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Francesca Simoncini

Eleonora Duse. Il lavoro dell’attrice sul testo

Data di pubblicazione su web 02/01/2006
Eleonora Duse interpreta Rebecca West
Tratto da Francesca Simoncini, Rosmersholm di Ibsen per Eleonora Duse, Pisa, Ets, 2005, pp. 58-89.


«Prego! Leggete –
Se la mia traduzione è mal fatta, e non va, vi SUPPLICO di dirmelo francamente […]. Mando questo lavoro che fra tre giorni "attaccherò" le prove a Firenze – e che darò a Milano (anche a Milano) verso il 15 del mese venturo. Oso appena mandarlo – perché ne ho fatto, io, da sola alla meglio la traduzione tanto quella di un certo Polese Santarnecchi era ignobile e traditrice.
Ho tradotto dal testo di Prozor = = vi mando anche il testo (Francese) – Perdonate se mal concio – ho lavorato e vissuto là sopra due mesi» (1).

Con queste parole Eleonora Duse, a stesura ultimata e ormai quasi alla vigilia della messa in scena, inviò la sua versione di Rosmersholm a Arrigo Boito, il compagno che aveva preceduto D'Annunzio e che per lei, nel 1888, aveva tradotto – anch'egli dal francese – l'Antonio e Cleopatra di William Shakespeare (2).

La lettera è priva di datazione, ma il riferimento alla rappresentazione milanese permette di collocarla con precisione nel novembre del 1905. I due intensi mesi di ‘vita’ e di ‘lavoro’ spesi da Eleonora Duse sul testo – divenuto per questo «mal concio» – ci riconducono così al soggiorno svizzero del settembre di quello stesso anno su cui già abbiamo raccolto le testimonianze di Lugné-Poe e di Matilde Serao, convergenti nell’indicare quel luogo e quel periodo come la scena e il momento dell’ultima e definitiva riflessione sul dramma.

A Lucerna, Eleonora Duse, dopo aver dato al Teatro Kursaal l’ultimo spettacolo di una tournée che dal marzo di quell’anno non le aveva concesso soste e che l’aveva portata a recitare davanti alle platee di quattro diverse nazioni, sciolse la compagnia e, allontanati finalmente i clamori del palcoscenico, trovò la necessaria tranquillità per fissare su carta il copione di Rosmersholm (3). L’edizione francese del conte Moritz Prozor, la traduzione ufficiale autorizzata da Ibsen è, per esplicita ammissione, il testo di riferimento su cui l’attrice scelse di modellare la sua versione italiana (4).

Non inganni tuttavia la lineare successione degli eventi. I fogli che Eleonora Duse si accingeva a riempire con la forza ambigua e attraente delle battute di Rebecca West non erano pagine vergini e l’intenzione di una fedele restituzione del dettato ibseniano, sia pure veicolato da Prozor, non era l’unica sollecitazione cui ‘l’attrice-drammaturga’ tentava di dare risposta scritta.

Le laboriose tappe di avvicinamento a Rosmersholm – ricostruite nel precedente paragrafo – non mostrano, infatti, soltanto il rigore e la serietà con cui Eleonora Duse intendeva rapportarsi al testo e al suo autore. Lugnè-Poe, l’organizzatore di quella estenuante tournée, aveva costantemente accompagnato l’attrice, seguendola nei suoi successi e secondandola nel desiderio, a più riprese manifestato, di leggere con lui il testo ibseniano. Quelle ripetute sessioni di lavoro, strappate al ritmo incalzante delle recite e condotte con l’evidente volontà di sondare le pieghe più riposte del dramma, appaiono in realtà molto simili a ‘prove di regia a tavolino’, tanto più importanti e significative, quanto anomale nella loro eccezionale modalità di svolgimento che mostra la più grande esponente del teatro d’attore italiano, per statuto e per prassi refrattario al teatro di regia, indurre, quasi costringere, uno tra i più importanti rappresentanti della nuova regia europea a studiare con lei il testo. Le barricate, erette a difesa delle due antagonistiche professioni, erano state d’un tratto abbattute e i due diversi sistemi teatrali, tra loro ostili e inconciliabili, si erano confrontati e avevano dialogato. Per volontà della prima attrice, per partecipe concessione del regista.

Il sorprendente incontro tra due mondi lontani e centripeti, instancabilmente perorato da Eleonora Duse, aveva, con ogni probabilità, svelato le principali linee del sottotesto ibseniano e adombrato le sue varie possibilità di interpretazione scenica. L’eco di quello scambio, appassionte e fertile, doveva essere ben viva e presente nella mente dell’attrice al momento in cui, fissato lo sguardo sulle parole francesi dell’ufficialmente fedele Prozor, si applicava a tradurre, per la prima e unica volta nella vita, il testo che avrebbe interpretato. Ma non dovette essere quella la sola distrazione, così come quello di Prozor non era l’unico libro che Eleonora aveva attentamente vagliato.

La traduzione «ignobile e traditrice» di un «certo Polese Santarnecchi» cui Eleonora Duse accenna nella lettera a Boito, era giunta nelle sue mani sicuramente prima del 13 maggio 1905. In quella data infatti lo stesso contestato Enrico Polese Santarnecchi – direttore, dal 1894, del periodico specializzato «L’Arte drammatica» e dell’agenzia teatrale a questo collegata – aveva dato per primo l’annuncio di una imminente rappresentazione di Rosmersholm anzi, della Fattoria Rosmer, da parte di Eleonora Duse. Allo scoop, il consapevole e ciarliero direttore, aveva aggiunto – come già abbiamo avuto modo di leggere – una curiosa notizia: «A proposito della stagione di Londra è assai probabile che essa vi rappresenti la Fattoria Rosmer di Ibsen di cui si fece già mandare il libro» (5).

