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Italo Moscati

Ellen Stewart e La Mama: avanguardia tra scena e tv

Data di pubblicazione su web 29/08/2006
Ellen Stewart
Ellen Stewart, teatrante americana, fondatrice del Teatro La Mama di New York, ha partecipato alla Biennale Teatro del 2006 con un suo spettacolo ispirato a Il corvo di Carlo Gozzi. Italo Moscati, che ha preso parte a un incontro sulla Stewart, ha scritto questo breve saggio sulla esperienza della Stewart e sui rapporti tra avanguardia newyorchese e italiana partendo dalle riprese di un film documentario girato dallo stesso Moscati.


Torno volentieri con la memoria a Ellen Stewart e a un periodo di tempo che andava dal 1976 al 1977. Coincideva con la mia intenzione di realizzare per la televisione della Rai un documentario su un confronto possibile tra l’avanguardia teatrale italiana e quella americana. L’ occasione era stata creata da una manifestazione, un piccolo ma vero e proprio festival che si doveva tenere a New York, presso La Mama, ovvero un teatro inventato e diretto da Ellen Stewart.

Avevo già un titolo in testa per il film documentario progettato per avere la lunghezza di una normale pellicola-racconto, ovvero una durata sui 90’. Il titolo era A New York! A New York! A New York! rubato, e trasformato, dalla celebre battuta finale “A Mosca!…” delle Tre sorelle di Anton Cechov, uno degli scrittori che preferisco, un narratore sulla pagina e sulla scena capace di mettere sintonia fra letteratura e teatro, un uomo d’avanguardia al di là del tempo in cui era vissuto.

L’occasione, dicevo, era costituita dall’appuntamento a La Mama, al quale avrebbero preso parte due teatranti italiani che all’epoca rappresentavano un’interessante, vivace e anche discussa realtà dopo la stagione per fortuna non ancora dissolta, quella di Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Carlo Cecchi, Mario Ricci e pochi altri. Nomi che si erano imposti e proposte talvolta efficaci, incisive. Nomi che erano la punta più alta di un arcipelago che correva lungo le piccole sale, le “cantine”, i garage, i magazzini, dove si recitava e soprattutto si scatenavano le energie di una generazione magmatica di registi.

I due teatranti invitati a La Mama da Ellen Stewart erano Memè Perlini e Giancarlo Nanni (in coppia con Manuela Kusterman). Portavano i loro spettacoli che la Stewart conosceva e aveva voluto in quel luogo che dal 1962, appunto La Mama, si era trasformato in una grande e intensa officina (termine allora molto in uso dalle avanguardie e da chi le seguiva).

Il mio film, nei propositi, doveva a mio avviso non limitarsi a presentare la breve tournèe di Perlini e di Nanni, ma entrare attraverso la porta de La Mama nel sogno americano del teatro. Un sogno di cui erano arrivati in Italia i segnali cospicui e ben documentati attraverso numeri speciali della rivista coordinata da Franco Quadri, «Sipario», a cui collaboravo. Guardavo su quella rivista foto meravigliose di scena - semplici spazi, corpi sottili da danzatori, immagini forti -, leggevo testi e commenti che sollecitavano la fantasia, muovevano emozioni, suggerivano idee, voglia di sapere e di ritrovare un teatro vivo. Il confronto con il nostro teatro, troppo chiuso in sé, troppo preoccupato di sopravvivere con l’arida linfa di un passato magari illustre, troppo preso dalle beghe politiche e ideologiche, era in netto favore della casa di Ellen e di quel che avrei trovato a New York in una quindicina di giorni di intenso lavoro, trovando collegamenti con quel che già conoscevo o facendo scoperte inaspettate. Senza enfasi. Senza farmi trascinare nella leggenda di un’avanguardia su cui avevo visto un bel documentario di Antonello Branca, What’s Happening? sugli artisti e gli scrittori americani (da Rauschenberg a Ferlinghetti)

Dico casa perché Ellen aveva a La Mama casa e bottega, ma soprattutto casa. Mi presentai con la troupe e la macchina da presa nella strada indicata e la prima persona che incontrai fu uno spazzino. Aveva una ramazza, raccoglieva le cartacce e altro, riponeva il tutto in un cestello di rame collocato su un triciclo. Amava la perfezione e raccoglieva con la mano guantata un singolo mozzicone e lo infilava delicatamente nel cestello. Fu lui a fermarci, attratto dal nostro parlare italiano. Era di Salerno, viveva, da anni a New York, aveva raccolto con pazienza tutta la spazzatura che La Mama produceva moderatamente con i suoi manifesti e i rifiuti di ogni serata di spettacolo. Conosceva Ellen. Mi disse che era una brava signora, una intellettuale, una persona gentile. Una nera bionda, aggiunse, allargando le braccia e tornando al suo lavoro.

