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Franco Vazzoler

Riscrivere la Commedia dell'arte. Il ritorno di Scaramouche di Leo De Berardinis

Data di pubblicazione su web 08/01/2007
Leo De Berardinis
Relazione letta da Franco Vazzoler al convegno Varietà dell'italiano nel teatro contemporaneo (Scuola normale Superiore di Pisa, 11 dicembre 2006), coordinato da Stefania Stefanelli, a cui hanno partecipato studiosi di teatro, di letteratura teatrale, di storia della lingua ed autori: Ugo Chiti, Gabriella Alfieri, Pietro Trifone, Paolo D’Achille, Anna Barsotti, Claudio Giovanardi, Francesco Niccolini, Spiro Scimone, Teresa Megale.

«Non siamo in pochi a subire il fascino dell'attore comico, anche quando non l'abbiamo mai visto, anche quando è scomparso da anni, da decenni. In un momento della nostra vita, figlio della nostra malinconia, egli diventa una delle tante incarnazioni di Yorick. Oggi è silenzio intorno all'attore napoletano Tiberio Fiorilli, maestro di Molière e che fu famoso in Italia e nella Francia del Seicento sotto il nome della sua maschera, Scaramuccia. Era, come Yorick, persona d'infinita arguzia e di straordinaria agilità e fantasia».

Queste parole di Giovanni Macchia, che aprono un saggio del 1974, Il silenzio dell’attore, diventato poi il primo capitolo di Il silenzio di Molière [1], possono ben riassumere almeno parte delle attese del pubblico di fronte allo spettacolo di Leo De Berardinis (ed oggi per noi, quando pensiamo a Leo, dànno una particolare emozione) e più in generale di fronte ad ogni spettacolo che in qualche modo evochi un teatro scomparso.

L'attore e la morte sono, d'altra parte, i due poli ideali entro cui Il ritorno di Scaramouche si pone, sia alla semplice lettura del testo, sia se pensiamo alle immagini che le fotografie ci restituiscono. Una in particolare, quella scelta per la copertina del Patalogo n. 18 (annuario 1995) che rappresenta la lotta fra la vitalità (non solo comica) del teatro (Donna Evira, Francesca Mazza, vestita di rosso) e la Morte (Elena Bucci, in nero).

Dal punto di vista del suo autore (e del pubblico più legato a lui) lo spettacolo del 1995 può essere, invece, considerato anche una «guittesca autobiografia teatrale» [2], o «come la silloge della sua idea di teatro» [3].

È uno degli ultimi spettacolo di Leo e rappresenta – anche se in mezzo ci sono altri spettacoli – come il completamento di un'ideale trilogia cominciata con Ha da passà 'a nuttata (1989) e Totò principe di Danimarca (1990), due spettacoli che a loro volta tiravano i fili di un percorso di riscritture, di citazioni, di riuso di materiali drammaturgici ricavati dalla tradizione del teatro. In quel caso Eduardo (una lunga serie di occasioni), Shakespeare (un attraversamento costante nel teatro di Leo, vera e propria strada maestra) e Totò (punto di riferimento simbolico, ma simbolo vivente sulla scena attraverso l'appropriazione che Leo ne ha sempre fatto). L'ossimoro del titolo di Totò principe di Danimarca ci fa capire anche come della tradizione Leo recuperi e rivitalizzi tutto, alto e basso, sublime e degradato, nel gioco del contrasto grottesco, come già avveniva – e quindi su una linea di continuità con se stesso – fin da 'O zappatore (1972) e King lacreme napulitane (1973).

Il concetto di riuso mi pare la categoria più pertinente per definire una pratica drammaturgica che, assunta nella dimensione della ricerca e della "sperimentazione", instaura un rapporto non ripetitivo, ma vitale con la tradizione. Tanto più che Leo, come gran parte del teatro del dopoguerra abolisce la categoria convenzionale della "messa in scena" di un testo, tipica del teatro-museo, e si pone rispetto a questa non solo in termini di diversità, ma di reale opposizione.

Ma nel caso di Leo, poi, il "riuso" ha anche un altro valore, rispetto al complesso del proprio stesso teatro: il ritornare su certi autori (Shakespeare, Eduardo), su certi testi (Filumena Marturano, Amleto, King Lear), su certe figure (Totò, Pulcinella) crea non solo una continuità di discorso, ma un progressivo ripensamento sul fare (e sul farsi del) teatro. Ne è simbolo più evidente l'abitudine di cominciare il nuovo spettacolo dall'ultima scena del precedente.

Con il Ritorno... tutto questo viene a concretizzarsi nel ricorso all'immaginario della Commedia dell'arte.

Un ruolo non secondario, nella creazione di Il ritorno... ha il rapporto con gli studiosi (Meldolesi e Taviani) e con Eugenio Allegri in un seminario preparatorio tenuto al Teatro Novelli di Rimini, sentito come bisogno di confronto e di «riflessione collettiva» e approdato, come scrive Leo stesso, in una reinvenzione delle maschere «fuori da ogni possibile ed impossibile filologia» [4]. E certo nel Ritorno di Scaramouche confluiscono anche altre suggestioni legate in qualche modo ad una idea della Commedia dell'arte: le avanguardie storiche novecentesche, la prassi compositiva che parte dall'attore (fin dai tempi di Marigliano), l'analogia fra l'improvvisazione teatrale e quella jazzistica che è stata una delle linee guida per Leo, almeno a partire da A Charlie Parker (1970) e che aveva portato alla collaborazione con Steve Lacy (Lo spazio della memoria, 1991) [5].

