nella nostra memoria, questo cumulo di cocci fatto di impressioni, inganni, immagini, situazioni, conflitti o momenti fuggevoli, può essere ripreso con la cinepresa e nel montaggio del film viene combinato in una nuova storia. La nostra memoria funziona allo stesso modo. Quando rimettiamo di nuovo insieme i frammenti delle nostre esperienze nasce ciò che chiamiamo la nostra biografia. Essa è altrettanto fittizia quanto un racconto cinematografico, ma ci dà la sensazione di vivere una vita continua. La logica della narrazione rappresenta un nuovo sistema che mette i frammenti dei nostri ricordi e percezioni al riparo dal tempo. Nel momento in cui gli innumerevoli e disordinati momenti della vita sono stati ricomposti come elementi di una storia, essi non possono più essere distrutti con facilità dal flusso del tempo.

Lo studio della cinepresa conduce anche a nuovi problemi narrativi cruciali. Quanto più fuggevole è un evento, un’illuminazione, una parola, un sentimento, tanto più affascinante è dirigervi la macchina da presa e raccontare una storia del "trascorrere". Raccontare la storia dei secondi, questo è l’effettivo campo d’azione dell’arte cinematografica. È uno degli aspetti della storia del cinema che da sempre ha affascinato, il fatto che con l’ausilio della macchina da presa si possano conservare ed evidenziare nei primissimi piani persino i movimenti veloci o più piccoli. Col narrare possiamo rendere ripetibile il tempo, che altrimenti è appena percepibile, e appropriarcene. Quanto prezioso e irrimediabilmente perduto sia ogni secondo della nostra vita, solo un film ce lo può mettere davanti agli occhi. Solo nel momento in cui qualcuno ci ha raccontato la nostra storia, come la storia del nostro battito del cuore, sappiamo chi siamo. In tal modo il narrare è anche un viaggio di esplorazione nelle profondità della vita, e dove ci si potrebbe meglio equipaggiare per queste spedizioni se non nelle solite strade commerciali della cosiddetta quotidianità? L’autore del film diviene lo scopritore di innumerevoli segreti che si sottraggono al consenso quotidiano. Lui non abbisogna di nessun mistero artificioso per trovare la vita interessante, giacché la cinepresa gli svela infiniti segreti che in precedenza non potevamo afferrare.

La macchina da presa ci insegna però a capire anche altre leggi del narrare. Essa può accelerare il tempo, può rallentarlo, può persino capovolgerlo e, con l’ausilio del montaggio, possiamo spezzettare il continuum temporale. Siamo in grado di rendere visibili processi che, nella osservazione naturale, si negano all’occhio: la crescita di piante e di esseri umani, cambiamenti nelle nostre città, l’anatomia di un incidente, o il volo di un proiettile letale, tutte queste diverse velocità, che da bambino mi hanno reso il mondo così incomprensibile, posso renderle visibili con la cinepresa ed elevarle a elementi delle mie storie. Possiamo ritornare ai punti di partenza e riportare in vita un animale morto. La macchina da presa può liberarsi dai limiti della percezione umana del tempo e ci mette nelle condizioni di intraprendere un viaggio di esplorazione all’interno del tempo. Il tempo si dimostra come qualcosa che è più della sola causalità – subordinato al principio della causa e dell’effetto. Diverse sue qualità indicano che possiede una propria forma, e lo spazio-tempo, di cui parlano i fisici, è piegato in sé come una struttura indivisibile e collegata. Per coloro i quali considerano spazio e tempo come due differenti dimensioni ciò significherebbe che lo spazio si piega nel tempo! E, proprio per questa incurvatura, anche la storia apparentemente più rettilinea procede su una strada curva e ha la tendenza a tornare al suo punto d’inizio (Questa forma ellittica, nella quale inizio e fine si incontrano, è, fra le grandi forme drammatiche, quella che più frequentemente incontriamo nei film.) Il tempo lineare e cronologico è, nella prospettiva di un regista, solo un’invenzione per avere una spiegazione del fatto che un avvenimento segua ad un altro; ciò significa che il concetto di cronologia è dipendente dalla causalità, non dal tempo. Io condivido l’idea del tempo come dimensione autonoma in un universo pluridimensionale. Il modo in cui ci si manifesta (in rallentamenti e accelerazioni, nelle capriole più strane che possono essere osservate con la macchina da presa) sembra costituire inoltre una necessità per rendere possibile, prima di tutto, la vita. Abbiamo imparato, con l’aiuto della telecamera, un nuova concezione di tempo e spazio, e possiamo impiegarla nel raccontare storie cinematografiche, per capire meglio la vita.