L’operatore per il mio film, intanto, girava e riprendeva le abitazioni, i negozi, la facciata della Mama. Quando Perlini vedrà il film, osserverà: a New York, tutto è cinema. Vero. Ma l’incontro con la Stewart, per una lunga intervista che è inserita in A New York! A New York! A New York!; e poi tutto quel che vidi a La Mama e tutto quello che imparai, sempre girando tra i grattacieli, fu che il teatro sapeva di fresco e di nuovo, e non solo perché la città era ed è una scenografia incomparabile.

L’incontro con Ellen divenne subito un appassionante racconto che trasformò tanti anni di attività (nel 1977 erano almeno quindici) in un’avventura in cui si scoprivano realtà molto diverse fra quella italiana e quella americana. Intanto, la parola “avanguardia” o “neo avanguardia”- come eravamo stati abituati a dire in Italia sulla scia del Gruppo ’63 di Umberto Eco, Edoardo Sanguineti e soci - non compariva nel racconto di Ellen che preferiva ad esse l’espressione di “experimental theatre”, ovvero la indicazione contenuta nella stessa ragione sociale de La Mama.

Non era una cosa di poco conto. Noi, soprattutto i più giovani, avevamo gli occhi sgranati sulle novità ma, seguendo un vecchio vizio culturale e ideologico, ci si adattava a considerare l’avanguardia degli anni ’60 (Carmelo Bene per primo) come una tappa in ritardo di quella che era stata ormai classificata da tempo, ad opera di archivisti del teatro, sotto l’etichetta di “avanguardia storica”. In questa visione il surrealismo dominava, praticamente era diventato il movimento egemone, storicamente. Il futurismo era poco ricordato, poco citato per via del cedimento di Filippo Tommaso Marinetti al fascismo. Si dimenticava volentieri che era esistito un futurismo di sinistra, quello ad esempio di Vladimir Majakowskji, peraltro tolto dalla polvere e dall’ostracismo delle confusioni e delle censure da Carmelo Bene.

Con Ellen, tutte le impalcature cadevano e il suo gusto per la sperimentazione e la ricerca aveva trovato una collocazione giusta all’interno dell’off off Broadway, ovvero al di là di Broadway, strada del teatro commerciale (spesso vivace e creativo), e dell’off Broadway, ovvero quella zona di NY che si allontanava dalle centrali commerciali ma certo non entrava nel vivo della sperimentazione. Il capolavoro di Ellen, come risultava dal suo racconto, era la duttilità, la concretezza, il pragmatismo di un teatro che non temeva contaminazioni e si apriva a diverse esperienze, senza stancarsi mai, senza inventare rigidi schematismi, privilegiando proposte che comunque si sarebbero chiuse inevitabilmente in se stesse.

Ascoltavo e imparavo. Il sogno americano, per me, non era cominciato solo dalle pagine di «Sipario» di cui ero collaboratore, ma era stato smosso in profondità dal contatto diretto con attori e registi che avevano cominciato a girare il mondo un po’ per una necessità sentita in America più che altrove di essere comunque “on the road”. In primo luogo con il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, e con l’Open Theatre; e in seguito con gruppi e individualità come Bob Wilson ad esempio, per i quali si erano aperti ampi spazi nei festival, come quello di Nancy o quello itinerante tra Amburgo, Caracas e altri grossi centri che investivano nel teatro sperimentale.

Le ragioni di quello che mi ostino a chiamare per brevità “sogno” erano quelle di una straordinaria combinazione tra voglia di cambiamento in chiave libertaria e riscoperta della fisicità, del corpo, di una parola non contaminata dal non senso (denunciato da Ionesco e Beckett). Il Living era ed è ancora il modello assoluto, il più puro, nonostante i tentativi di annessione di vario tipo che in Europa vennero fatte per sottrarlo alla non violenza anarchica e aggregarlo a semplicistiche riletture all’ombra del grande e ignaro Bertolt Brecht. Questi tentativi dovevano morire, com’era giusto, e doveva rimanere, è rimasta, l’idea di un teatro capace di vivere al tempo presente, in sintonia con l’incalzare delle sfide sociali ed estetiche. Quanto poteva essere più lontano dalle scelte dei gruppi italiani?

