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Giulia Tellini

Parte terza - Medea da Adelaide Ristori a Giacinta Pezzana

Data di pubblicazione su web 13/10/2005
Giacinta Pezzana nella Teresa Raquin (atto IV)
Parte terza
3. Una, nessuna e centomila


Purtroppo il copione di Medea è con molte probabilità finito nel falò che ha decretato la fine di tutte le carte appartenute alla Pezzana. Dopo la sua morte infatti, il compagno Pasquale Distefano – costretto, per motivi economici, a lasciare la casa di Aci Castello – affidò ad Agata Barbagallo, un’amica di Giacinta, tutte le sue carte perché le bruciasse.

A proposito dello spettacolo, rimangono – pubblicate su vari quotidiani dell’epoca – alcune recensioni grazie alle quali si possono individuare le fasi attraversate dallo stile recitativo, in continuo mutamento, della Pezzana negli anni che vanno dal 1875 al 1907[1].

Fatta eccezione per «La donna», quasi completamente vergata da penne femminili, al resto dei giornali italiani collaborano uomini che invece di esplorare analiticamente Medea come personaggio e la Pezzana come persona, preferiscono fornire uno sguardo panoramico – e insieme sintetico - sullo spettacolo inteso come unione di testo (la Medea di Legouvé nella traduzione di Montanelli, famosa ma, come si è già detto, di qualità discutibile), di interpretazione e di messa in scena.

Nel 1875, su «Il pungolo» di Milano, un anonimo giornalista, identificabile col drammaturgo Leone Fortis, direttore del giornale, recensisce la Medea della Pezzana vista al teatro Dal Verme:

La Medea di Legouvé è come è noto, entrata da lungo tempo nel nostro repertorio tragico a quello stesso modo e per quello stesso titolo che certi insignificanti geroglifici musicali entrano ogni dì sul programma dei concerti. Sono cimenti di bravura a cui gli artisti, anche grandissimi, si mettono volentieri. Tragedie come questa Medea vanno meravigliosamente al gusto della parte incolta del publico; ma gl’intelligenti fanno loro mal viso. – Quanto a noi, non abbiamo mai avuto tenerezza alcuna per questo lavoro della più vecchia scuola, quella del convenzionalismo, come non ne abbiamo per alcuno di quei lavori in cui si sagrifica al mestiere, al successo. Ci volle dunque tutta l’ammirazione che noi abbiamo per la Pezzana a farci andare ieri sera sino al Dal Verme. Ma dobbiamo qui subito confessare che la nostra abnegazione non fu troppo penosa, anzi non fu abnegazione niente affatto. Siamo rimasti sino al fine incatenati al nostro posto dalla potente esecuzione della protagonista[2].

Il testo di Legouvé – come avrebbe detto Proust - è per l’attrice soltanto la materia pressocchè indifferente per creare il suo capolavoro di interpretazione. Interpretazione caratterizzata anzitutto da una “potenza” che sarà sempre cifra stilistica della Pezzana e delle sue future Medee.

La signora Pezzana ha ieri sera superato se stessa; ha creato quella parte di Medea. Gli strazi, gli spasimi, le furie della terribile figlia della Colchide, ci furono ieri sera presentati, non come l’immaginava il talento mediocre dell’autore francese, ma quali ci furono tramandate dalla cupa tradizione greca. La Pezzana ha in essa il gesto, gli atti, la terribile imponenza della Ristori; ha più di lei la verità del dolore, l’accento della passione. E’ grande come lei ma è più commovente. Nelle scene con Giasone è ammirabile, in quelle coi figli nei due ultimi atti è inarrivabile: è la Mater dolorosa, è la Niobe, è tutto ciò che di più bello e di più idealmente vero ha ispirato il dolore alle arti rappresentative. E qui ci fermiamo perché dopo questo volendo far un’analisi più minuta, dovremmo fare una lunga filza di superlativi[3].   

Fortis descrive l’interpretazione della Pezzana in modo molto simile a come, nel febbraio di quello stesso anno, Ignacio Manuel Altamirano, oltreoceano, aveva descritto quella della Ristori[4]. La Medea della Pezzana trentaquattrenne «è la Mater dolorosa, è la Niobe»: l’attrice esita ancora a staccarsi dalle “movenze irrigidite”[5] della Ristori ma, nel rappresentare il dolore, è più vera e, di conseguenza, più commovente di lei. L’arte per la Pezzana non è un lavoro né una fabbrica di gloria[6] ma una missione, un sofferto transfert, un sacrificio – molto penoso - del sentimento alla verità e la sola ancora di salvezza[7].