Il libro in questione è, con ogni evidenza, la sua famigerata traduzione del dramma, la prima pubblicata in Italia, nell’anno 1894, per i tipi della casa editrice milanese Max Kantorowicz (ristampata, nel 1898, da Treves) con il titolo, appunto, La fattoria Rosmer. Si trattava del settimo volume della collana editoriale "Biblioteca Ibsen", che tra il 1892 e il 1895, aveva consegnato alle stampe ben quattordici opere del drammaturgo scandinavo (6). Otto tra queste erano state il frutto del lavoro di traduzione dal tedesco di Enrico Polese Santarnecchi e del Professor Paolo Rindler. A loro spettava, oltre alla proprietà letteraria riservata, anche il diritto di vietare o concedere il consenso di rappresentazione alle compagnie che ne avessero fatto richiesta (7).

Eleonora Duse, maturata l’intenzione di rappresentare Rosmersholm, si era dunque obbligatoriamente rivolta a Polese, il legittimo detentore dei diritti sulla traduzione e sulla sua messa in scena, per ottenere la versione italiana del dramma. L’operazione dovette peraltro riuscire particolarmente agevole poiché, nonostante la presa di distanza ostentata con Boito, in realtà Eleonora Duse conosceva bene l’uomo che per primo aveva introdotto Ibsen in Italia (8), frequentava con assiduità le pagine del suo giornale – ricche di notizie sulle principali rappresentazioni e su tutti i movimenti degli attori e delle compagnie nazionali – e spesso, come del resto ogni altro capocomico del tempo, si rivolgeva alla sua agenzia per scritturare gli attori delle formazioni comiche da lei guidate.

La doppia funzione di direttore dell’agenzia e del giornale conferiva, infatti, a Polese un ruolo di primo piano nella gestione del mercato teatrale italiano di fine Ottocento che egli sapeva abilmente controllare e condizionare. Le colonne de «L’Arte drammatica» riflettevano e divulgavano le sue opinioni, orientate a tutelare il sistema teatrale vigente e a contrastare ogni pericolosa innovazione in grado di indebolire una posizione nel tempo solidamente conquistata. Non sorprende quindi che in un momento storico in cui da più parti si cominciava a invocare l’abolizione dei ruoli, un maggior rispetto del testo e la necessità di un’attenta cura del ‘concerto’ egli si sia schierato risolutamente a difesa del ‘teatro all’antica italiana’ affermando la legittimità artistica della compagnia capocomicale, della specializzazione per ruoli, della supremazia dell’attore sul testo, dell’apertura incondizionata al repertorio straniero (9).

Le sue traduzioni si collocano all’interno di tale quadro storico e si inseriscono nel vivo di queste battaglie polemiche. Polese, probabilmente avvertendo la novità insita nella drammaturgia ibseniana e paventando la sua scarsa adattabilità al sistema dei ruoli del teatro italiano, cercò di impossessarsene per ricondurla entro forme consuete e riconoscibili. Seguendo questo principio acquistò otto drammi di Ibsen, li controllò, li tradusse, li addomesticò e li immise sul mercato ‘semplificati’ e ‘rimodellati’ in funzione della struttura della compagnia capocomicale, pronti per essere interpretati anche da quegli attori passivamente abituati a concepire la parte come pura e semplice filiazione di un ruolo.

L’operazione offrì a Polese un doppio vantaggio. Da una parte rese più facilmente vendibili i drammi di sua proprietà, con i relativi introiti che ne derivarono; dall’altra limitò la potenza innovativa di una drammaturgia che, per la sua sottile originalità, portava con sé il rischio di evidenziare i limiti e gli anacronismi di una prassi recitativa e di un’organizzione scenica ormai quasi al tramonto, accelerandone la crisi e evidenziando l’urgenza di quel rinnovamento che egli intendeva invece ritardare il più possibile.

La strategia, abilmente elaborata, ebbe immediato successo e furono molti i capocomici italiani che scelsero di rappresentare l’Ibsen da lui tradotto entro i codici non scritti della tradizione attorica italiana. La tempestiva rapidità con cui le rappresentazioni seguirono – e talvolta addirittura precedettero – la pubblicazione dei drammi di Ibsen rivisitati da Polese induce inoltre a sospettare che il faticoso lavoro di traduzione da lui assunto fosse originato dall’esistenza di preventivi accordi con i capocomici e a formulare l’ipotesi che questo non si conformasse soltanto su uno schema generico, collaudato e praticato da tutti, ma fosse calibrato sulle capacità e il particolare talento di determinati attori (10). Una genesi, questa, sicuramente costrittiva per la fisionomia dei copioni soprattutto se si considera che Polese, data la sua particolare posizione e la continua pratica nel settore, aveva piena conoscenza delle caratteristiche e delle capacità professionali di ogni attore e era quindi perfettamente in grado di modellare le sue traduzioni sulle qualità artistiche dei destinatari.

Come già era accaduto per Spettri anche per Rosmersholm fu Ermete Zacconi, allora primo attore della compagnia di Giovan Battista Marini, a rispondere per primo all’appello e a raccogliere la proposta scenica offerta da Polese. L’attore, che nel 1892 era stato l’indimenticabile interprete di un Osvald ridisegnato a sua misura, l’8 gennaio 1894 – lo stesso anno quindi della pubblicazione del dramma – vestì, al Teatro Gerbino di Torino, i panni dell’austero e tormentato pastore Rosmer.

Anche nel tradurre Rosmersholm (11), come già era avvenuto per Spettri, l’agente teatrale Enrico Polese Santarnecchi non si limitò a fornire alla compagnia una versione facilitata e banalizzata del testo, uniformato alla prassi recitativa dell’attore ‘medio’ italiano e ai gusti del pubblico chiamato a assistere alla rappresentazione ma, probabilmente pensando alla presenza di una star di prima grandezza come Ermete Zacconi, intervenne anche per esaltare il protagonismo dell’interprete maschile offrendo all’attore un’opportuna chiave di lettura su cui poter innestare il proprio bagaglio tecnico e la propria creatività, una base che gli avrebbe permesso di sviluppare al meglio il proprio incontrastato predominio scenico.