Ma determinante è la personale necessità di rivisitare il mito della commedia dell'arte (visto soprattutto nell'ambito della tradizione popolare che lo lega appunto alle origini di Eduardo, alla rivista e all'avanspettacolo, tutte forme frequentate da Leo nei suoi spettacoli precedenti), dando continuità ad un progressivo ripensamento, per cui a proposito del Ritorno di Scaramouche diventa necessario richiamarsi esplicitamente ad un'altra tradizione, forse fino ad allora rimasta più sottotraccia nel suo lavoro, quella della Commedia dell'arte (Scaramouche e Molière), che finora era comparsa solo nelle metamorfosi pulcinellesche di Totò e di Eduardo. Si pensi a come Manzella ricorda uno dei momenti chiave di The connection (la "riscrittura" nel 1983 della pièce di Gelbert che era stato lo spettacolo-rivelazione del Living degli anni Sessanta):

«Dietro Eduardo, dietro Totò sta in agguato la maschera di Pulcinella che in un crescendo wagneriano fa sue le parole di Macbeth, "La vita è una favola senza senso raccontata da un idiota". E sullo schermo bianco si stampa l'impronta scheletrica di due mani, l'ultimo sforzo dell'attore di rompere quella barriera per proiettarsi oltre, verso la platea» [6].

In un'ampia intervista raccolta da Renzo Guardenti, Leo stesso ha spiegato l’interesse per la commedia dell'arte, sia per quanto riguarda «la capacità di continuare a sopravvivere nell'immaginario collettivo», sia perché «la mentalità dei commedianti è molto vicina alla mia, nel senso che l'attore è il teatro» [7].

Insomma, il mito e la centralità dell'attore.

Ecco perché, come molte altre volte, a partire da La difficile messa in scena..., il teatro nel teatro diventa la condizione drammaturgica necessaria, come già aveva indicato Sanguineti nel 1976:

«[...] è da un pezzo che non è concepibile un'azione scenica che si rispetti, la quale non si presenti, in un qualunque modo, straniata e virgolettata, esibita come artificio e meccanismo e finzione, cioè proprio come messinscena, faticosa quanto occorre. Ma qui in verità è straniato lo straniamento, cioè sempre la straniata messinscena, moltiplicando la distanziazione» [8].

Tutto questo si traduce, in termini drammaturgici, in una composizione per "quadri" che rende labile la vicenda, la trama, senza neppure una chiara (convenzionale) distinzione fra la pièce quadre (il viaggio della compagnia del napoletano Fiorilli/Scaramuccia a Parigi) e la pièce encadrée (le vicende romanzesche dell'attore Lallo col suo servo Pulci, e della sorella Donna Evira, a sua volta inseguita dalla Morte, che si cercano e si ritrovano alla fine perché «queste commedie tutte forniscono in ritrovamenti», pretesto per le situazioni sceniche in cui si incontrano con Pantalone e il suo servo Vongola), nell'utilizzazione del gioco del teatro-nel-teatro.

Gli attori, nel loro rappresentarsi come "comici", incarnano una serie di figure della commedia dell'arte che vengono a comporre una ideale compagnia della Commedia dell'arte: Leo è Scaramuccia e Pantalone (ma che ad un certo punto è, togliendosi la maschera, Leo e basta); Lallo e Tristano sono i due amorosi, Pulci e Vongola gli zanni; la morte e Evira sono le prime-donne in lotta fra loro; Beatrice (nutrice di Lallo) riveste qui il ruolo della madre nobile, con tensioni verso l'enfasi tragica (pp. 16-17) e rovesciamenti verso il basso (p. 18) [9]. Si noti la scelta onomastica di Tristano e di donna Evira, che rimandano a due altri personaggi che appartengono alla mitologia teatrale e letteraria (Leopardi e Mozart).

Lo spazio scenico, d'altra parte, è organizzato in modo che sul palcoscenico principale (il palcoscenico, come indicano alcune didascalie, pensato come quello di un teatro all'italiana, comunque per una visione frontale [10]) ci sia un secondo palcoscenico: «Alla commedia dell'arte appartiene anche il palchetto basso che occupa il centro della scena, su cui si dipana l'ironica trama recitata dai comici, prima lettura dello spettacolo offerta allo spettatore, come insegnavano gli antichi: ma prima lettura può essere per Leo anche la comicità, può essere l'emozione, il dinamismo, il modo di muoversi degli attori» [11].

La rappresentazione nella rappresentazione, non segna una cesura fra quotidianità e teatro, fra arte e vita, ma propone una unità fra vita e poesia, poesia teatrale.