 Due giorni dopo, Eugenio Torelli-Violler scrive su «La Lombardia»:

La Medea recitata dalla Pezzana è lavoro d’Ernesto Legouvé […]. Il Legouvé, scolaro e collaboratore di Scribe, è uomo molto pratico del teatro, ed una prova della sua esperienza e del suo tatto sta nell’aver dato alla sua Medea tre atti invece de’ soliti classici cinque atti. Io non nutro contro la tragedia l’avversione di quel tale che scrisse una «Memoria in favore dell’abolizione della pena della tragedia»: confesso che una bella tragedia classica, recitata da artisti del valore della Pezzana, di Salvini o di Ernesto Rossi, mi piace. Mi piacciono i bei versi, le alte sentenze, i nobili atteggiamenti, le ben sonate declamazioni; ma confesso che cinque atti di tutto ciò mi riesce monotono. Il Legouvé ce ne ha dati tre soli ed ha fatto bene. Egli ha abilmente profittato di quanto contengono di buono le molte Medee de’ tragici che lo precederono, ed ha creato un dramma rapido, vigoroso, efficace. Certo, in parecchie scene, appare il mestiere: si vede che l’autore si propone, non tanto di fare un alto lavoro poetico, quanto di offrire una bella parte all’attrice protagonista. Egli ha composto la sua tragedia, dosandone abilmente gl’ingredienti, da cuoco più che da poeta. L’ha scritta come Sardou scrive le sue commedie. Tuttavia il suo lavoro è pregevolissimo, ed i giovani possono studiarlo con frutto[8].

Rispetto a Fortis, Torelli-Violler si accanisce meno contro Legouvé e prende una rincorsa di varie righe per osannare, nella seconda metà dell’articolo, l’interpretazione della Pezzana:       

 
Nella Medea la signora Pezzana mi ha soddisfatto assai più che nelle altre produzioni. Nella Maria Stuarda non mi colpirono che la soavità e la potenza della sua voce; nel Cuore ed arte ella mi piacque soprammodo nella declamazione dell’ultimo atto, ma mi spiacque nel penultimo. Nella Medea mi piacque, mi meravigliò e m’esaltò dal principio alla fine. Mi par di vederla ancora, quando, dopo aver ucciso i figli, proferisce quel famoso tu che chiude la tragedia e che ricorda il Medea superest di Seneca ed il moi di Corneille: la tunica di rosso acceso, sulla quale è gettato un mantello d’un rosso bruno, par tutta sangue, e sangue pare che grondi da tutto il suo corpo. E su quel cruento abbigliamento sorge quella sua testa classica, che ricorda la Niobe del Museo Vaticano e la Medusa del Museo di Napoli, ed i suoi capelli piovono in lunghe matasse rigide che paiono serpenti[9].

La Pezzana – con suggestiva climax – piace, meraviglia ed esalta Torelli-Violler. Il suo  profilo è classico e la sua figura, come quella della Ristori, ricorda da una parte l’immagine del dolore – la Niobe (che si trova dal 1779 alla Galleria degli Uffizi) – e dall’altra quella del furore - la Medusa. Mentre i tableaux vivant, che cristallizzavano la Ristori in pose di studiata e didascalica solennità si avvicendavano – come diapositive – nel corso dello spettacolo, le “inquadrature” predisposte dalla Pezzana per la sua Medea sono invece montate insieme cinematograficamente, in modo veloce e insieme fluido. Quanto all’abbigliamento e all’acconciatura non potrebbero ricordare meno quelli della Ristori. La tunica arancione della Medea ristoriana, «edged with a maroon border of Greek pattern forms», era messa in risalto «by a perfectly plain blue mantle»[10]. La tunica e il manto della Pezzana sono rossi e l’attrice «par tutta sangue». I suoi capelli neri, come i serpenti della Medusa, sono lasciati ricadere sulle spalle «come lunghe matasse rigide»: quelli della Ristori erano raccolti e intrappolati in una rigida messa in piega[11].

Torelli-Violler accenna quindi al collega Filippo Filippi, il critico de «La Perseveranza» amico di Cameroni, che apprezzava la Pezzana solo negli edificanti drammi nazionali di Torelli che conciliavano «la pratica borghese con gli ideali aristocratici, le passioni individuali con il quadro sociale, la coralità e i duetti lirici con il recitativo prosaico, il “vero” con il “bello” e con il “buono”[12]»:

Il Filippi deplora che la Pezzana abbia rinunziato alla commedia per la tragedia, e rimpiange i tempi in cui recitava le produzioni di Achille Torelli: io credo invece che la tragedia sia il fatto suo, e quanto più fiera e violenta sia una parte, tanto più convenga alle sue forme matronali, alla sua voce tonante, al suo temperamento esuberante e più maschile che femminile[13].

L’eclettismo della Pezzana naturalmente non esclude nessun genere drammaturgico e nessun ruolo. Oziosa dunque la diatriba tra Filippi e Torelli-Violler che compie anche l’errore di definire «maschile» il temperamento di una esuberante artista specializzata nel ruolo di Medea. L’esuberanza, anche etimologicamente, è una virtù femminile più che maschile. 