La formula, già sperimentata e magistralmente riuscita per Spettri, non ebbe però esito altrettanto felice per la messinscena di Rosmersholm. La recitazione di Zacconi fu infatti giudicata in questo caso noiosa e ‘monocorde’: «Lo Zacconi mi parve eccessivamente monotono. Bisogna però convenire che la sua parte è tutt’altro che facile e che trascina facilmente al contegno cattedratico» (12), annota il recensore de «L’Arte drammatica» cui fa eco quello della «Gazzetta Piemontese»: «Zacconi […] fu, come sempre un valoroso. Forse per un uomo che si fa apostolo di nuove idee di cui è convinto, sarebbe stato più nel vero dare alla sua parte una interpretazione meno calma» (13). Critiche non furono risparmiate neppure agli altri attori cominciando dall’interprete di Rebecca, Emilia Aliprandi Pieri, «troppo timida, troppo contegnosa» nel primo atto, per riuscire a incarnare una donna dalla «tempra selvaggia, indomita, ardente fino al sensualismo» della quale «ogni […] fibra deve avere uno scatto; ogni […] pensiero deve essere rivelato da un gioco particolare della fisionomia» (14) e finendo con Oreste Calabresi che «non capì perfettamente la macchietta di Ulrico Brendel» e:

«[…] caricò la tinta facendo di quel personaggio un brillante da farsa, almeno nella scena del primo atto, cui il pubblico applaudì perché rise e chi ride è vinto. […] Ibsen creando quel personaggio non intese farne un vagheggino che faccia roteare la canna (come fece il Calabresi) davanti alle belle signore, ma un esempio di quelli eterni illusi che passano la loro vita persuadendosi d’essere genii incompresi, e credono di trovare nel cinismo la manifestazione dei loro chimerici ideali» (15).

Unico a salvarsi dalle critiche dei severi recensori fu Libero Pilotto: «Mi piacque molto Pilotto nella parte di Kroll. Egli seppe essere un rappresentante del partito retrivo senza trascendere all’esagerazione che ne avrebbe fatto un don Basilio» (16).

Osservazioni di simile tenore furono rivolte anche agli attori della compagnia Boetti-Valvassura, che soltanto due mesi più tardi, il 28 marzo 1894, rappresentò il dramma, sempre nella traduzione di Polese, al teatro Filodrammatico di Milano. «L’esecuzione non fu tale da facilitare la comprensione intera del lavoro. I principali attori non entrarono bene addentro nello spirito del personaggio rappresentato» (17), nota Giovanni Pozza sul «Corriere della Sera» il cui parere è condiviso da Icilio Polese Santarnecchi, padre di Enrico, che recensisce lo spettacolo su «L’Arte drammatica»:

La Boetti era visibilmente in preda al timor panico, pur nonostante è riuscita a dare alla parte di Rebecca West una buona interpretazione, interpretazione che diverrà ottima, quando avrà rappresentato parecchie volte il lavoro; lo stesso devo ripetere a Campioni il quale dovrebbe procurare di imprimere al Pastore Rosmer maggiore severità, maggiore imponenza» (18).

Le osservazioni fin qui riportate in realtà non sorprendono. Molti dei limiti attribuiti dai recensori agli esecutori del dramma emergono già con evidenza dalla versione offerta da Polese alle due formazioni comiche. La sua riscrittura drammaturgica volta – come abbiamo detto – a favorire l’importanza dell’azione (interiore e esteriore) di Rosmer, rispetto a quella di Rebecca, toglie all’architettura della pièce la sua struttura portante e, paradossalmente, indebolisce le potenzialità del gioco scenico costruito da Ibsen per l’interpretazione maschile che trova consistenza solo se fatta interagire con la sfumata complessità recitativa della sua partner. Rebecca non è infatti unicamente il personaggio principale del dramma, ma anche quello cui viene affidato un fondamentale compito strutturale all’interno dell’intelaiatura drammatica. Il significato e l’andamento dinamico dell’azione si palesa, infatti, sulla scena attraverso il filtro della coscienza, a stento domata, di Rebecca. Le sue reazioni, i suoi turbamenti, il suo controllato nervosismo danno la misura, e costituiscono i segni, dell’effettiva importanza di ogni azione teatrale.

Nella versione approntata da Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi invece la recitazione varia, sfumata, spesso dissonante e contraddittoria di questo personaggio, costruita dall’autore attraverso un uso sapiente delle didascalie, risulta impietosamente appiattita entro una dizione e una gestualità infedelmente e dannosamente monocordi con evidente scapito, non solo della resa scenica della protagonista femminile, ma di tutto il dramma, così privato di una figura la cui funzione era quella di rischiarare e evidenziare i passaggi più oscuri e importanti del testo.

Certo, è plausibile che né la «timida» e «contegnosa» Emilia Aliprandi Pieri, né una Teresa Boetti «in preda al timor panico», fossero in grado di restituire correttamente la pluritonale interpretazione suggerita da Ibsen per un personaggio che si manifesta costantemente in bilico su un duplice codice espressivo, dove il tessuto verbale e quello gestuale raramente coincidono, anzi appaiono spesso dissonanti e costringono l’interprete a tenere contemporaneamente due tempi, due ritmi recitativi diversi e contrapposti. Tale tecnica attorica, tesa a accentuare la discordanza tra i mezzi espressivi utilizzati e indirizzata a illuminare la presenza, non rivelata, di un sottotesto, era sostanzialmente estranea alla tradizione del teatro ottocentesco italiano dove – pur con le dovute eccezioni – a ogni sentimento esplicitato corrispondevano di norma gesti convenzionali e fissi, universalmente riconoscibili e appartenenti a un repertorio di tipologie preesistente alla creazione di qualunque autore drammatico.