Questa unità è allusa dal tema dello spettacolo: la partenza di Tiberio Fiorilli (Scaramuche) e dei suoi comici per andare da Napoli a Parigi e l'eredità che ne assume Molière. Nel corso della rappresentazione sono citati brani dal Don Giovanni e dal Misantropo, dove Leo sembra riscoprire nella pratica della commedia dell'arte i principi del suo stesso lavoro. Infatti quella del collage di citazioni, come egli stesso dice nell'intervista («E i comici dell'arte, del resto, di citazioni ne facevano un largo uso, tratte da romanzi, da materiale vario di scrittura, riproposte poi in scena, con un lavoro molto simile a quello che ho fatto io dagli anni Sessanta in poi [...]») [12], è tecnica ben nota a Leo, che su di essa aveva costruito quello che probabilmente è il suo capolavoro, Novecento e mille.

E qui investe non solo i testi "alti" (oltre a Molière, Joyce, dal monologo finale dell'Ulisse), ma anche quelli bassi: le canzonette e la pubblicità degli anni Sessanta e Settanta (Tintarella di luna, Arrivano i nostri, Nel continente nero), il cinema di Totò e Peppino, gli "stupidari" petroliniani, fino all'inserimento di «echi della cronaca» [13], «spunti anche spiccioli ricavati dalle cronache dei nostri giorni» [14].

Si prenda come esempio il monologo di Scaramouche (pp. 32-33), che sembra ispirato al saggio di Macchia che ho citato all'inizio, su cui cresce poi l'invenzione dell'attore (la battuta sul parmigiano e il pecorino [15]), fino a risolversi nella citazione di Guido Cavalcanti («Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira... ») e poi di Molière (da Le Sicilien: «Le ciel c'est habillé ce soir en Scaramouche»), anch'essa suggerita da Macchia.

Nell'intervista a Guardenti (e nell'introduzione alla pubblicazione del testo) Leo ha chiarito il perché di Molière filtrato attraverso Fiorilli e come a questo fosse legato il discorso sul potere e l'attualità:

«[...] almeno all'inizio io volevo avvicinarmi a Molière in quanto uomo di teatro, ai suoi rapporti col suo secolo, con la società del suo tempo, partendo magari da Tiberio Firilli. Quello che mi interessava era proprio l'attore – e non a caso Molière è filtrato attraverso Fiorilli, questo attore, napoletano per di più, questo mito di cui si sa abbastanza poco – per cui in un primo tempo avevo pensato a tutt'altro [...] Prima ero partito da un'idea totalmente diversa, cioè un falso storico, Fiorilli che interpretando Don Juan precipita nella botola e va veramente all'inferno. [...] sì infatti da questo motivo ero partito: Molière e Scaramouche, e poi il secolo del Re Sole, questo secolo d'immagine che nascondeva in realtà molte magagne, per molti aspetti simile alla nostra epoca» [16].

Leo chiarisce anche il ruolo del testo («materiale verbale»), pur visto nell'ambito della centralità dell'attore:

«Questo naturalmente non vuol dire scartare a priori il materiale verbale e tutti gli altri elementi che concorrono a formare quell'organismo complesso che è poi l'evento teatrale. [...] Come testo drammatico io posso considerare anche una poesia di Leopardi, al limite una barzelletta, cioè qualsiasi cosa, che mi possa servire da materiale verbale, a seconda del «colore» di cui ho bisogno nell'evento teatrale. Per cui testo può diventare anche una battuta musicale.  [...] Io sostengo sempre che il teatro si può fare anche con i testi, però dire che il testo è il teatro, che mettere in scena un testo significa far teatro, allora io non sono più d'accordo, perché non credo che si tratti di questo» [17].

In questa occasione – con una operazione di cui non mi sfugge la parzialtà, ma anche per questo la ritengo stimolante – mi concentrerò sulla partitura linguistica del testo, cercando di capire come un'idea dell'oralità della commedia dell'arte possa produrre una scrittura verbale e, in ultima istanza, una lingua teatrale.

Mi baserò quindi sulla parte verbale del testo, così come è restituita e fissata nel testo pubblicato nella collana dell'Arena del Sole di Bologna [18]. Secondo le caratteristiche di una "drammaturgia consuntiva" (come ormai si dice comunemente), nel momento in cui diventa libro, quindi "letteratura teatrale", Leo cala il testo totalmente nella norma, anche per quanto riguarda l'aspetto non verbale dello spettacolo: didascalie e battute, indicazioni scenografiche (con minuziosa precisione, sornionamente ragionieristica: il palchetto di «quattro metri per tre alto da terra sessanta centimetri») e sulle musiche (una colonna sonora che va dalla musica barocca ad oggi), l'indicazione di azioni e movimenti, la direzione delle battute. Anche le improvvisazioni («Segue trattativa sul prezzo, citando la scena dal film "Totò e Peppino e la malafemmina"»: p 21; il «grammelot giapponese, poi traduce» di Donna Evira, che è una indicazione della mimica: p. 30, 38, 39, 41) e l'attribuzione della paternità agli attori di alcuni brani [19].

E sono registrati anche i momenti in cui gli attori abbandonano i personaggi e sono loro stessi: «Entra Francesca [Mazza] in abito da sposa bianco, sale sul palchetto, appoggia le mani sulla testa di Leo. [...] Esce Francesca. Leo si alza e torna sulla panca. Buio» (p. 55).