Intanto su «L’Arte Drammatica» del 18 settembre 1875, il critico letterario e drammatico Felice Cameroni, affetto – per sua esplicita dichiarazione - da «monomania realista»[14] e corrispondente di Zola, intrattiene una delle sue polemiche aperte col  proprietario della rivista Dip (alias Icilio Polese Santernecchi):

A Dip, fanatico per la Pezzana e […] al suo ultimo entrefilet, apologista per la Compagnia Pezzana e stranamente acerbo per la Compagnia Pietriboni, […] rispondo con queste poche righe. La Compagnia Pezzana viene applaudita in causa della celebre attrice, che ne forma il pregio essenziale; la Compagnia Pietriboni non vanta alcuna stella nel proprio orizzonte, ma la supera di gran lunga nell’assieme. […] Là il repertorio classico, tragico, melodrammatico, per un  breve corso di recite; qui la commedia Goldoniana e le produzioni moderne[15].

Ancora Cameroni nello stesso numero de «L’Arte Drammatica» parla della Medea della Pezzana:

Sabato, Medea di Legouvé, una di quelle tragedie che fanno andar in visibilio i ghiottoni della rettorica, gli spasimanti della plastica, gli idolatri del convenzionalismo. Unica attenuante, l’esser in tre, anziché nei cinque atti di rigore e l’offrir occasione d’applausi alla prima attrice, sotto il classico peplo. La Pezzana ebbe istanti di tenerezza materna, commoventi davvero ed impeti di collera da metter i brividi, ma non mancarono le volatine, gli sforzi della voce e le altre inevitabili compagne della declamazione, nemica naturale della verità[16].

La Medea di un poeta classicista francese, divenuta famosa grazie a un’attrice italiana oscillante fra neoclassicismo e romanticismo, viene rappresentata da un’attrice che - definita “romantica” – recita drammi veristi e, convinta – insieme a Shakespeare – che nella vita il sublime e il ridicolo si contendano il primato[17], si abbandona alla propria naturale inclinazione a oscillare – senza trovare mai un equilibrio – da un estremo all’altro: dall’amore all’odio, dall’idealismo più delirante all’amarezza, dall’ironia (e dall’auto-ironia) alla retorica. 

Ammiro nella Pezzana la prima fra le nostre tragiche, ma la ricordo con maggior compiacenza al vecchio Re, nella commedia e nel dramma dei nostri giorni. […] E’ con una compagnia, quale la Bellotti-Bon dei tempi migliori, con un repertorio verista ed al teatro Manzoni, che amerei vedere la Pezzana, oggi ancora prima fra le attrici italiane, … quando lo vuole![18]    

Icilio Polese quattro pagine dopo risponde al Pessimista (alias Felice Cameroni):

Il mio, caro Pessimista, non chiamasi fanatismo quello che sento per la Pezzana, ma chiamasi invece riconoscere il suo merito; questa è la mia premessa. […] In quanto poi al paragone che tu fai della compagnia Pezzana con quella di Pietriboni non so davvero come ti sia saltato in mente […]. Ma già… a che discuto con te? A te che non piacque la Pezzana nella Medea – inutile dunque che io tenti di convincerti – però fu convinto il pubblico e tutta quanta la stampa (eccetto te) del fanatismo destato dalla Pezzana[19].  

Nel frattempo passano sei anni. La Pezzana si è separata dal marito e vive una relativamente breve (cinque anni) quanto intensa storia con l’attore Angelo Diligenti. Sul «Corriere della sera» del 2 agosto 1881 compare questo  articolo:

Il pubblico accorso iersera al Dal Verme, per assistere alla rappresentazione della Medea fu più numeroso di quello di sabato sera. La Pezzana, diciamolo subito, è stata grande in ogni scena. Quando si presentò al pubblico, con quell’ampia veste di color rosso scuro, coi neri capelli disciolti, col pallido viso nobilmente altero, tenendo stretti ai suoi due fianchi i due figliuoletti, pareva la statua del dolore, e l’applauso, che era preparato per salutarla, cedette un istante alla subita commozione degli spettatori[20].

Fin dal primo momento, Medea, «coi neri capelli disciolti, col pallido viso nobilmente altero», è la protagonista di un dramma verista. La soluzione scenica dell’attrice che si presenta al pubblico «tenendo stretti ai suoi due fianchi i due figliuoletti» è molto più avvolgente e naturale di quella, oltretutto scomoda, della Ristori, che si presentava al pubblico con un bambino in collo sorretto da entrambe le braccia e l’altro appoggiato al braccio sinistro: un’immagine che produceva l’immediato effetto di comunicare al pubblico un’idea di parzialità se non addirittura di ingiustizia (i figli della Medea di Legouvé sono infatti gemelli).  

Nella seconda parte, la recensione vira decisamente sul versante descrittivo:

La Pezzana disse poi il racconto con Creusa, con una dolcezza di suoni, una intensità d’affetto, e in fine con tale una disperazione, da venire interrotta più e più volte dagli applausi. Nel secondo atto il pubblico attendeva la grande artista alla scena di gelosia con Giasone. Quando Medea per indurre il suo sposo a non abbandonarla, teneramente gli ricorda i bei momenti del primo amore, quando con affetto di madre gli rammenta i suoi figli, e finalmente quando irata gli dice: non si può spezzare questa catena d’amore, il cui primo anello fu un delitto, la Pezzana fece scattare in piedi gli spettatori, a cui il solito applauso pareva piccolo tributo di ammirazione. E mise spavento allorchè, mentre cadeva lentamente la tela alla fine del secondo atto, rincantucciata dietro ad una colonna, disse fremendo: Ho trovata alfine la mia vendetta. Le scene del terzo atto tennero profondamente attento e trepidante il pubblico, quando finalmente Giasone piangente chiede: Chi uccise i miei figli? – la Pezzana che teneva velata la faccia per l’orrore del delitto commesso, si rialzò maestosa nella sua ferocia, fissò in viso Giasone e rispose: Tu, come certamente oggi nessun’altra artista potrebbe fare[21].

