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Claudio Vicentini

4. Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo nella teoria della recitazione del mondo antico, parr. 9-11

Data di pubblicazione su web 26/03/2005
Plutarco

9. Il problema fondamentale dell’attore e le tecniche di immedesimazione.
In questo modo sembra ovviamente riproporsi l'antica teoria del contagio, per cui le passioni si trasmettono dall'animo di chi recita all'animo di chi assiste. Ma è un contagio, appunto, prodotto non più da una divinità, ma dalla natura stessa dei processi emotivi. Le espressioni esterne sono un semplice tramite, la via per cui il flusso dei sentimenti dell'oratore entra in contatto con lo spettatore. Poi le emozioni, di per sé contagiose, passano per forza propria nel nuovo soggetto. La metafora ricorrente per spiegare il fenomeno è quella dell'incendio, in cui il fuoco si diffonde per contatto da un materiale all'altro: Come infatti nessun materiale è tanto infiammabile da poter prendere fuoco se non gli viene accostato il fuoco; così, non c'è mente tanto disposta a farsi influenzare dalla forza dell'oratore, che possa infiammarsi se egli non le si avvicina infiammato e ardente.[1]

Ma per innescare il contagio e provocare le reazioni emotive del pubblico è necessario che l'oratore sappia suscitare davvero in sé, mentre pronuncia il suo discorso, le diverse passioni che vuole scatenare nell'uditorio. Deve, come osserva Cicerone, «acquisire la capacità di adirarsi, addolorarsi, piangere nel corso dell'orazione»».[2] E ritorna così il problema fondamentale, che riguarda tanto la tecnica della recitazione quanto l'actio dell'oratore. Nessuno, nota Quintiliano, può provare un'emozione a comando, con un semplice sforzo di volontà, e non abbiamo alcun potere sui nostri moti interiori.[3] Come può allora, chi agisce di fronte al pubblico, creare in sé, momento per momento, tutti i moti interiori che gli sono necessari? Per dimostrare che l'impresa è possibile Cicerone cita proprio l'esempio degli attori teatrali. Un bravo attore quando recita una scena riesce a infiammarsi, non solo la prima volta, ma anche nelle repliche successive, giorno dopo giorno, per parecchio tempo. Non si vede quindi perché non debba riuscirci anche l'oratore, che pronuncia il suo discorso una volta sola, senza correre il rischio che le sua sensibilità venga logorata dalle infinite ripetizioni della medesima scena.[4]

Ora, secondo Cicerone, l'attore e l'oratore riescono a infiammarsi nel modo giusto e nei momenti opportuni in seguito a un particolare procedimento, che nasce dalle condizioni stesse in cui si trovano quando agiscono di fronte al pubblico. E' una situazione che li rende particolarmente sensibili agli stimoli creati dalle loro stesse parole e azioni. L'attore è infatti consapevole di dover mostrare la propria bravura e di mettere in gioco la propria reputazione. L'oratore sa inoltre che dalla sua parola dipende il destino di persone reali e l'affermazione di valori morali che gli stanno a cuore.[5] L'incertezza sull'esito della prestazione, che non può mai essere garantito, e insieme la presenza delle persone che osservano, attendono gesti e parole, e li giudicano, produce perciò una tensione particolare, che provoca nell'animo di chi si esibisce una sorta di ipereattività emotiva. Le parole che pronuncia, i temi che tocca, le figure che illustra - e la maniera stessa in cui parole, temi, figure sono stati attentamente predisposti, come abbiamo visto, per sollecitare le emozioni di tutti i presenti mettendo in luce particolari penosi, o tremendi, o orribili - insomma «la natura stessa di quel parlare volto a commuovere gli animi altrui», commuove chi parla «in misura anche maggiore di qualunque ascoltatore».[6] E tutti gli effetti visivi allestiti allo stesso scopo, come l'apparizione di una figura pietosa o terribile sulla scena teatrale, o l'esibizione di fronte a giudici di un tribunale di un accusato vecchio, triste, in vesti dimesse, col corpo solcato di ferite riportate in guerra, provocano la commozione dell'attore, o dell'oratore, «ancor prima di muovere a pietà gli altri».[7]