Insomma, siamo nell'ambito, pur senza giungere ad estremi tecnicistici e senza il proposito della completezza, di una "traduzione" sulla pagina della "scrittura scenica", almeno dal punto di vista della drammaturgia, per cui, per la tessitura verbale, bisogna rifarsi all'idea di una partitura in funzione della scrittura scenica complessiva dello spettacolo [20].

Ma al tempo stesso è importante anche il modo con cui questa partitura è nata, è stata costruita, a partire dal palcoscenico:

«Ci hanno portato delle maschere, ognuno di noi ha liberamente scelto la propria maschera [...] Quindi partendo di lì ho cominciato a scrivere, e naturalmente proseguendo con il mio sistema che non è un metodo vero e proprio, ma è un modo: scrivo una scena, la provo, invento una cosa sul momento. Intanto c'erano state delle improvvisazioni con gli attori, tendenti a perfezionare la gestualità e la vocalità. [...] Ho invitato anche gli attori a scrivere delle battute: molte sono state tolte, alcune sono state corrette, altre sono rimaste tali e quali, ma quello che conta è che ci sia sto un coinvolgimento collettivo proprio sul piano della scrittura» [21].

Tutto questo è importante in direzione non della letterarietà del testo scritto, ma proprio in rapporto alla oralità di cui il testo è la trascrizione, che, malgrado la sua riduzione a libro (non parola "in scena", ma parola "dopo la scena") non ambisce in questo caso ad una autonomia letteraria.

Tuttavia è il tessuto linguistico nel suo complesso a rivelare un particolare interesse, come catalizzatore di alcuni aspetti della drammaturgia attoriale, e quindi espressione di una lingua eminentemente "teatrale". Non lingua "italiana", né monolinguismo dialettale, ma un testo plurilingue: italiano, napoletano, veneziano, uso parodico del francese; e che svaria dal parlato dialettale o regionale alle citazioni auliche del tipo: «cussì ben disposto e cossì allegramente vestito» (p. 27), «chiuso nel suo dolor» (p. 25).

Alcuni giochi di parola sono proprio legati a questa varietà delle lingue, come il francese maccheronico di Pulci mescolato al napoletano («li capil del tuo visage, son men folt de li capil del tuo pubage» p.12), oppure le traduzioni simultanee («Una rue! Una via!»: p. 10), o lo scambio di battute fra Pulci e Lallo: «Saint Sulpice/Sain Suplice» (p. 10), «findente di pennino/fetente 'e pennino» (p. 11); oppure il passaggio dal napoletano all'italiano: a «Pulci i vorrei che tu e il capo e il mio» viene replicato, in un gioco parodico «Guido io vorrei ecc... » (p. 12).

All'effetto linguistico sono legati anche gli anacronismi, per cui alle località francesi (Versailles) sono accostate l'Italsider e l'Alfasud (p. 14), o riferimenti all'attualità, come «aggia parlà toscano, se no mi cacciano dal nord anche se siamo in Francia» (p. 13); oppure sono citati oggetti d'uso attuale, come «l'antifurto» (p. 16), o il «juke box che sparava a tutto volume quelle belle canzonette d'amor» (p. 14).

Dunque: un «dialetto multiplo in funzione anti-mimetica» [22] – per usare una formula di Paolo Puppa, che non la usa per De Berardinis, ma che ci consente di accostarlo, sotto questo aspetto con una qualche ragione, ad autori come Moscato, Scaldati e Cappuccio – per cui la parola (e quindi la lingua) si situa in uno spazio e in un tempo presenti (quelli della scena), senza la "finzione" di un "altrove" (Napoli, Parigi, Versailles) e di un tempo (il Seicento) che pure sono citati continuamente.

Lo stesso gioco si realizza con le allusioni agli alessandrini (i martelliani) generatrici di "lazzi": Lallo è continuamente alla ricerca dei buoni alessandrini, Pantalone e Vongola si esbiscono nel "lazzo" della vendita fasulla degli alessandrini, la sfida fra Vongola e Pulci che avrà come premi un alessandrino per Lallo.

Ed io credo che sia difficile che un ammiratore di Leo come Sanguineti non abbia pensato a questo, quando qualche anno dopo ha scritto le Melarance e tradotto l’Illusion comique...

Un plurilinguismo maccheronico, assunto in una dimensione che non è solo caricaturale, ma che rinvia alla pratica della Commedia dell'arte e significa anche recupero delle due tradizioni: quella veneziana di Pantalone e quella napoletana di Pulcinella. Ma viste nella loro proiezione europea (Fiorilli e Molière).

Questo plurilinguismo – nella sua dichiarata realtà "teatrale", che ha una lunga storia in Leo, da Assoli (1977) [23] a Totò principe di Danimarca, al punto che può essere considerato la vera base "della lingua" di Leo – ricrea anche la memoria (mitologica) della commedia dell'arte, come accadeva, ad esempio nei dialoghi fra Pulcinella e Colombina in Avìta a murì [24]. La lingua delle maschere insomma costituisce il tessuto linguistico di base.

Risalta, intanto, la particolare performatività della parola: tranne i monologhi interamente rivolti al pubblico (quando Leo è Leo), che costituiscono quasi una sospensione dello spettacolo, le battute sono rivolte contemporaneamente agli altri attori (agli attori dietro il personaggio) e al pubblico.