Il giornalista cita alcune battute della protagonista: la Pezzana, famosa per scandire bene le parole[22], ha trasformato in prosa i versi di Montanelli. Il racconto con Creusa viene “detto” e non “declamato” come sostiene Cameroni, testardamente arpionato alle sue posizioni. Nel punto in cui la Medea di Montanelli (e quindi della Ristori) diceva a Giasone «La nostra indissolubile catena / Non è d’amor soltanto… è di delitto»[23], quella della Pezzana dice «non si può spezzare questa catena d’amore, il cui primo anello fu un delitto». Il sipario, dopo il secondo atto, calava mentre la marchesa - che fino a quel momento era stata nascosta dietro ai drappi di una «larga tenda»[24] - tenendo il braccio puntato in gesto davidiano, diceva «Trovata ho alfin la mia vendetta», correzione del dissonante verso di Montanelli «Io trovata ho mia vendetta!»[25]. La Pezzana corregge a sua volta lo stesso verso nel «Ho trovata alfine la mia vendetta» che pronuncia stando «rincantucciata dietro ad una colonna». Intervenendo sul copione, la Pezzana trasforma poi i versi montanelliani in battute da dramma moderno[26]. Quanto alla scenografia, la tenda da salotto parigino di primo Ottocento è sostituita da una colonna greca, inappuntabile dal punto di vista filologico e molto appropriata sia alla robustezza interpretativa della Pezzana sia agli accenti epici della sua recitazione[27]. L’attrice si abbandona a scatti d’ira, freme, fa trepidare il pubblico e, alla fine, dopo aver commesso il delitto, si copre il viso: in quest’ultimo gesto si compendia la differenza essenziale che separa la Medea della Ristori dall’eroina fragile della Pezzana.

La Ristori non avrebbe mai avuto la delicatezza di coprirsi il viso: dopo aver pugnalato i bambini, la sua scultorea Medea, «coll’occhio torvo e lo sguardo impietrito», sta «raggruppata in sé medesima nell’attitudine che converrebbe alla statua del rimorso»[28]. Tutta la disperazione del personaggio è evidente e visibile, sprigionata all’esterno ed esorcizzata grazie ad atteggiamenti molto espressivi. Al contrario, la Medea della Pezzana, prima di accusare l’ex marito, si copre gli occhi per non vedere i cadaveri dei figli: la tragedia, rimasta inesplosa, implode dentro al personaggio. Non c’è culto del dolore. Coprirsi gli occhi è – da parte di Medea – un segno tanto di pudicizia quanto di paura. Si copre gli occhi o le orecchie chi ha paura della realtà. Lucia, nel castello dell’Innominato, sta col viso nascosto nelle mani[29]. Gli embrioni espressionisti dei quadri di Munch si copriranno le orecchie per non sentire l’urlo della realtà. La Pezzana impedisce di lasciare in balìa del rapace voyeurismo generale gli occhi di Medea dopo che ha commesso l’infanticidio. A ennesima conferma della propria mancanza di volontà nel comprendere del tutto il personaggio, la Ristori alla fine non solo pensa a mettersi in posa ma assume sul volto anche una facile espressione torva, da maniaca. La Pezzana capisce che Medea uccide per amore. Si legge in una sua lettera a Camillo Antona Traversi: «Medea uccide i bambini; ma è un lampo di disperazione suprema all’idea di perderli: è ferocia che emana da immensa tenerezza»[30]. 

Dopo aver ucciso i figli, la Medea della Pezzana si rialza maestosa nella sua ferocia, fissa in viso Giasone e risponde: Tu. La Ristori si alzava «imponente e feroce, con braccio teso verso Giasone, come l’immagine dell’inesorabile destino»[31] e diceva il famoso Tu. Una donna distrutta, che a mala pena è in grado di alzarsi, se sottopone a un massacrante “straordinario” la propria affranta forza di volontà, può riuscire a farlo maestosamente. Senza dubbio, però, senza nessun braccio teso. La gestualità muta e misurata della Pezzana è più vera rispetto a quella inquisitoria della Ristori.  

Il successo tributato alla Pezzana durante la prima rappresentazione al Dal Verme pare subisca un duro colpo fin dalla seconda serata se si crede a quel che è scritto su «La Ragione» del 2 agosto 1881:

Non c’era molta gente iersera al Dal Verme, alla seconda rappresentazione della signora Giacinta Pezzana. Forse vi contribuì la scelta poco felice della tragedia Medea di Legouvé, nota oramai ai bimbi che vanno a scuola, e condotta proprio sulla falsariga de’ più vecchi modelli classici. Aggiungi la traduzione infelice, una traduzione ansante, convulsiva, fatta apposta per irritare i nervi anche dello spettatore meno realista[32].