Polese, dunque, perfettamente consapevole dell’inconciliabilità delle due diverse visioni della tecnica attorica e conscio della qualità e dei limiti delle attrici che avrebbero dovuto incarnare il personaggio, gioca d’anticipo e predispone uno spartito semplificato, depurato da ogni possibile asperità interpretativa. Proprio quei passaggi del dramma in cui maggiormente si manifestano i termini di una scomoda dissociazione recitativa risultano pertanto distorti e appiattiti nella versione di Polese e ogni possibile dicotomia tra mimica e affabulazione appare se non proprio annullata, almeno drasticamente ridotta.

I primi interpreti di Rosmersholm dunque replicarono, talvolta amplificarono, i difetti già inscritti nella traduzione del dramma da loro inscenato. Le versioni di Polese infatti «precostituiscono una sorta di chiave registica, predispongono dei moduli entro i quali gli attori vanno automaticamente, quasi passivamente, a collocare le proprie performances, e sono perfettamente funzionali alla maggior parte delle tipologie interpretative della critica teatrale» (19).

Ma l’arbitrario ‘riadattamento registico’, riuscito magistralmente alla coppia Polese-Zacconi per la rappresentazione di Spettri, al punto da fare del dramma uno dei più solidi e duraturi ‘cavalli di battaglia’ dell’attore, mostrò nel caso di Rosmersholm qualche scricchiolìo. Critiche – lo abbiamo visto – non vennero risparmiate all’esecuzione «in più punti sbagliata» (20) e «suscettibile di molta perfettibilità» (21) e alcuni tra i più accorti fra i recensori cominciarono a comprendere che per allestire correttamente le opere di Ibsen occorreva una cura particolare che superasse i problemi connessi con la pratica recitativa per estendersi anche a quelli relativi alla messa in scena nel suo complesso. Più o meno come dire che la drammaturgia ibseniana invoca e pretende la figura del regista.

Di tutto questo, inevitabilmente, si accorse, per istinto, forse, prima ancora che per riflessione, Eleonora Duse, quando, nel marzo del 1905, mise in prova la pièce servendosi molto probabilmente della rimaneggiata Fattoria Rosmer, che portava il marchio di fabbrica della ditta Polese e Rindler. La storia fin qui ricostruita racconta che ella rifiutò poi sdegnosamente quel testo e ne rimase talmente insoddisfatta da decidere di procedere a una vera e propria riscrittura, traducendo nuovamente – da sé e per sé – il dramma.

Per riuscire al meglio nell’intento chiese e ottenne la consulenza registica di Lugnè-Poe, si procurò la versione, filologicamente attendibile, di Moritz Prozor, la confrontò con traduzioni inglesi e tedesche non meglio precisate e, infine, ne verificò l’effettiva correttezza sulla versione originale di Ibsen, avvalendosi dell’ausilio di una misteriosa consulente svedese.

Tra le numerose testimonianze che riferiscono del profondo scandaglio effettuato dall’attrice sul testo colpisce, una volta ancora, quella di Lugné-Poe: «elle prend la peine de traduire la pièce, reprenant avec un ami le texte allemand, avec une Svédoise, Mm W…, le texte norvégien, et tirant aussi parti de médiocres traduction italiennes» (22).

Il regista francese dimentica di annoverare, tra le altre, la versione inglese, ma fornisce un’indicazione per noi di grande interesse. Egli rivela che nel lavoro di ampia comparazione compiuto dalla Duse durante l’estate, sono comprese anche alcune parti tratte dall’’odiata’ traduzione italiana, di cui l’attrice sembra in parte appropriarsi. È davvero possibile questo? Difetta la memoria di Lugné-Poe – che giova ricordarlo scrive qualche anno dopo il verificarsi degli eventi – oppure non è del tutto sincera Eleonora Duse quando, chiedendo la supervisione letteraria di Arrigo Boito, getta il suo potente e completo ostracismo su quanto prodotto da Polese?

Per capirlo dobbiamo penetrare nel laboratorio di scrittura drammaturgica dell’attrice e cercare di scoprire la natura dei sedimenti che, durante le fasi preparatorie dell’allestimento scenico, si sono depositati tra le righe di una stesura che si annuncia altamente stratificata. Le tracce lasciate a nostra disposizione per ricostruire questo complesso percorso non sono complete. Perduta purtroppo la redazione integrale e definitiva del copione dusiano, rimangono tuttavia, conservati presso il Fondo Signorelli della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, alcuni importanti documenti.

Si tratta di due lezioni, una del primo, l’altra del secondo atto del dramma riconducibili a due diverse fasi di elaborazione. La versione relativa al primo atto è manoscritta e presenta numerose correzioni di mano della Duse. La seconda (probabilmente la copia per il suggeritore) è invece dattiloscritta e sostanzialmente pulita, fatta eccezione per un unico intervento sovrascritto dall’attrice su una battuta di Rosmer (23).

I copioni in nostro possesso, pur non riproducendo l’ultima e definitiva stesura del testo, ne mostrano però alcuni importanti processi evolutivi fissando il lavoro dell’attrice nel corso del suo svolgimento e congelandolo in due diverse fasi di elaborazione, precedente quella del primo atto, posteriore, e quindi più avanzata, quella del secondo.

Le carte relative al primo atto, fatta eccezione per le prime due scene e parzialmente per le ultime due, si presentano, sorprendentemente, come la fedele trascrizione della versione di Polese (24). Su questa si inserisce la matita, decisa e puntuale, di Eleonora Duse che corregge, smonta, integra, e riscrive traducendo da Prozor e allontanandosi progressivamente sempre più dal rifacimento-tradimento operato da Polese. Accetta Eleonora Duse, fino a quando le sembra possibile, un testo che evidentemente assume come piattaforma per il suo lavoro, ma non esita a censurare e ricomporre ex novo anche intere scene, quando la traduzione proprio non la soddisfa. Allora, con scrupolosa pazienza, riempie nuovi fogli di nuove fitte battute. Alcuni di questi fogli, inseriti tra le pagine del copione – cui si collegano tramite asterischi e altri rimandi grafici – sono intestati al «Savoy Hotel. Embankment Gardens» di Londra così come lo erano quelli utilizzati da Ciro Galvani per le sue annotazioni – da noi già frequentate – e su cui, l’8 giugno 1905, l’attore aveva appuntato: «consegna resto 4° atto Rosmersholm» (25).