Né si tratta di mera riproposizione, di recupero "filologico" di frammenti delle scritture dei comici dell'arte (o della loro gestualità), secondo una "tradizione".

Per ognuno dei personaggi-ruoli (e in alcuni casi con la collaborazione degli attori e grazie alle loro improvvisazioni) c'è un testo che li caratterizza linguisticamente, partendo dalla tradizione e appoggiandosi alla loro creatività attoriale. Ruoli e non maschere (tranne Pantalone e Pulci) che, rifiutando la stilizzazione settecentesca, rimandano indietro, alla recitazione per contrasti della commedia dell'arte barocca.

Si prendano ad esempio il monologo di Pantalone (p. 25) e il suo successivo dialogo con Tristano (pp. 26-30).

Leo si rifà al repertorio linguistico delle maschere: come il gioco di senso sulla vita (dopo una partenza cabarettistico-canzonettistica alla Cochi e Renato o alla Jannacci: «Che bela la vita, / che bela [...]»): «[...] s'è talmente bela / che no convien viverla, / che se no se consuma»; il bisticcio «fagiol/figliol»; le deformazioni delle parole («omeopaticopeico», «Castellamare 'e scabbia», «alfabetico» per analfabeta). Se, da un lato, inserisce battute tipiche della comicità cine-televisiva più attuale (che funzionano come citazioni): «Me cojoni» (p. 27), dall'altro l'intercalare «belo questo», con cui nel citato monologo Pantalone autocommenta le proprie battute, costituisce un gioco metateatrale (quello dell'autocompiacimento) che rappresenta il momento in cui è denunciata la consapevolezza di un operare su questo repertorio.

Ne deriva il particolare effetto provocato dalle "citazioni" della commedia dell'arte in questo spettacolo, così diverso dalla «nostalgia» prodotta da tanti spettacoli sulla commedia dell'arte – in cui, direbbe Georges Banu, la storia si presenta «temperata dalla memoria» [25] – che, pochi anni prima (1990), era stata al centro del film di Scola con Troisi, tematicamente così vicino, di cui lo spettacolo di Leo sembra quasi esserne il rovesciamento [26].

Se la lingua è, dunque, il veicolo di una idea di Commedia dell'arte che si stacca da ogni immagine già acquisita dalla "memoria" dello spettatore, da ogni immagine abusata, allora la Commedia dell’arte di Leo è priva di quegli estetismi pseudo-simil-settecenteschi a cui il pubblico è abituato, e punta su una dimensione "poetica", non nel senso della "nostalgia" per l'arte perduta, ma nel senso della "poesia dell’attore", in cui si scontrano alto e basso:

«Il tema del contrasto è sempre stato una mia caratteristica: qui viene più accentuato perché l'uso della mezza maschera comporta una separazione fra i vari elementi, sia della voce che del corpo. Ma in tutti i miei lavori si manifesta la mia doppia anima, quella aristocratica che tende verso il sublime, che va oltre il teatro, e quella invece plebea che era evidentissima in Totò principe di Danimarca, già individuabile nel titolo. Totò era la felicità terrestre, la vitalità, la forza della natura; Amleto incarnava la forza di superare la natura, di penetrarne il mistero, di superare anche la storia, arrivare al mondo del silenzio, quindi oltre il teatro. Il teatro essendo una tecnica conoscitiva, dovrebbe servire a questo, ad alimentare una tensione che porta ad un completamento dell'uomo» [27].

La Commedia dell'arte qui viene "rivisitata" non in funzione del rimpianto nostalgico, né di una sua programmatica rivitalizzazione. Così l'immagine convenzionale della commedia dell'arte, è sottratta alla stilizzazione rassicurante, non per ricrearla soltanto, secondo un'idea di "autenticità" diversa, non per ritrovarne «le language plein de verdeur, de trucoulance, de crudité par fois» delle origini dell'improvvisazione (Besson) [28], ma per ritrovarvi la pratica dell'attore.

Di "riscritture" e "riuso" della commedia dell'arte si è nutrito molto teatro novecentesco europeo e italiano del dopoguerra, a diversi livelli: da Arnaldo Momo al teatro dell’Avogaria e a tutta la tradizione "goldoniana" (o pseudogoldoniana) veneziana (ma esiste anche una linea ruzantiana, probabilmente rappresentata dal primo Paolini, dal Tam-teatro di Michele Sambin), da Eduardo a Dario Fo (per ognuno dei quali andrebbe fatto un discorso a parte), da Strelher a Marcucci a Benno Besson, dal Théâtre du Soleil di Ariane Mnoukine al lavoro di Barba, da Ronconi fino al Sanguineti della riscrittura delle Melarance di Gozzi, che, come ho detto, probabilmente è debitore nei confronti del Leo di Scaramouche. E il discorso è ora continuato anche da due attori il cui apporto era stato fondamentale nello spettacolo di Leo: Elena Bucci e Marco Sgrosso. È questo certamente un elenco incompleto e che, soprattutto, non riesce a dare ragione di quanto è stata passiva e rozza ripetizione, elegante stilizzazione o autentica ricerca: non si deve dimenticare, ad esempio, il ponte che ha cercato di creare con l'antica commedia dell'arte il "terzo teatro", a partire dagli anni Settanta [29] e tutto il lavoro dell’Ista [30]. E al tempo stesso si dovrebbe confrontare il ricorso alla commedia dell'arte di Leo, rispetto ad alcuni esempi cronologicamente vicini, come gli Arlecchini-griot del Teatro delle Albe di qualche anno prima (1993), con la loro animalesca fisicità, pur nel loro cercare un riferimento sociologico contemporaneo.