Gli intellettuali, ormai tutti realisti per partito preso, non riescono più a sopportare né il convenzionalismo di Legouvé, né le velleità poetiche di Montanelli. 

La Pezzana, nella voce, nella persona, nel gesto, vera figura tragica, incarnò scultoriamente il personaggio della terribile protagonista. Nel secondo e terz’atto ebbe momenti d’un furore selvaggio cieco, sitibonda di sangue, da elettrizzare l’uditorio. Certamente in Italia non c’è oggi nessuno che possa interpretare la tragedia come codesta insigne attrice[33].

La Pezzana incarna «scultoriamente» il personaggio fino a quando, nel secondo e nel terzo atto, non è posseduta da un furore cieco: dal solenne candore della statuaria classica si passa all’accecante cromatismo espressionista. E la recitazione diventa frammentaria, nervosa, attraversata da un flusso continuo di corrente elettrica. Questa sconvolta umoralità tipica delle incarnazioni della Pezzana quarantenne fa pensare, in letteratura, più che ai cammei cesellati dal naturalismo zoliano, ai protagonisti dei grandi romanzi – rivelati in Europa alla fine degli anni Settanta - del realismo russo: «una forte vibrazione morale o spirituale – scrive Auerbach - scuote subito i loro istinti più profondi, e in un istante essi cadono da una condizione relativamente tranquilla, talvolta quasi vegetativa, negli eccessi più mostruosi sia nel campo pratico, sia in quello spirituale»[34]. Giacinta Pezzana, negli anni Ottanta, lascia affiorare la metà oscura dei personaggi che recita restituendoli nei loro tratti più inquietanti e perciò la tensione che la muove è diversa da quella tipica di un naturalismo che tende verso una verità priva di elementi autenticamente contraddittori[35].

Specialmente in Dostoevskij è portentoso il passaggio dall’amore all’odio, dall’umile abbandono alla brutalità, dall’amore appassionato per la verità al grossolano desiderio di godimento, dall’ingenuità fiduciosa al cinismo crudele. Spesso questi cambiamenti avvengono nello stesso individuo quasi senza trapasso, con fluttuazioni violente e imprevedibili: così i personaggi si offrono interi. Per questo motivo nelle loro parole e nei loro atti si rivelano caotiche profondità dell’istinto[36]. Prestuplènie i nakazànie (Delitto e castigo), pubblicato in Russia nel 1866, verrà tradotto in Italia solo nel 1889 ma la Pezzana trasforma la sua Medea – eroina sull’orlo del baratro – nell’equivalente greco di Raskòlnikov donandole le stesse febbrili discontinuità. Mentre la Ristori cercava l’equilibrio, la Pezzana, negli anni Ottanta, vive e recita in un continuo e vertiginoso squilibrio mentale e, di conseguenza, fisico: «il gesto teatrale di Giacinta Pezzana era costruito a partire da una singolare capacità di giocare su alcuni disequilibri della postura scenica»[37]. 

Sempre il 2 agosto 1881, un anonimo giornalista de «Il secolo», recensendo lo stesso spettacolo visto dal critico de «La Ragione», sostiene, al contrario del collega, che è stato un «secondo ed immenso trionfo». Inoltre il suo articolo, distinguendosi da quello del «Corriere della sera» e de «La Ragione», non chiama in causa nessuna statua.

La Medea di E. Legouvé è stata un secondo ed immenso trionfo per la Giacinta Pezzana. Applausi dal principio alla fine della tragedia – applausi strappati dalla sua potenza drammatica, dalla profonda commozione ch’ella trasfonde nel pubblico magnetizzato dal suo gesto, dalla sua voce calda e vibrata, dai suoi occhi scintillanti, ora amorevoli, ora terribili. Ella ci ha mostrato tutti i delirii, tutti i fremiti, tutto l’amore sconfinato di Medea per Giasone. La passione, la gelosia, la vendetta ci sono a volta a volta passati innanzi agli occhi; per ogni sentimento ella ha saputo trovare una intonazione diversa, una diversa forma di dolore[38].

Il giornalista non parla, qui, di una «mater dolorosa» ma parla, per la prima volta, di una donna tradita che è dominata soprattutto da uno «sconfinato amore» non corrisposto. E l’attrice mostra, con minuziosa dovizia di particolari, la fenomenologia di questo amore inutile e disperato, davvero più freddo della morte, che si configura come una patologia, come una delle più gravi patologie. Questa descrizione dello stile interpretativo della Pezzana induce a collocare la sua Medea non tanto fra i protagonisti dei romanzi dostoevskijani, preda di vorticose oscillazioni caratteriali, quanto piuttosto fra quelli indagati con impressionistica puntigliosità biologico-sperimentale dai naturalisti francesi. La recitazione della Pezzana, nutrendosi di vita, cambia a seconda dei punti di vista e, anche se Bracco la pensa diversamente[39], muta di continuo col passare del tempo. Quattordici anni dopo rispetto al 1881, Medea, anche per ragioni estetiche[40], sarà più madre che innamorata. 