Fu durante il soggiorno londinese dunque – durato dal 23 maggio al 15 luglio – che la capocomica, contemporaneamente alle recite di Pinero, Dumas, Sardou e D’Annunzio, tenute al Waldorf Theatre, mise a punto con gli attori le prove di Rosmersholm, già avviate a Parigi nel marzo. Proprio l’esperienza della recitazione dovette rivelare, in modo definitivo, l’inadeguatezza del copione di Polese. Memore delle conversazioni tenute con Lugné-Poe l’attrice pose allora mano alla penna per correggere e modificare, guardando con un occhio alla versione di Prozor, con l’altro alle esigenze dei suoi attori e consultando «una formosa signorina svedese» (26) – della cui presenza a Londra ci informa Ciro Galvani – per opportuni riscontri sul testo originale.

Al lavoro di vasta natura comparativa condotto da Eleonora sulla versione inglese, tedesca, francese, italiana e infine norvegese del testo, si aggiunse così anche quello di natura ‘consuntiva’ che la Duse rilevò ‘sul campo’, durante le prove allestite a stretto contatto con i suoi attori (27). La versione del primo atto a noi pervenuta testimonia proprio questa fase di rielaborazione in cui la Duse, che già aveva riveduto e modificato le scene che riguardavano in modo più stringente i movimenti del suo personaggio, si adopera per sistemare anche le altre parti, rivelatesi insufficienti al vaglio delle prove. Il suo modo di procedere è completo e capillare, ma si concentra più intensamente su alcuni passaggi e su alcuni personaggi. Primo fra tutti Ulrik Brendel, non a caso – come abbiamo visto – l’interpretazione più criticata all’indomani della prima rappresentazione nazionale del dramma.

Il personaggio era particolarmente caro all’attrice che si firma Brendel in alcuni telegrammi diretti a Lugné-Poe e in una lettera inviata, il 6 agosto 1905, da Ostenda a Adolfo Orvieto e che chiamerà Teatro Brendel il teatrino fiorentino di via Ghibellina, da lei utilizzato proprio per il perfezionamento di ulteriori sperimentazioni ibseniane, come si evince da questa interessante nota tratta da «Il Marzocco» del 20 settembre 1908:

«La prossima tournèe di Eleonora Duse si inizierà a Monaco di Baviera, ai primi del prossimo ottobre e si svolgerà nell’Europa centrale, specialmente in Germania. Questa tournèe, essenzialmente ibseniana, fu predisposta in quel teatrino di via Ghibellina, già dell’Accademia dei Fidenti, che da Eleonora Duse ebbe il nome augurale di "Teatro Brendel". Ripulito, com’è ora e accomodato con gusto, il Teatro Brendel se Firenze fosse Parigi, potrebbe prendere il posto di una di quelle salette per un pubblico eccezionalmente scelto di buongustai, vaghi di spettacoli d’arte, così prosperi altrove. Peccato soltanto che Firenze non sia Parigi! Coltivando con particolare predilezione il teatro di Ibsen, una forma teatrale cioè che ha corrispondenze profonde col suo temperamento artistico, ma che trova spesso i pubblici d’Europa più restii all’ammirazione, la Duse dimostra una volta di più di non voler riposare sugli allori: ma di trarre da ogni nuova vittoria stimolo ed incitamento a nuove battaglie».

Una lettera non datata, ma ascrivibile alla fine del 1906 o agli inizi dell’anno successivo, aggiunge particolari sulla costante premura manifestata da Eleonora Duse nei confronti della corretta resa scenica di questo personaggio. La lettera è indirizzata a Alfredo Robert, interprete di Brendel nel dicembre del 1906:

«Signor Robert
Brendel in Rosmer è l’apparizione la più breve ma la più luminosa dell’opera di Ibsen. Poiché il ruolo le appartiene pregola (poiché oggi non posso essere alla prova) dare alcuni schiarimenti di concerto al signor Cappelli, nostro nuovo compagno. Pregola seguirne le scene e dirgli il concerto tanto che la prova d’oggi non vada perduta. Domani proveremo tutti uniti al mio hotel. Grazie» (28).

La scena quinta del primo atto, teatro della prima apparizione di Ulrik Brendel (impersonato in scena e, molto probabilmente, durante le prove londinesi, da Agostino Borgato) è infatti tra quelle in cui la matita di Elenora Duse interviene più decisamente nel tentativo di restituire, a partire dalla riscrittura della didascalia iniziale (29), le sottili sfumature poetiche e simboliche attribuite dall’autore all’enigmatico personaggio. L’irrealizzabile e visionaria utopia di cui Brendel si fa portavoce riacquista così, nel copione della Duse, la dignità che la mutilazione di Polese le aveva sottratto confinando l’interpretazione di questa figura nella macchietta e nel ridicolo. Un rischio, questo, insito nel personaggio, al punto che lo stesso Ibsen non mancò di rivolgere in proposito accorate raccomandazioni agli attori che interpretarono il dramma al Teatro di Kristiania, l’attuale Oslo, il 12 aprile 1887: «Ovviamente non ho mai desiderato vedere Ulrik Brendel nelle mani di [un attore brillante come] Johannes Brun. Sarebbe pura follia» (30).