Il Living era nato per morire nell’evolvere delle situazioni, e rigenerarsi di continuo, anche se il suo modello è durato a lungo e ancora si trovano in Italia coloro che lo ricordano e si ispirano alla sua prassi e alle sue pulsioni.

In Ellen, e nel suo mondo di La Mama, quel sogno robusto, non ingenuo, transitava nel 1977 quando io mi affacciai ma anche prima. Più che un sogno, destinato a svanire, è stato un’isola utopistica che c’è (in contrasto con l’utopia isola che non c’è) in quanto ha costruito con calma e intelligenza, senza bruciare di passione, senza affastellare programmi fascinosamente rivolti al “qui e ora” delle generazioni anni Sessanta e Settanta.

Questo ricavavo dal racconto di Ellen, mentre ronzava la macchina da presa e il fonico riempiva nastri di registrazione. Se mi è permessa una curiosa analogia, Ellen aveva sul piano intellettuale, organizzativo, sicuro, la stessa pacatezza del piccolo uomo di Salerno che avevamo incontrato con la troupe iniziando le riprese. Ovvero, una calma progettuale e una lucidità di propositi che è – penso - quella che le aveva permesso di iniziare il suo cammino e di arrivare fino a noi, sempre carica di voglia di pensare e di fare. Ellen impersona una scelta di campo, quella della sperimentazione, che non pretende di conquistare un posto nel mercato (dei risultati immediati), ma di costruire una sorta di rifugio dinamico, in cui si può fare sosta per poi ripartire.

E veniamo alla esperienza di Memè Perlini e di Giancarlo Nanni a La Mama. Bene, andò bene. Noi in Italia siamo abituati a considerare esperienze simili all’estero o come un viaggio di piacere culturale o come una sorta di testa di ponte anche mercantile per i nostri prodotti artistico-culturali. Niente di più lontano da questi pregiudizi o aspettative avvenne a La Mama. Il provincialismo nostrano, il solito, anche se camuffato di spirito elitario (certo teatro d’avanguardia non ci rinunciava), era destinato a restare fuori dalla casa di Ellen e di essere raccolto dallo spazzino ormai italoamericano.

Memè Perlini con Locus solus di Raymond Roussel (tra gli attori c’era un giovane Victor Cavallo che purtroppo è morto pochi anni fa) e Giancarlo Nanni con Franziska di Frank Wedekind si accorsero subito che non sarebbe stato facile attrarre il pubblico di New York, selettivo ed esigente almeno per quanto riguardava l’off off Broadway; e che dovevano sudare per mettere su i loro spettacoli, prepararsi a dovere senza emozioni dovute al prestigio del luogo che li ospitava, farsi accettare.

La mia macchina da presa inquadrò sul palcoscenico suggestioni a profusione che si scaricavano su un pubblico attento, con il passare dei minuti sempre meno diffidente, sul quale la stessa macchina indugiava per cogliere reazioni senza disturbare al calar dei sipari (lo dico per dire: Memè e Giancarlo non hanno mai avuto bisogno di sipari). Curiosità tanta, e forse persino imbarazzi e incertezze. Due gruppi italiani proponevano un autore francese (Roussel) e un autore tedesco (Wedekind).

Lo stupore fu grande, ma non ci furono rifiuti.

Sia Memè che Giancarlo, e sia il pubblico, capirono insieme che l’incrocio offerto da La Mama rimescolava le carte. Gli italiani non portavano Goldoni o Pirandello o Eduardo, glorie nazionali, ma erano andati lì per mostrare che la nostra scena, quella dei giovani in cerca di domani (e non solo di un mestiere), andava randagia nella cultura europea, e coraggiosamente si prendeva i suoi rischi.

Nello stesso tempo, gli spettatori di La Mama scoprivano che le loro esigenze verso interessi sconosciuti, verso un’offerta importata qual aveva scelto di vedere, doveva rifare i conti con i luoghi comuni dell’italianità e con ibridazioni insolitamente stimolanti e inedite. Uno choc per entrambi, probabilmente. Anzi, senza dubbio alcuno. Uno choc voluto da Ellen, la dolce, la calma, la nera dai capelli biondi che cercava di continuare a vedere lontano, di sfidare gli orizzonti del già troppo piccolo mondo di una globalizzazione che stava arrivando; e aveva a La Mama una delle sue stazioni di sosta e ripartenza.