La Pezzana vive e invecchia sul palcoscenico: mantenendo la mente fredda e il cuore caldo, si immedesima, contro la sua stessa volontà, in Medea e desidera dal pubblico non l’immedesimazione ma la riflessione. La Ristori lavorava e conservava la sua vita privata ben lontana dal palcoscenico: mantenendo la mente fredda e il cuore freddo, non si immedesimava affatto in Medea ma pretendeva che si immedesimasse il pubblico. Se per la Pezzana è difficile entrare nel personaggio, lo è ancora di più catturarne il cuore ed esaminarlo, sotto vetro, a mente fredda. Quasi impossibile, infine, è per lei uscire dal personaggio senza che i nervi ne risentano le conseguenze. L’arte si intreccia con la vita privata.

Così si conclude l’articolo su «Il secolo»:

Nella chiusa dell’atto, quando, dopo aver ucciso i propri figli, scatta in piedi come una belva e volgendosi a Giasone che le chiede: Chi ha ucciso i miei figli? ella risponde con voce tuonante Tu! è stata veramente grande[41].    

Dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Ottanta, nel momento di massimo sviluppo del capitalismo italiano di fine secolo, nauseata sia dal pubblico borghese - sempre più distratto e intellettualmente pigro – sia dall’inarrestabile processo di mercificazione della produzione artistica, l’attrice si propone di lasciare il teatro e affronta stancamente le eroine (Messalina, Frine, Agrippina, Cleopatra) di un moderno repertorio («vero studio – secondo la sua definizione - di prostituzione storica»[42]) che la disgusta.

Quasi quattro anni dopo rispetto all’agosto del 1881, la Pezzana torna a recitare Medea e sulla «Gazzetta piemontese» del 29 marzo 1884 viene pubblicata questa recensione:

Avrei sperato e desiderato davvero che il pubblico accorresse più numeroso ieri sera a questo teatro per la serata della signora Pezzana, tanto più che questa aveva scelto una tragedia, e che certo essa oggidì non ha alcuna che non dico la superi ma neppure la eguagli di gran lunga nella recitazione tragica. La scuola della recitazione tragica, o per chiamarla col suo vero nome, della declamazione, va di giorno in giorno perdendosi, […]. Forse il pubblico non accorse molto numeroso ieri a sera non per causa dell’attrice e del genere della produzione, ma per la tragedia, che non è certo fra le cose migliori. Fra le tante tragedie intorno alla leggenda di Medea, questa di Legouvé è forse la peggiore, […]. La Pezzana in questa tragedia è degna emula della Ristori; ebbe ieri sera, specialmente nell’atto secondo, il migliore, certi impeti che toccavano il grande, e il pubblico proruppe più volte in applausi frenetici; ottimamente pure nella scena dell’atto terzo, quando s’intenerisce alla vista dei figli e le cade di mano il pugnale[43].

Se si presta fede alle parole del giornalista della «Gazzetta piemontese», la sera del 28 marzo 1884 gli spettatori che assistono alla Medea della Pezzana (e fra questi c’è Malvina Frank) raggiungono un numero piuttosto esiguo e appartengono a quella razza di esseri umani in via d’estinzione che apprezza la recitazione tragica o, come l’anonimo recensore – la cui devozione ai preconcetti è pari alla pignoleria - tiene a precisare, la “declamazione”. La Pezzana non ha nessuno che la eguagli nella recitazione tragica perchè, grazie a lei, non è più possibile considerare il termine “declamazione” un sinonimo di “recitazione tragica”. Dopo essere stata ribadita ancora una volta la mediocrità del testo di Legouvé, si accenna ad un momento della messa in scena: Medea «s’intenerisce alla vista dei figli e le cade di mano il pugnale». Nello stesso punto della tragedia, la Ristori aveva collocato un macchinoso intreccio gestuale: i figli le si buttavano ai piedi sfiorandole la mano che stringeva il pugnale e lei, dopo lungo titubare ma senza abbandonare la presa, cadeva «ginocchione in mezzo a loro, coprendoli di baci e premendoli con trasporto contro il petto»[44]. Baciata dalla Musa dell’ariostesca “arte del levare”, la Pezzana – consapevole che in certi casi deficere è melius quam abundare - fa semplicemente cadere per terra il pugnale per comunicare, in modo immediato, quello stesso stato d’animo di cui la Ristori s’ingegna di mostrare i sintomi in una lunga serie di tableaux melodrammatici. Questo solo particolare è sufficiente a dare un’idea della differenza che c’è fra lo stile recitativo della Ristori e quello della Pezzana. L’attrice neoclassica,  che non si immedesima in Medea, continua a serrare il pugno anche mentre abbraccia i figli. La Medea della Pezzana apre automaticamente la mano in segno di totale abbandono non appena vede i figli. Dimostrando una suprema e totale mancanza di discernimento, l’autore della recensione scrive anche che la Pezzana è degna emula della Ristori.