Gli interventi della Duse non si limitano però a ridisegnare unicamene la figura di Ulrik Brendel. Anche i ripetuti dialoghi tra il rettore Kroll e Rosmer, soprattutto quello, fondamentale, della scena sesta, in cui il pastore rivela la sua apostasia al cognato mettendolo a parte dei propri ideali, sono in buona parte interamente riscritti. Le battute che Eleonora Duse scrupolosamente ricompone non solo restituiscono fedeltà al dettato ibseniano proposto da Prozor, ma rendono più agile e scattante il dialogo, faticosamente schematico e pedante nella versione Polese. Nella rivisitazione operata dalla Duse il colloquio tra i due vecchi amici recupera così immediatezza e ‘teatralità’ arricchendosi di sfumature. Eccone un breve esempio:

Edizione Polese Copione Duse
ROS. Questo [sic!] sarà la tesi che presenterò al giudizio del popolo.

KROLL. Quale?

ROS. Tutti gli uomini debbono nobilitarsi lo spirito.

 

KROLL. Con quali mezzi?

ROS. Elevando ed educando talmente il loro spirito che questo possa dominare l’istinto.

KROLL. Rosmer, tu sei un sognatore. Come potrai innalzare ed educare lo spirito degli uomini? Come potrai dominare i loro istinti?

ROS. Io voglio solo indicare loro la via, tocca ad essi il percorrerla.

KROLL. E speri che lo potranno?

ROS. Sì

KROLL. Non avendo altro stimolo che la loro forza?

ROS. Sì

KROLL. (alzandosi) Solo un pastore può pensarla a questo modo.

ROS. Non sono più il pastore.

KROLL. Ma dunque la fede nella tua famiglia?

 

ROS. Non l’ho più; l’ho abbandonata, lo dovevo Kroll.

ROSM. Ecco perché voglio un regime popolare che risponda alla sua vera missione.

KOLL. Quale?

ROSM. Quello di nobilitare gli uomini

KROLL. Tutti?

ROSM. Almeno il [più possibile]

KOLL. Per quale mezzo?

ROSM. Liberando lo spirito, purificando la volontà.

KROLL. Tu sei un sognatore Rosmer. Tu vuoi liberare? Tu vuoi purificare?

 

ROSM. No, caro amico – io voglio soltanto risvegliare le loro coscienze – toccherà a loro, agire, poi.

KROLL. E tu li credi in grado di farlo?

ROSM. Sì

KROLL. Per propria forza – vero?

ROSM. Sì per la propria forza – non ne esiste [sic!] altre.

KROLL. (alzandosi) Ed è così che può parlare un prete!?

ROSM. Non sono più prete.

KROLL. Ma la fede della tua famiglia?

ROSM. Non l’ho più

KROLL. Non l’hai più?

ROSM. (alzandosi) L’ho abbandonata – dovevo abbandonarla – Kroll.


 

Ma veniamo a Rebecca. Le prime due scene del dramma, che vedono la protagonista femminile incontrastata padrona della scena, sono, nel copione dusiano, quelle che più si discostano dall’edizione di Polese. La revisione compiuta dall’attrice è infatti qui fissata a uno stadio di avanzamento maggiore rispetto alle altre parti del testo. Segno, evidente e comprensibile, che il lavoro sul personaggio è stato il primo su cui si è concentrata l’attenzione di Eleonora Duse che solo successivamente, ma comunque con estrema cura e rigore, si è dedicata alla ricomposizione dell’intera pièce.

[leggi la seconda parte del saggio]

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NOTE

(1) La lettera, pubblicata in Eleonora Duse-Arrigo Boito, Lettere d’amore, a cura di Raul Radice, Milano, Il Saggiatore, 1979, pp. 971-972, è senza data, ma sicuramente riconducibile al novembre 1905, come nota Roberto Alonge, Ibsen. L’opera e la fortuna scenica, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1995, p. 109 e p. 139. Riproduco qui la veste grafica proposta da Raul Radice.

(2) Sul copione di Boito e sullo spettacolo di Antonio e Cleopatra si veda Laura Vazzoler, Eleonora Duse e Arrigo Boito: lo spettacolo sull’"Antonio e Cleopatra" di Shakespeare, in «Biblioteca Teatrale», nn. 6-7, 1973, pp. 65-119.

(3) Concluso il ciclo delle recite parigine Eleonora Duse si recò dal 23 maggio al 15 luglio, a Londra, dove recitò al Waldorf Theatre, quindi proseguì per Bruxelles (16-27 luglio, Theâtre de la Monnaie), Ostenda (28 luglio-18 agosto, Noveau Theâtre), Vichy (20 agosto-5 settembre, Theâtre du Casino e Grand Theâtre de la Ville) e giunse infine a Lucerna (6-9 settembre, Kursaal) dove il 9 settembre 1905 concluse la tournée e sciolse la compagnia. L’attrice aveva in repertorio Hedda Gabler di Henrik Ibsen, I bassifondi di Maksim Gor’kij, La signora dalle camelie, La moglie di Claudio e Una visita di nozze di Alexandre Dumas fils, La locandiera di Carlo Goldoni, Casa paterna di Hermann Sudermann, La seconda moglie di Arthur Wing Pinero, Odette e Fedora di Victorien Sardou, La Gioconda di Gabriele D’Annunzio, Monna Vanna di Maurice Maeterlinck. Gli attori in compagnia erano Carlo Rosaspina, Maty Wilson, Ciro Galvani, Annunziata Mazzini, Antonio Galliani, Modesta Bergonzio, Ettore Mazzanti, Maria Pavanelli, Agostino Borgato, Ubaldo Stefani, Guglielmina Galliani, Vittorio Rossi Pianelli, Luigi Chiesa, Alfredo Geri. L’amministratore della compagnia era Ettore Mazzanti e l’impresario e organizzatore della tournée Aurelièn Lugné-Poe. Sulla presenza di Eleonora Duse a Londra si veda l’intervento di Susan Bassnett, Eleonora Duse in Inghilterra, in «Ariel», VI, nn. 1-2, gennaio-agosto 1989 (numero speciale dedicato a Eleonora Duse), pp. 55-60.