Il procedimento sembra quindi essere questo. Le parole e gli artifici predisposti per emozionare il pubblico suscitano innanzi tutto le passioni dell'attore o dell'oratore che, davanti agli spettatori si trovano in uno stato di particolare sensibilità emotiva. Dall'interno del loro animo le passioni emergono nelle espressioni esteriori, segnando i tratti del volto, i gesti e l'intonazione della voce, che appaiono così particolarmente efficaci. E di qui si trasmettono poi per contagio, incendiando l'animo di tutti i presenti. Quintiliano, dal canto suo, ricorrendo agli strumenti teorici elaborati dalla dottrina degli stoici, individua una tecnica particolare che può essere utilizzata nell'oratoria e nella recitazione. Tutti noi nel corso della vita quotidiana siamo accompagnati nella nostra mente da immagini di scene a cui non stiamo realmente assistendo. Sono immagini che creiamo «mentre ci trastulliamo fra sogni ad occhi aperti», e abbiamo l'impressione «di viaggiare lontano, navigare, combattere, arringare popoli, disporre di ricchezze». Alcune persone, particolarmente dotate, possono evocare in sé queste visioni in modo così vivo e preciso da riuscire «a immaginarsi perfettamente, secondo verità, oggetti, voci e gesti». Ma è una capacità che tutti possono sviluppare. E chi sa concepire in questo modo scene plausibili e vivaci può facilmente suscitare nel proprio animo i sentimenti corrispondenti. Così l'oratore e l'attore, se riescono a fissare di fronte a sé, con precisione, le immagini di tutto ciò che stanno declamando o recitando, proveranno inevitabilmente, momento per momento nello sviluppo del discorso, o della commedia, tutte le emozioni necessarie.

Lamento che è stato ucciso un uomo: non avrò negli occhi tutto quel che è credibile sia accaduto sulla scena reale? L'assassino non salterà fuori improvvisamente? L'attaccato non proverà terrore, non griderà, o supplicherà, o fuggirà? Non vedrò l'uno colpire e l'altro cadere? Non mi si fisseranno nell'animo il sangue, il pallore, i gemiti, e infine la bocca aperta di chi emette l'ultimo respiro?[8]
Immerso nella tensione che gli procura l'esibizione di fronte al pubblico, immediatamente coinvolto dalle parole che pronuncia e dalle azioni che compie, abile nell'evocare davanti alla propria mente le immagini adeguate, l'attore nel corso della recitazione viene quindi attraversato da una successione di sentimenti che modellano spontaneamente le sue espressioni, le rendono intense, efficaci, e capaci di operare effettivamente su tutti i presenti, proiettando negli spettatori le emozioni che lo agitano.

10. Controllo e perfezionamento delle espressioni.
Risolto in questo modo il problema fondamentale dell'attore, il processo complessivo della recitazione si fonderebbe però sulla semplice dinamica dei sentimenti, sulla loro spontanea capacità espressiva, e sul loro potere innato di diffondersi per contagio. L'abilità dell'interprete consisterebbe allora in ben poca cosa. Una volta in possesso di un testo adeguato, trovato un pubblico pronto ad ascoltarlo, dovrebbe limitarsi a evocare nel proprio animo immagini chiare e precise, corrispondenti alle parole che pronuncia, e il resto verrebbe da sé. La situazione in cui si trova lo immerge in una sorta di ipersensibilità emotiva, i sentimenti sorgono immediatamente nel suo animo evocati dalle parole e dalle immagini, e quindi atteggiano il suo corpo e la sua voce nelle espressioni più efficaci.  E questo è tutto. Cicerone e Quintiliano insistono però sulla necessità che l'attore e l'oratore siano dotati anche di una tecnica sapiente e consapevole, lunga e difficile, attentamente coltivata ed esercitata. Alla base dei loro trattati si colloca la convinzione che l'oratoria, come la recitazione, possa giungere a risultati eccellenti solo se tutto ciò che è messo a nostra disposizione dalla «natura» viene sviluppato dall'«arte». Un oratore, ad esempio, deve sicuramente possedere precise doti naturali, come un adeguato aspetto fisico, la mancanza di difetti che impediscono la correttezza della pronuncia e la facilità del movimenti, una solida memoria, e anche la sensibilità dell'animo pronto ad infiammarsi. Tutte queste qualità sono indispensabili, però senza la tecnica servono a ben poco: su di loro deve appunto operare l'arte, che sola può perfezionare quanto ci viene immediatamente fornito dalla natura.[9]  Il processo naturale della dinamica dei sentimenti, che costituisce il fondamento dell'actio e della recitazione, di per sé non è quindi sufficiente. Un attore o un oratore che si limitassero a esibire di fronte al pubblico i segni esterni immediatamente impressi su di loro dalle passioni dell'animo, sarebbero senz'altro inadeguati al loro compito. E questo per un evidente motivo. Le passioni dell'animo, come spiega Cicerone, spesso sono «confuse», e allora le espressioni che producono appaiono oscure e imprecise. Per manifestare una passione in modo davvero perfetto è perciò necessario rimuovere dalla sua immediata manifestazione esteriore «quanto provoca oscurità», dando contemporaneamente rilievo «agli aspetti più evidenti e visibili».[10] Solo così si potrà ottenere una recitazione davvero efficace come quella praticata dal grande attore Roscio, che riusciva formare ogni gesto in modo che fosse assolutamente evidente e perfetto, dotato di grazia e di convenienza, e tale da procurare al pubblico, nello stesso tempo, «emozione e piacere».[11]