Lo stesso spettacolo del 28 marzo 1884 va a vederlo anche un entusiasta  giornalista della «Gazzetta di Torino» che, in poche righe, contraddice le dichiarazioni del collega della «Gazzetta piemontese»:

Ci voleva proprio la beneficiata della Pezzana per scuotere l’apatia del pubblico e per indurlo ad intervenire in folla al Gerbino. La valentissima artista dev’essere quindi doppiamente lieta della splendida dimostrazione di stima e d’affetto che le diedero ieri sera i nostri concittadini. Al suo apparire in scena e da capo a fondo della Medea di Legouvé, Giacinta Pezzana, che rese il personaggio della protagonista con una potenza ed una verità sorprendenti, fu continuamente acclamata[45].

Su «L’Arte Drammatica» del 31 ottobre 1885 si legge un breve intervento:

La parte di Medea si attaglia benissimo alla signora Pezzana e la rappresenta egregiamente, salvo qualche dimenticanza della misura d’intonazione specialmente quando è costretta ad alzare e forzare la sua bella voce. In ogni modo, oggi, nelle condizioni in cui si trova il nostro teatro, dopo la grande Ristori, la signora Pezzana è la sola attrice che possa ancora fare la Medea[46].  

Dopo poco più di un anno la Pezzana abbandona le scene.