Avendo fatto proprio de La Mama una sorta di campo base per la mia ricerca sul film doc che dovevo girare, il desiderio di andare in esplorazione tra gli spettacoli di Perlini e di Nanni, e la sperimentazione o avanguardia americana divenne fortissima, al di là dei piani che avevo fatto. Ellen stessa mi diede le indicazioni di cui avevo bisogno. Tra le tante, mi limito a ricordare due visite che più delle altre mi sono rimaste impresse e che raccontai a Memè, a Giancarlo e a Manuela proprio nei giorni newyorchesi.

La prima, la più incisiva, fu quella a Meredith Monk, un’attrice-danzatrice che anni dopo verrà invitata alla Biennale di Venezia, quando era diretta da Luca Ronconi. Meredith accettò di ammettere la macchina da presa e la troupe nel suo spazio vitale, ovvero una cucina e una camera da letto, e sullo stesso piano un ampio parquet di legno dove lavorava. Le chiesi di stare con lei una giornata e di seguirla. Senza pudori, fortunatamente, domandò una cifra per il tempo che il film le avrebbe portato via. Una cifra bassa, irrisoria, che stupì il nostro stesso produttore convintosi di dover sborsare chissà quale somma.

Raggiunto l’accordo, cominciammo a girare. Volevo riprendere la Monk mentre faceva i suoi movimenti. Non avevamo un carrello. Le chiedemmo in prestito un portapacchi con le ruote che giaceva in un angolo del loft. Ci fu concesso. In questo modo, nulla fu perduto del suo lavoro.

Girando, mi accorgevo che pochi o nessuno, in Italia, sarebbero stati così generosi per un pugno di pochi dollari. Capii una disciplina sconfinata, un rigore che lasciava poco o nulla al caso. Fui attratto dall’intreccio tra musica, teatro, immagini che Meredith, piccola, esile, sapeva creare sotto i nostri occhi, citandosi e provando cose nuove, improvvisate magari ma già ben definite.

Venni via con la convinzione che sperimentalità, in artisti come Meredith, significa dedizione assoluta, quasi religiosa, ma laica perché fatta di gesti e di voci privi di astrattezze o invocazioni. Misi questa convinzione nella valigia e mi trasferii in un altro quartiere di New York per andare a trovare Richard Foreman e il suo gruppo, al terzo piano di un palazzo semiabbandonato. Foreman aveva chiamato il gruppo Ontological–Hysteric Theater. Con ironia.

Nell’ appartamento ampio, dalle pareti scrostate, Foreman stava seduto in un angolo e orchestrava i suoi attori con sicurezza, dicendo poche parole, facendo ascoltare della musica. Se in Meredith avevo trovato cose in comune con l’estrosità di Memè o con il gusto surrealistico di Giancarlo, anche qui riscontravo la pratica comune di un rapporto con gli attori improntato più alla complicità che alla confidenza.

Ma se Meredith mostrava una disciplina forse ai nostri poco consona, Foreman sempre rispetto ai nostri mi pareva privilegiare un più stretto rapporto tra il testo da mettere in scena e i comportamenti degli attori (comportamenti non solo fisici). Anche qui, più metodo, più chiarezza, più attenzione. Convergenze e differenze, naturalmente.

Ecco il punto. Si può dire, scorrendo i 45 anni di attività, che Ellen Stewart a La Mama cominciò e sia rimasta fedele a un programma che lavora tra convergenze e differenze, senza forzature, spinta da un talento che non promuove per classificare ma sceglie per far conoscere e sorprendere. Come è accaduto, peraltro, per Dario Ambrosi che si presentò a Ellen, dopo Memè e Giancarlo a La Mama, e le propose i suoi spettacoli ispirati alla follia. Erano le proposte del “teatro patologico”, secondo la definizione inventata dallo stesso Ambrosi per Tutti non ci sono rappresentato per mesi a New York. Ambrosi aveva sconcertato i critici a Milano e a Roma. La Mama lo ospitò. Patologia sana del teatro. Non sempre quel che accende un inizio ha poi un itinerario infinito. La saggezza di Ellen è di saperlo.

                                               * * *

Da anni, dopo avere scritto di teatro per «Sipario», «Europeo» e «Tempo Illustrato», vado con disagio a vedere qualche spettacolo. Una delle ragioni è che il nostro paese non ha mai avuto un serio interesse per la sperimentazione. Non voglio prendermela con le istituzioni teatrali - gli Stabili e i Teatri Regionali o altri organismi più o meno analoghi -, sono vecchie polemiche che non hanno prodotto nulla. Come pure non serve soffermarsi sulle vicende del Ministero dello Spettacolo e poi dei Beni Culturali, con il corredo di infinite discussioni sui finanziamenti pubblici e il loro spesso mesto destino.