Si tramanda la citazione di Charlie Chaplin: "Il mio unico nemico è il tempo". Presumibilmente con ciò intendeva dire che il tempo di solito lavora contro di noi, contrasta i nostri piani, manda a monte i progetti e pone un limite alla felicità di ognuno. L’arte cinematografica è figlia della tecnica e il prodotto di un mondo senza Dio. Quindi non ci sono speranze oltre il tempo. Che Chaplin si dichiari nemico del tempo è una dichiarazione profondamente atea. Comprendo l’eccitazione: visto che viviamo nel secolo che ci ha regalato la macchina del tempo, allora vogliamo anche utilizzarla per strappare al flusso del tempo pezzi del suo bottino. Proprio in quanto uomini non religiosi, noi registi vogliamo lasciare le nostre tracce nell’universo-tempo, vogliamo conferire durata agli istanti della vita. "Verweile doch, du bist so schön" si dice con struggente desiderio nel Faust di Goethe. Ma il film non può "rimanere". La macchina deve procedere. Il principio meccanico è l’anima del cinema. L’autore del film lo sa, e sente che una storia è adatta per il film quando questa meccanicità le aderisce, quando non tollera nessuna interruzione o indugio. Quando la pellicola si strappa o la macchina di proiezione si ferma tutto è rovinato. Talvolta sembra come se avessimo la fortuna di poter contrapporre a una vita inarrestabile un’opera altrettanto inarrestabile, che si libera dalla forza della natura. Allora si riesce a trasformare il tempo della vita nel tempo del film.

Il tempo cinematografico è il principio musicale nella nostra arte. Creiamo un sistema peculiare nel suo genere, in cui valgono solo le nostre leggi. La durata di una scena, il ritmo degli stacchi, la lunghezza di un percorso, di sguardi, dialoghi, reazioni, oppure il tempo della recitazione dell’attore, tutto questo lo possiamo dominare e plasmare liberamente. "Timing" è un concetto amato tra la gente di cinema, poiché all’interno del nostro sistema possiamo essere degli dei che si librano sopra i personaggi. Siamo noi che misuriamo il loro tempo e che prediciamo dove conducono le loro strade. Questa libertà è paragonabile solo a quella della musica. Il montaggio cinematografico congiunge azioni e sviluppo di personaggi, li accatasta, li contrappone e li porta così a "suonare". Al pari della musica il film può far nascere dei quadri generali, può muoversi dal particolare al generale e fondere le storie che raccontiamo in un elemento di un grande affresco universale. L’opera cinematografica lavora con il suo proprio sistema temporale. I quadri originari di un’epoca sono contenuti in esso e cedono all’opera completa la loro energia individuale. Film e musica sono fratelli.