Leo si pone su un terreno che, se è opposto alla vulgata del "goldonismo" veneto, non cita espressamente gli sperimentalismi delle avanguardie storiche e non vuole rompere i ponti con una tradizione: da un lato ne è segno la collaborazione cercata nei seminari di un attore specialista della commedia dell’arte come Eugenio Allegri (allievo di Lecoq, che ha già lavorato con Leo, ma anche con Vacis e con Fo; autore di canovacci e spettacoli), dall'altra è chiara la continuità che Leo instaura fra la Commedia dell'arte e la comicità dell'avanspettacolo e della rivista, sintetizzata dal riferimento imprescindibile a Totò. Continuità che è resa evidente dal fatto che Leo riveste il ruolo di attore, regista, capocomico e drammaturgo sia nella realtà, sia nella finzione teatrale.

Si tratta, in sostanza, di proporre un'immagine della Commedia dell'arte più complessa di quella stilizzazione manierata e pantomimica che si è imposta come immagine dominante e convenzionale attraverso "l'imperialismo" dell'Arlecchino di Strelher-Soleri [31].

Leo si ispira, da un lato, per l'aspetto visivo, a Callot, dall'altro (soprattutto grazie all'apporto del Vongola-Zanni di Marco Sgrosso) recupera quel "vivo contrasto" pre-goldoniano fra energia e poesia, fra basso e alto, fra lacrime e riso, che appartiene alla tradizione degli attori fino a Bertinazzi [32].

E non è secondario il fatto che Leo escluda il personaggio simbolo, Arlecchino, che lo porta – lo abbiamo visto a proposito del plurilinguismo – ad assumere Pantalone come simbolo della tradizione veneziana e Scaramuccia-Fiorilli (mettendo in secondo piano anche Pulcinella, ridotto ad un Pulci sovrastato dallo "zannesco" Vongola) di quella napoletana.

Quello di Leo è un diverso rapportarsi alla commedia dell'arte. Riguarda sia il riferimento alle maschere (che Leo tratta in maniera a suo modo "filologica", ma anche nella loro sostanza mitica [33]), sia quello della improvvisazione [34]. Recupero del "mito" della Commedia dell'arte, ma al tempo stesso sottrazione al mito della sua irrapresentabilità oggi, un po' come avviene per Totò e Eduado (l'Eduardo senza Eduardo di Ha da passà a nuttata):

«[...] una riflessione molto bella e poetica sull'arte dell'attore che fa i conti con il suo tempo e la sua storia, nata da una dupice suggestione, il teatro di Molière e la figura dello sregolato comico italiano Tiberio Fiorilli nella Francia di Luigi XIV. Come dire l'incrocio fra scrittura e improvvisazione, e a far da perno l'arte intrascrivibile dell'attore». [35]

Nel lungo titolo Leo affianca il vero (anagraficamente) nome di Molière al proprio nome francesizzato – quasi a voler replicare anche qui, complicandolo ulteriormente, il gioco delle identità – come sigillo e simbolo del percorso dell'attore dell'arte da Napoli alla Francia.

«Nè, ce ne vogliamo andare all'estero? All'estero dicono che gli attori italiani fanno ridere. All'estero dicono: "Ah sono italiani!" E si mettono a ridere. Iammuncenne va!»

«All'estero». E in questo si condensa e diviene evidente la realtà di un esilio, di un espatrio, di un déracinement: «So' migrante» (p. 15).

Quella d'esilio, del déracinement, d'altra parte, è stata da sempre la condizione di Leo. Quando si parla di esilio, di déracinement è inevitabile richiamarsi, infatti, non soltanto alla sua biografia (il bere, l'autodistruzione) ma soprattutto al rapporto con le istituzioni teatrale e politiche, rapporto non sempre facile, come ha ben illustrato Gianni Manzella nel suo libro sul teatro di Leo. Allora Il ritorno di Scaramouche acquista anche un particolare significato rispetto alla assunzione di responsabilità che comportava, in quel momento, nel 1995, l'apertura del "suo" teatro a Bologna.