[1] Verranno analizzati alcuni articoli che descrivono l’interpretazione di Medea offerta dalla Pezzana nelle messe in scena della tragedia avvenute al Teatro Dal Verme di Milano l’11 settembre 1875 e il primo agosto 1881, al Teatro Gerbino di Torino il 28 marzo 1884, all’Anfiteatro Fenice di Trieste il 28 ottobre 1885, al Teatro Gerbino di Torino il 26 aprile 1895, al Teatro Costanzi di Roma il 30 marzo 1896, al Teatro Mercadante di Napoli il 26 aprile 1896, al Teatro Gerbino di Torino il 23 maggio 1898 e infine al Teatro Argentina di Roma il 30 gennaio 1907.   
[2] Anonimo, Corriere dei teatri, in «Il pungolo», 12 settembre 1875.
[3] Ibidem.
[4] «La S. ra Ristori nos ha dicho, hace algunos dias, que ella siempre escoge para presentare ante un público nuevo la tragedia de Mêdêa […] porque prefiere al carácter griego para darse á conocer. […] Teniamos una ilusion que no queriamos romper, queriamos, […] nosotros que no conociamos á los personages trágicos mas que en los libros, verlos vivos y palpitantes en la escena. Y lo logramos, sí, lo logramos, mas allá de nuestras esperanzas. La Ristori es griega […]. Era la Mêdêa de los poemas y de las tradiciones, grande, pálida, severa y triste, enérgica y altiva» (I. M. Altamirano, Medea, in «El siglo diez y nueve», cit.).    
[5] E. Adriani, La Medea di Adelaide Ristori, un esempio della drammaturgia di un grande attore, in Il teatro dei ruoli in Europa, cit., p. 195.
[6] Nel 1919, Gastone Monaldi, il primo attore della compagnia dialettale fondata, a scopi educativi, dall’attrice a Roma nel 1908, scrive: «Giacinta Pezzana ha voluto, direi quasi, ha preteso dal mondo la noncuranza prima, e più tardi l’oblio» (G. Monaldi, Giacinta Pezzana attraverso i miei ricordi, in A. Petrini, Attori e scena nel teatro italiano di fine Ottocento, cit., p. 205).
[7] «L’amore che rende felici ed infelici, non può più sorprendermi: adoro ora le ceneri di quel fuoco che mi ha fatto tanto soffrire. Ora mi brucio ancora al fuoco dell’Arte! e che sia benedetta Essa, la gran confortatrice della mia esistenza» (G. Pezzana a S. Aleramo, Buenos Aires, 25 dicembre 1910, in L. Mariani, L’attrice del cuore, cit., p. 489). «L’Arte! Essa mi ha detto vieni a me e cammina! Io fui più artista che donna, e l’arte impietositasi della mia felicità perduta, mi fece rivivere!» (G. Pezzana a S. Aleramo, Buenos Aires, 26 febbraio 1911, in ivi, p. 146).    
[8] E. Torelli-Violler, Appendice, Rassegna teatrale, in «La Lombardia», 14 settembre, 1875.
[9] Ibidem.
[10] «Ristori’s dress in Medea was designed by Ary Scheffer, and is exceedingly pitoresque. Salmon colored cloth edged with a maroon border of Greek pattern forms the dress, which is relieved by a perfectly plain blue mantle, fastened on the left shoulder by a Greek ornament and caught under the right arm» (Anonimo, The drama-music, Ristori in Medea, in «New York Tribune», 6 marzo 1875). 
[11] «The arrangement of hair […] is too stiff. It is difficult to admire that red band around the head, with its modern bow pendant from the back. Equally distasteful are the heavy set curls, that spoil the contour of Ristori’s head» (Anonimo, The drama-music, Ristori in Medea, in «New York Tribune», cit.)
[12] S. Ferrone, Introduzione in Il teatro italiano, La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, a cura di S. Ferrone, Torino, Einaudi, 1979, vol. I, pp. XLVII-XLVIII.
[13] E. Torelli-Violler, Appendice, Rassegna teatrale, in «La Lombardia», cit.
[14] Cfr. G. Viazzi, Felice Cameroni, ovvero del partito radicale in letteratura, in F. Cameroni, Interventi critici sulla letteratura italiana, Napoli, Guida Editori, 1974, p. 5.
[15] Pessimista [F. Cameroni], Teatri e libri, in «L’arte Drammatica», 18 settembre 1875.
[16] Pessimista [F. Cameroni], Teatri e libri, Teatro Dal Verme, in ibidem.
[17] «Shakespeare ha ragione su tutti i pensatori: nella vita il sublime e il ridicolo si contendono il primato a vicenda» (Cfr. G. Pezzana a A. Ravizza, 16 luglio 1883, in L. Mariani, L’attrice del cuore, cit., p. 111). 
[18] Ibidem.
[19] Dip. [I. Polese], Teatri di prosa in Milano, in «L’arte Drammatica», 18 settembre 1875.
[20] Anonimo, Corriere Teatrale, Medea al Dal Verme, in «Corriere della sera», 1-2 agosto 1881.
[21] Ibidem.
[22] L’autore torinese Vittorio Bersezio la giudica superiore alla Ristori per la sua capacità di «sillabare come nessun altra» (cfr. C. Salvini, Le ultime romantiche, Giacinta Pezzana, Virginia Marini, Adelaide Tessero, Firenze, Libreria del Teatro, 1944, p. 34).
[23] «Ce qui fait de nos cœurs l’étroite liaison, / Ce n’est pas l’amour seul, c’est le crime, Jason !» (E. Legouvé, Médée, tragédie en trois actes et en vers, traduction italienne de Joseph Montanelli, Paris, Michel Lévy Frères, s.d., p. 85).
[24] A. Ristori, Ricordi e studi artistici, cit., p. 249.
[25] «J’ai trouvé ma vengeance!» (E. Legouvé, Médée, cit., p. 109).
[26] Può darsi che il giornalista abbia trascritto le frasi in modo approssimativo e che la Pezzana non le abbia dette come appaiono nella versione riportata nell’articolo ma è anche possibile che il recensore abbia annotato in modo corretto le battute pronunciate dall’attrice.     
[27] A. Petrini, Attori e scena nel Teatro italiano di fine Ottocento, cit. , p. 91.
[28] Cfr. A. Ristori, Ricordi e studi artistici, cit., p. 253.
[29] «Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia e col viso nascosto nelle mani» (A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di L. Caretti, Milano, Mursia, p. 321).
[30] G. Pezzana a C. Antona Traversi, Roma, 8 giugno 1908, in C. Antona Traversi, Le grandi attrici del tempo andato, Formica, Torino, 1929, vol. I, p. 143.
[31] Ibidem.
[32] Anonimo, Teatri, in «La Ragione», 1-2 agosto 1881.
[33] Ibidem.
[34] E. Auerbach, Mimesis, cit., p. 302.
[35] Cfr. A. Petrini, Attori e scena nel Teatro italiano di fine Ottocento, cit., p. 23.  
[36] Cfr. E. Auerbach, Mimesis, cit. , p. 302.
[37] A. Petrini, Attori e scena nel Teatro italiano di fine Ottocento, cit. , p. 31.
[38] Anonimo, Eco dei teatri, in «Il secolo», 1-2 agosto 1881.
[39] «La sua recitazione è sempre stata la medesima» (R. Bracco, «Corriere di Napoli», 19 febbraio 1899, ora in L. Rasi, Pezzana-Gualtieri Giacinta, in I Comici italiani, cit., p. 273).
[40] Nel 1906, la Pezzana risponde alla scrittrice Virginia Olper Monis per comunicarle che, considerata la giovane età della protagonista, non può portare in scena il suo dramma Il castigo: «Per quanto Flaminia sia madre, essa uccide più per gelosia che pei figli – dunque si richiede una donna ancora fresca, altrimenti ne andrebbe di mezzo l’estetica in modo miserando» (G. Pezzana a V. Olper Monis, Vicenza, 1 luglio 1906, in L. Mariani, L’attrice del cuore, cit., p. 401).
[41] Anonimo, Eco dei teatri, in «Il secolo», cit.
[42] G. Pezzana a Vittorio Bersezio, Brescia, 14 febbraio 1879, in L. Mariani, L’attrice del cuore, cit., p. 94.
[43] M. , Teatro Gerbino, in «Gazzetta piemontese», 29 marzo 1884.
[44] A. Ristori, Ricordi e studi artistici, cit., p. 253.
[45] Teatro “Gerbino”, in «Gazzetta di Torino», 29 marzo 1884.
[46] Colorno, Trieste, in «L’arte Drammatica», 31 ottobre 1885, pp. 2-3.






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