Non vale neppure la pena di ricordare che la stessa critica che aveva sostenuto l’avanguardia o la sperimentazione ad un certo punto, proprio negli anni Settanta, gli anni di piombo e delle derive ideologico-culturali, l’accusò, quelle poche volte che era avvenuto, di avere tradito la causa. Quale “causa”, poi? Quelle di fissare un mondo di talenti, speranze, promesse, illusioni in un ambito rigidamente definito, condannato e condannabile ad una autoreferenzialità senza sbocchi e soprattutto senza crisi. Contraddicendo quel che diceva e faceva il più grande dei nostri ricercatori, Carmelo Bene, che metteva in crisi, passato e presente, proprio per mettere in crisi il futuro. Un futuro che vedeva come ci si sta rivelando: in crisi.

L’idea di una Ellen qui da noi sarebbe un'altra tappa del sogno americano che continua. Può essere persino un’idea consolatoria. C’è tanto ancora da fare. Per capire quel che è successo negli ultimi vent’anni. Per togliersi di dosso un piccolo mondo antico che resiste, nonostante tutto, e tende a produrre qualcosa di simile a se stesso, togliendo la terra sotto ai piedi a chi vorrebbe camminare e non marciare nel solco.

Mi capita ogni anno di andare per lavoro all’estero. Anche là la situazione non è delle migliori. Se però m’informo e chiedo ad amici competenti a Parigi, New York, Londra e Berlino qualcosa o qualcuno di interessante salta sempre fuori. Rovescio la domanda: che cosa si può consigliare per quanto ci riguarda? Consigliare nel senso di segnalare uno spettacolo o un talento che non sia semplicemente una conferma ma anche solo un piede che s’inserisce tra la porta semichiusa e il vuoto. Preferisco tornare a Ellen e agli anni che ci siamo lasciati alle spalle, o meglio al periodo in cui il nomadismo tra la sperimentazione non solo era consigliabile ma era obbligatorio, al di là del bisogno costante che hanno i massmedia, specie i giornali, di tenere in vita facendo la respirazione bocca a bocca a questo o quell’altro, senza troppa convinzione, tanto per riempire pagine e minuti.

Ellen è una gagliarda sopravvissuta di una lunga stagione, verso la quale provo gratitudine e simpatia. Il suo nome fa parte di una compagnia di giro ideale dove figuravano i nomi e i gruppi sopra citati. Ai quali si possono aggiungere quelli di Jerzy Grotowski e Tadeuz Kantor.

Il teatro italiano s’inseriva, eccome, anche se non ha volato tra queste vette, a parte il Carmelo che appariva al teatro come se fosse… una madonna.

Ricordo con piacere festival e rassegne più o meno piccole in cui figuravano in prima fila proposte come Le 120 giornate di Sodomia che Giuliano Vasilicò aveva tratto dal testo del marchese De Sade inventando splendide immagini; o come gli spettacoli dei Magazzini Criminali diventati poi Magazzini e basta di Federico Tiezzi, Sandro Lombardi, Marion D’Amburgo. A proposito di Vasilicò. Parlava a stento, s’inceppava di continuo; ma quando era in scena le parole gli uscivano fluenti. Il teatro era il suo talismano.

Nella mia memoria, e da qualche parte, in libri storici che pur esistono, Vasilicò & Soci resistono alla prova del tempo. Il teatro era il loro talismano. Mentre sono morti definitivamente i gruppi di teatro politico, in cui si praticava lo straniamento brechtiano con zelo mistico.

Per concludere, quel che mi piace di Ellen, è il fatto che non vive di ricordi, e fa o tenta di fare. Instancabilmente. Mi par di poterla rivedere nella sua casa-bottega, a tessere altre tele. Lasciare che i morti seppelliscano i loro morti. Intanto, di sotto, nella strada che sembra comunque sempre un film (come diceva Memè), un altro piccolo salernitano lavora di ramazza. Ma non ne sono convinto. Al posto del piccolo salernitano e della sua ramazza ci saranno un messicano e un raccoglitore meccanico. Ai muri esterni di La Mama saranno appesi altri manifesti colorati. Poco lontano mani ignote avranno dipinto dei murales. Ellen nel frattempo arriva in Italia, e qualcuno ancora dall’Italia vola da lei. Finché funziona così, l’entusiasmo (anche solo un pizzico) non si spegne. A New York! A New York! A New York!. Con o senza Cechov in testa, meglio con.








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