Il sogno di controllare il mondo, che si avverte agli inizi della storia del cinema, si è trasformato, con l’invenzione della foto digitale, nell’ebbrezza del raccogliere. Invece di godere di un viaggio, ne vengono filmati i momenti culminanti e aggiunti alle raccolte filmiche della vita intera. I video sono i bottini immateriali delle nostre scorrerie attraverso il tempo della vita che è determinato dal consumo. Sembra che abbiamo ancora una volta tra le mani un nuovo mezzo magico per il controllo dello spazio e del tempo. Sembra che non siano posti limiti ai media digitali. Le immagini digitali non hanno nessuna gravitazione, non condividono il destino delle persone riprese. Ogni tipo d’intervento è possibile per liberare le immagini digitali dalla loro aderenza alle leggi della natura. Decisivo è il fatto che per le immagini digitali non esiste più alcun originale. Si possono moltiplicare a piacere, e la legge dell’entropia sembra essere abolita, visto che tutte le copie contengono le stesse informazioni. Ciò permette la combinazione di molte generazioni d’immagini in nuove creazioni che non conoscono limiti. Con facilità possiamo fondere più sequenze di immagini una nell’altra, manipolare luoghi e tempi e scambiare persone l’una con l’altra. Il film digitale si avvicina all’arte figurativa. Anche le immagini digitali sono prodotte prevalentemente con cineprese, che vengono accese in determinati momenti, ma non sono più legate al momento della loro nascita. Anche i film digitali descrivono movimenti, cambiamenti, sviluppi, causalità. Anche i film digitali possono raccontare storie. Ma queste storie non si svolgono più in luoghi reali e non rappresentano più uomini reali. Perciò anche la morte digitale non è più irreversibile. È sufficiente premere un tasto per dare ai personaggi una seconda o terza vita. Hanno perso ogni pesantezza terrena e affascinano per la libertà della loro esistenza. Il cinema del futuro sarà digitale. Agli spettatori verrà trasmessa l’impressione che abbiamo completamente risolto il problema del tempo. Il film digitale è allegro.

Fin quando la cinepresa è stata uno strumento raro e costoso, essa si trovava nelle mani di registi professionali, che non cessavano di impiegare questo attrezzo per l’esplorazione del mondo e dell’esistenza umana. La tecnica digitale ha nel frattempo reso possibile che ci siano milioni di cineprese nel mondo, e sulla terra non accade praticamente più nulla che non venga filmato. Le cineprese sono onnipresenti e pare che abbiano ricacciato la realtà originaria completamente in secondo piano. Le immagini filmiche sostituiscono ampi settori della vita sociale. Non esiste più nessun altra gente che quella delle immagini in movimento dei media. Ciò che non si filma non sembra più far parte del reale. Tutto si accalca davanti all’obiettivo della cinepresa, come se questo fosse l’unica strada nella vita. Avvenimenti storici diventano realtà, come abbiamo visto per l’11 settembre 2001, solo nella forma delle loro immagini filmate. C’è un’inflazione di immagini filmiche; si diffondono come una pandemia. La ricerca del tempo perduto, come Proust la iniziò all’epoca dell’invenzione del cinematografo, è arrivata al capolinea. Le immagini digitali non hanno, come una volta Charlie Chaplin, il tempo come nemico, ma sono le sue compagne di giochi. È questo un nuovo gioco con la morte, poiché già si prevede che i flussi di dati, in cui consistono tutte le immagini digitali, possano facilmente scomparire come uno spettro. Le immagini digitali scompaiono del tutto e senza lasciar traccia. Non lasciano alcuna scatola vuota e neppure un mucchietto di cenere.

Ho imparato tempo fa a fare film come figlio di un orologiaio. Per questo il mio credere nel film è plasmato dalla meccanica della misurazione del tempo. Nel cinema vedo una macchina del tempo, con la quale possiamo andare dietro alle nostre memorie per raccoglierle e averne saldo possesso. Così incontriamo la seconda motivazione profonda del fare film, il principio del nonno, che da ultimo vorrei ripetere: "Dobbiamo raccontare le storie del passato affinché la nostra vita non sparisca nelle fessure del tempo."

Triplice è il passo del tempo;
con passo indugiante giunge il futuro,
rapido come dardo è l’adesso svanito,
eternamente immoto sta il passato.
Nessuna impazienza rende alato
il suo passo, quando si sofferma,
nessun timore, nessun dubbio imbriglia
la sua corsa, quando fugge.
Nessun pentimento, nessuna magica benedizione
può muovere l’immobile.
Se vuoi colmo di gioia e saggio
terminare il viaggio della vita,
prendi l’indugiante come consigliere,
non come strumento della tua azione.
Non scegliere come amico il fuggevole,
né l’immoto come nemico.

(Friedrich Schiller, Sentenze di Confucio 1)

                                          
                                     Traduzione italiana di Alfredo Ramazzotti



© 2006 ER 23. Oktober 2006



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