(4) Henrik Ibsen aveva investito il diplomatico di origine lituana Moritz Prozor anche della cura dei suoi interessi in Francia e nei paesi latini. Anche Luigi Capuana si affidò alla traduzione di Prozor per la sua versioni di Casa di bambola, andata in scena il 9 febbraio 1891 al teatro Filodrammatico di Milano con Eleonora Duse interprete di Nora. Si veda la lettera indirizzata da Ibsen a Prozor il 23 gennaio 1891 ora pubblicata in Henrik Ibsen, Vita dalle lettere, a cura di Franco Perrelli, Milano, Iperborea, 1995, pp. 157-159.

(5) «L’Arte drammatica», 13 maggio 1905.

(6) Questo l’elenco delle opere di Ibsen stampate dall’editore Max Kantorowicz: 1) Le colonne della società (1892). Traduzione autorizzata sull’edizione originale di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 2) Spettri (1892). Versione in italiano di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 3) Hedda Gabler (1893). Versione in italiano di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 4) Il costruttore Solness (1893). Versione in italiano di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 5) La signora Inger di Oströt (1893). Traduzione italiana di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 6) La donna del mare (1894). Versione in italiano di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 7) La fattoria Rosmer (1894). Traduzione italiana di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 8) Casa di bambola (1894). Traduzione dal francese di Luigi Capuana; 9) L’anitra selvatica (1894). Traduzione italiana di Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi; 10) Spedizione nordica (1894). Traduzione italiana di Paolo Rindler; 11) La festa di Solhaig (1894). Traduzione italiana di Paolo Rindler e di Oreste Poggio; 12) Nemico del popolo (1894). Traduzione di Cesare Gabardini; 13) I pretendenti della corona (1895). Prima traduzione italiana dall’originale norvegese di A.G. Amato; 14) La lega della gioventù (1895). Traduzione di Giuseppe Oberosler.

(7) Ogni volume della "Biblioteca Ibsen" edito da Max Kantorowicz e tradotto da Rindler e Polese reca in prima pagina la seguente dichiarazione: «Proprietà letteraria, riservati tutti i diritti, vietata la rappresentazione senza il consenso dei traduttori». Inoltre su alcuni numeri de «L’Arte drammatica» di quegli anni appare, pubblicato con costante insistenza, un elenco di commedie «di proprietà assoluta per tutta l’Italia geografica» di Rindler e Polese che, ovviamente, comprende i drammi di Ibsen da loro tradotti, con il seguente avvertimento: «Questi lavori vennero tutti tradotti dai sottoscritti, i quali, essendo tutelati dalla legge sui diritti d’autore vigente in Italia, ne proibiscono a chiunque la rappresentazione e pubblicazione senza loro autorizzazione o del loro rappresentante Dottor Icilio Polese Santarnecchi, Via S. Zeno 9, Milano». La dichiarazione è firmata: Prof. Paolo Rindler e Enrico Polese Santarnecchi.

(8) Sulla funzione di Enrico Polese Santarnecchi quale divulgatore e traduttore di Ibsen in Italia e sulle modalità della sua operazione si vedano di Roberto Alonge, "Spettri", Zacconi e un agente tuttofare: traduttore, adattatore (e anche un poco drammaturgo), in «Il castello di Elsinore», n.1, 1988, pp. 69-94; Id., Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 195-202; Id., Ibsen. L’opera e la fortuna scenica, cit., pp. 83-105; Francesca Simoncini, Strategie della scena di fine Ottocento. Le prime traduzioni italiane di Ibsen: «L'anitra selvatica" e «Spettri», in «Il castello di Elsinore», n.16, 1993, pp. 123-142.; Francesca Malara, La traduzione di Polese e Rindler, in Henrik Ibsen, Il costruttore Solness, a cura di Francesca Malara, trad. it. di Roberto Alonge, Genova, Costa & Nolan, 1999, pp. 232-255; Francesca Malara, Copioni e drammaturgie di fine Ottocento, Milano, LED, 2000, pp. 51-83.

(9) Alcune di queste prese di posizione sono rinvenibili nei numeri dell’«Arte drammatica» del 15 aprile 1893 (articolo intitolato Un po’ più di cortesia), del 2 settembre 1893 (articolo intitolato In risposta al critico g.p. del "Corriere della Sera"), del 10 agosto 1895 (articoli intitolati A c.b. della "Sera" e In difesa dei comici. A c.b. della "Sera"; del 1°aprile 1893 (articoli intitolati È falso e Al signor s.b. de "La tribuna").

(10) Queste le prime rappresentazioni allestite con la traduzione di Polese e Rindler: L’anatra selvatica, andata in scena il 26 settembre del 1891 al Teatro Manzoni di Milano per opera della compagnia di Ermete Novelli e Claudio Leigheb. Il testo fu pubblicato da Max Kantorowicz nel 1894; Spettri, rappresentata il 22 febbraio 1892 al Teatro Manzoni di Milano dalla compagnia del cavalere Giovan Battista Marini con Ermete Zacconi nella parte di Osvaldo. Il testo è pubblicato da Max Kantorowicz nello stesso 1892; Hedda Gabler, rappresentata al Teatro Filodrammatico di Trieste dalla compagnia di Italia Vitaliani e Antonio Salsilli il 5 aprile 1892 e dalla compagnia di Cesare Rossi con Teresa Mariani nella parte della protagonista, a Torino, il 15 giugno 1892. Il testo è pubblicato da Max Kantorowicz l’anno successivo; Le colonne della società, allestito dalla compagnia di Cesare Rossi, il 24 novembre 1892, al teatro Filodrammatico di Milano; Il costruttore Solness, allestito dalla compagnia di Virgilio Talli e Ettore Paladini, il 18 marzo 1893, al Teatro Valle di Roma. Il testo fu pubblicato da Max Kantorowicz nello stesso anno; La fattoria Rosmer, rappresentata l’8 gennaio 1894, al Teatro Gerbino di Torino, dalla compagnia di Giovan Battista Marini, con Ermete Zacconi nella parte di Giovanni Rosmer. Max Kantorowicz pubblica il testo nello stesso anno; La donna del mare, messa in scena il 3 febbraio 1894, al Teatro Filodrammatico di Milano, dalla compagnia di Ernesto Della Guardia e di Andrea Beltramo con Clara Della Guardia nella parte di Ellida. Il testo è pubblicato da Max Kantorowicz nello stesso anno.