La polarità fra il déracinement dell’attore (ma anche la sua anarchica libertà espressiva) e il potere politico, ben presente nei riferimenti alla corte francese, cioè al contesto "storico" della Francia seicentesca di Fiorilli e Molière, si ribalta nell’oggi, in un momento storico in cui l’arte teatrale, «arte primordiale di conoscenza collettiva, laboratorio per sperimentare la complessità della vita in situazioni semplificate di spazio e di tempo», appare a Leo «sempre di più diventata falsificazione, riproduzione dell’ovvio, consolidamento del potere e dei suoi interessi»:

«Aprire un teatro è una cosa delicatissima, seppur lodevole: può far bene, ma può anche far male.[...] Aprire un teatro, oggi, significa, o dovrebbe significare, rifondarlo: cosa appunto delicatissima. Rifondare un teatro è come rifondare una società democratica, basata sull'essere e non sull'apparenza, sulla giustizia e non sulla rapina, sulla lealtà dei propositi e non sulla mistificazione, sull'uso corretto ed egualitario dei mezzi, e non sullo squilibrio, sulla solidarietà concreta e disinteressata, e non parolaia o d'effimero consenso». [36]

E forse in questa utopia sta il senso di questa «commedia dell'arte ritrovata e rifondata» [37], non come nostalgia di un teatro perduto, ma per ritrovarvi le ragioni del teatro  rispetto alla società e al potere. A questo allude la "tammurriata" che conclude Il ritorno di Scaramouche:

«Danza. Alla fine del brano tutti scendono dal palchetto e sale Leo con un violino.

Leo: Te ne devi andare, uomo piccolino piccolino, tu, Colbert e Mazzarino. Te ne devi andare definitivamente: quale tregua... mannaggia' miseria, te ne devi andare subbito, ommo 'e niente, da 'sta terra 'nfame!

Leo scende dal palchetto, poi avanza, insieme agli altri attori, in proscenio, come all’inizio dello spettacolo.

LEO:

'Stu mariuolo 'stu mariuolo
Mo c'arrobba pure 'o sole.
'Stu mariuolo 'stu mariuolo
Mo c'arrobba pure 'o sole.

A ballata d'e pezzienti
E de chi nun tene niente
Affamati ma decisi
Ca' quaccuno ha da essere acciso.

Scaramouche, nu' Dio d'attore
Faccio a parte d' 'o buffone
D' 'o pezziente e d' 'o ricchione
Ma stasera na vota tanta
Faccio 'a parte 'e Pantalone.


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[1] Milano, Mondadori, 1975 (ora in Ritratti, personaggi, fantasmi, a c. di Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1997, p. 869). Il saggio era apparso, con il titolo Il silenzio dell'attore. Scaramuccia antenato di Molière, in «Corriere della sera», 9 gennaio 1974.

[2] Già un anonimo recensore aveva definito così The connection (cit. in Gianni Manzella, La bellezza amara. Il teatro di Leo De Berardinis, Parma, Pratiche, 1993, p. 117).  Qui utilizzo la definizione, ovviamento senza il segno negativo che aveva in quell'occasione.

[3] Renzo Guardenti, Leo, il corpo vivente dell'attore, in «Il castello di Elsinore», IX, 26, 1996, p. 141.

[4] Leo De Berardinis, Introduzione a Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poquelin e Léon de Berardin, libri ARENA, fuori THEMA, Bologna, 1995, p.6.

[5] V. Intervista con Leo De Berardinis a cura di Oliviero Ponte di Pino, pubblicata originariamente in Jack Gelber, La connection, con l'intervento di Leo De Berardinis, Ubulibri, Milano, 1983.

[6] Manzella, La bellezza amara... , cit., Parma, Pratiche, 1993, p. 118. Sul libro di Manzella, oltre che sui ricordi personali di spettatore, mi baserò essenzialmente per i richiami alla "storia" di Leo. Si tratta, infatti, di uno di quei rari saggi che sono in grado di restituire, nella riflessione critica, la memoria partecipata dell'esperienza teatrale.

[7] Il ritorno di Scaramouche: intervista a Leo De Berardinis, a cura di Renzo Guardenti, in «Il castello di Elsinore», numero cit., pp. 123-131.

[8] L'antiteatro di Leo e Perla, in «L'Unità», 6 marzo 1976, ora in Giornalino secondo, Torino, Einaudi, 1979, p. 31.

[9] La compagnia corrisponde a quella della ripresa televisiva di Totò, con le sostituzioni di Neiwiller e Bobette Levesque. È grosso modo la stessa anche dei Giganti, dove oltre a Neiwiller c’era anche Servillo.

[10] Ma un recensore esprimeva l'esigenza di un maggiore avvicinamento fra scena e platea: «[...] quel palchetto (che avremmo preferito avere più vicino, o meglio ancora trovarlo in una piazza e non nell’angusto spazio del Bellini) [...]» (Nicola Arrigoni, in «Sipario», n. 557, giugno 1995, p. 87: il «Bellini» è il teatro di Casalbuttano).

[11] Gianni Manzella, Leo: sfidare la storia con il teatro, in «Il Manifesto», 4 aprile 1995, p. 39.

[12] Intervista, p. 127.

[13] Arrigoni, rec. cit.

[14] Aggeo Savioli, in «L'Unità», 23 novembre 1994, recensione ripubblicata in Il punto di vista di Aggeo Savioli, in «Drammaturgia», Quaderno 1995, pp. 88-90 (da cui si cita, p. 89).

[15] «Anche un certo Mezzettino ha scritto un libriccino sulla mia vita che dice un sacco di sciocchezze. Per esempio dice che io in punto di morte ho chiesto una zuppa all’italiana, che sarebbero dei vermicelli con il parmiggiano. Figuriamoci se in punto di morte... la morte è una cosa seria... chiedevo i vermicelli col parmiggiano: erano col pecorino!»

[16] Intervista a Guardenti, cit., p. 125-130.