(11) Sulla traduzione di Rosmersholm fatta da Polese si veda Francesca Malara, Copioni e drammaturgie di fine Ottocento, cit., pp. 71-83.

(12) «L’Arte drammatica», 13 gennaio 1894. Questa recensione e le successive relative allo spettacolo sono citate anche in Roberto Alonge, Ibsen. L’opera e la fortuna scenica, cit., pp. 97-100.

(13) «La Gazzetta Piemontese», 9-10 gennaio 1894.

(14) «L’Arte drammatica», 13 gennaio 1894. L’interpretazione di Emilia Aliprandi Pieri migliorò tuttavia negli altri atti. Nota infatti il critico: «nei rimanenti atti essa fece assai meglio e capì che anche conservando la cornice della freddezza nordica si poteva far capire al pubblico che sotto la neve possono ardere i vulcani».

(15) Ibidem.

(16) Ibidem.

(17) «Corriere della Sera», 29-30 marzo 1894.

(18) «L’Arte drammatica», 31 marzo 1894.

(19) Roberto Alonge, Ibsen. L’opera e la fortuna scenica, cit., pp. 93-94.

(20) «L’Arte drammatica», 13 gennaio 1894. Il critico, che si firma Momus, muove consistenti appunti anche all’allestimento scenico: «Trovai deficiente la messa in scena. Certe oleografie di tipi ridicoli adornanti le pareti del salotto del primo atto, certi mobili, certi scenari, io li metterei subito da parte. Un lavoro di Ibsen merita rispetto, non soltanto riguardo l’esecuzione, ma anche per ciò che ha tratto alla scenografia e all’arredamento». La mancata cura della scenografia viene denunciata anche dal recensore della «Gazzetta Piemontese» dell’8-9 gennaio 1894: «Dell’esecuzione e della messa in scena ci duole parlare con severità. Messa in scena poco rispondente alla verità dell’ambiente».

(21) «L’Arte drammatica», 31 marzo 1894.

(22) Aurélien Lugné-Poe, La Parade. Sous les étoiles. Souvenirs de théâtre (1902-1912), Paris, Gallimard, 1933, p. 131. Miei i corsivi. Sulle fonti cui attinge Eleonora Duse per la sua traduzione si vedano, oltre la già citata lettera a Boito, anche «L’Arte drammatica» del 2 dicembre 1905 e «Il Marzocco» del 9 dicembre 1906.

(23) Tra le carte custodite presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia è rinvenibile anche un foglio sciolto, dattiloscritto, che riproduce alcune battute tra Rosmer e Rebecca pronunciate nell’ultimo atto e un foglio autografo della Duse che riporta alcune battute della prima scena del terzo atto. Vi è inoltre conservata una copia dell’edizione di Moritz Prozor con alcune sottolineature di mano della Duse. Una pagina autografa della Duse relativa al quarto atto è stata pubblicata in Aurélien Lugné-Poe, Ibsen, Paris, Les Editions Rieder, 1936, tav. XXX.

(24) Lina Vito, che nel saggio Eleonora Duse tra Lugné-Poe e Gordon Craig, pubblicato in «Biblioteca Teatrale», n. 39, luglio-settembre 1996, pp. 93-112 accenna brevemente alla stesura del primo atto di Eleonora Duse, considerandola «una traduzione pressochè letterale del testo francese pubblicato da Prozor nel 1891» (p. 105), pur citando la traduzione di Polese non individua alcun rapporto diretto tra questa e il copione della Duse.

(25) Roma, Museo Biblioteca Teatrale del Burcardo, Fondo Luigi Rasi, Autografi. Ciro Galvani, c.n.n.

(26) Idem.

(27) Con il termine «consuntiva» intendo qui riallacciarmi a quanto sostenuto e scritto da Siro Ferrone negli interventi Drammaturgia e ruoli teatrali in «Il Castello di Elsinore», n. 3, 1988, pp. 37-44 e La drammaturgia "consuntiva" in Non cala il sipario. Lo stato del teatro, a cura di J. Jacobelli, Bari, Laterza, 1992, pp. 97-102.

(28) La lettera è pubblicata in Luigi M. Personè, Fedelissima della Duse. Scritti di Enif Angiolini Robert, Prato, Società pratese di storia patria, 1988, p. 223.

(29) Così si presenta in scena Ulrik Brendel nella traduzione di Enrico Polese: «Ulrico Brendel con capelli e barba grigi è un uomo di figura magra e portamento elegante, dai movimenti vivacissimi: veste abiti sdruciti scarpe rotte e non porta soprabito, calza vecchi guanti neri ed ha sotto al braccio un logoro cappello a cencio. Tiene un bastone in mano». La Duse trasforma: «È un uomo di bella presenza – il viso un po’ rugoso – ma agile e sciolto nei movimenti – Barba e capelli grigi – Del resto, è vestito come un semplice vagabondo – abito usato, calzatura in cattivo arnese – non camicia visibile al collo – guanti neri logori – cappello a cencio, e sudicio, sotto al braccio – una bacchetta alla mano».

(30) Henrik Ibsen, Vita dalle lettere, cit., p. 137.

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[leggi la seconda parte del saggio]






 
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