[17] Ibidem, pp. 126-27.

[18] Leo De Berardinis, Il ritorno di Scaramouche..., ed. cit.

[19] «Ho invitato anche gli attori a scrivere delle battute: molte sono state tolte, alcune sono state corrette, altre sono rimaste tali e quali, ma ciò che è veramente importante è che ci sia stato un coinvolgimento collettivo proprio sul piano della scrittura» (intervista a Guardenti cit., p. 128).

[20] Sulla genesi dello spettacolo, soprattutto attraverso le testimonianze degli attori, cfr. Roberto Anedda, Il teatro come una composizione: la drammaturgia musicale nel lavoro di Leo De Berardinis, in «Culture teatrali», 2/3, primavera-autunno 2000, pp. 65-100.

[21] Intervista a Guardenti, cit., p. 128.

[22] Cfr. Paolo Puppa, Il teatro dei testi. La drammaturgia italiana del Novecento, Torino, Utet, p. 178.

[23] Cfr. Manzella, La bellezza amara..., cit., p. 78.

[24] Ibidem, p. 82.

[25] Georges Banu, Memorie del teatro, Genova, il melangolo, 2005, pp. 83-90 (prima ed. Mémoires du théâtre, Paris, Actes sud, 1987, p. 77-81).

[26] Lo notava, recensendo lo spettacolo, Renato Nicolini, Ritorna Scaramouche e parla veneziano, in «primafila», n. 5, marzo 1995: «Quello che un film come Il viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola edulcorava nella malinconia e sfumava in un indefinito passato, è qui esposto senza reticenze. La solitudine e l'emarginazione del teatro contro (ma senza nessuna velleità rivoluzionaria, solo voglia di sopravvivere) il potere spietato, più irrapresentabile che invisibile» (p. 97). Nicolini era stato anche uno degli interpreti del film di Scola. In realtà più che «indefinito» il «passato» del film di Scola è un Seicento "fantastico" ispirato alla pittura barocca (dai fiamminghi, a Callot, a La Tour). Ma la recensione-confessione di Nicolini è interessante anche per l'attenzione che pone alle citazioni jazzistiche della "colonna sonora" dello spettacolo di Leo.

[27] Intervista a Guardenti, cit., p. 129.

[28] Benno Besson, L'oiseau vert. D'après Carlo Gozzi, Lausanne, 1985, p. 106. In questa chiave Besson aveva messo per esteso le parti a soggetto.

[29] Di particolare interessa sono a questo proposito le osservazioni di Claudia Contin (un Arlecchino di oggi), Viaggio d'un attore nella Commedia dell'Arte, in «Prove di Drammaturgia», anno I, 1/2, settembre 1995, p. 34.

[30] Valga, a mo' d'esempio, quanto dice Ferdinando Taviani, Un vivo contrasto. Seminario su attrici e attori della Commedia dell'arte, in «Teatro e Storia», 1, 1996, pp. 25-75.

[31] L'espressione "imperialismo" è mia. Ma la necessità per l'attore, nell'ambito della pratica odierna della  commedia dell'arte, di avere «una libertà di re-interpretazione e re-invenzione che certi irrigiditi stilemi contemporanei talora non consentono», è chiaramente espressa da Claudia Contin, cit., pp. 28-29.

[32] Cfr. Taviani, cit., pp. 35-52.

[33] Analogamente a quanto ricorda Sanguineti a proposito delle maschere che erano state utilizzate da Benno Besson nell'Edipo tiranno: «la maschera non fu impiegata come segno di grecità; erano piuttosto maschere aninalesche o animaloidi» (Introduzione a Teatro Antico. Traduzioni e ricordi, a cura di Federico Condello e Claudio Longhi, Milano, Rizzoli, «Bur/Scrittori contemporanei», 2006, p. 10).

[34] Un aspetto, questo, che nella edizione a stampa viene completamento assorbito nel testo, divenendo quasi rigoroso vincolo testuale.  Sull'improvvisazione – su cui è costruito gran parte del lavoro dell'attore novecentesco – è interessante la posizione di Besson, per il quale – e lo dice a proposito della messa in scena, oggi, di Gozzi – «l'improvvisazione non appartiene più alla nostra cultura teatrale» (intervista a Aldo Viganò, in Edoardo Sanguineti, L'amore delle tre melarance. Un travestimento fiabesco dal canovaccio di Carlo Gozzi, Genova, il melangolo, 2001, p. 139). La drastica posizione di Besson – che ovviamente meriterebbe un discorso a parte – è comunque coerente con la sua prassi teatrale, che consiste nella ideazione di un piano di regia, precisa e meticolosa al punto da non variare da un'edizione francese a una italiana dello stesso spettacolo.

[35] Gianni Manzella, Leo: sfidare la storia con il teatro, “il manifesto”, 4 aprile 1995, p. 39.

[36] Leo De Berardinis, Aprire un teatro (aprile 1995, per l’apertura del Teatro Laboratorio San Leonardo), in Scritti d’intervento, in «Culture teatrali», 2/3, primavera-autunno 2000, pp. 59-60.

[37] Franco Quadri, recensione in «La Repubblica», 1 dicembre 1994, ora in «Il Patalogo» 1995, p. 222. 




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