Quintiliano è della stessa opinione. Le espressioni delle «emozioni reali», che «erompono spontaneamente», devono essere plasmate «dall'insegnamento e dal metodo».[12] Devono insomma essere lavorate e controllate da chi pronuncia un discorso. Altrimenti appaiono rozze e approssimative, e con la loro insufficienza possono lasciare spazio agli eccessi degli oratori «ignoranti» che «gridano ovunque, e muggiscono ogni frase», si spostano freneticamente, gesticolano «e muovono la testa come matti».[13] Esiste inoltre un altro motivo che rende indispensabile all'attore controllare le proprie espressioni. Chi recita, osserva Cicerone, deve regolare l'intensità di ogni gesto, dosandola opportunamente, in modo da preparare l'effetto del gesto successivo. Se quest'ultimo, ad esempio, deve apparire particolarmente pregnante e vivace, il gesto precedente dovrà essere ridotto e smorzato, per non bruciarne l'effetto. La recitazione si svolge quindi attraverso uno sviluppo di variazioni, in cui ogni momento espressivo acquista la propria efficacia in rapporto a quelli che lo precedono, e deve perciò tenere conto di quelli che la seguono. Così l'attore e l'oratore, mentre esibiscono un'espressione dettata da uno stato emotivo, devono mantenere la lucida consapevolezza dell'intero andamento dell'orazione, o della scena da recitare, e misurare su questo l'intensità dei gesti e delle intonazioni.[14] Il controllo da esercitare sugli atteggiamenti del proprio corpo è quindi estremamente rigoroso, al punto da consigliare, come si dice facesse Demostene, lunghe prove davanti allo specchio.[15]        

Ora, per perfezionare le espressioni che sorgono spontaneamente dai moti dell'animo, per ripulirle da ogni «oscurità» e renderle perfettamente «evidenti», chi recita o declama deve conoscere con esattezza quali sono i segni esterni caratteristici di ogni singola passione. Altrimenti non potrà controllarne l'esatta riproduzione sul suo volto, nei suoi gesti e nella modulazione della voce. Infatti, come spiega Cicerone, «la natura ha assegnato a ogni emozione un'espressione, un tono di voce e un gesto specifici», ed essi «sono a disposizione dell'oratore per esprimere le varie sfumature del discorso, come un pittore fa con i colori».[16] Nel De oratore Cicerone introduce come esempio la descrizione di alcune forme espressive relative all'intonazione della voce, che corrispondono all'esatta riproduzione dell'ira, della compassione, della paura, della violenza e dell'abbattimento. [17] Quintiliano, nell'undicesimo libro dell'Institutio oratoria, elenca invece dettagliatamente una lunga serie di gesti e movimenti, fornendo un vero e proprio catalogo di atteggiamenti espressivi destinato a ispirare per diversi secoli buona parte dei trattati d'oratoria.

Già negli anni della sua formazione, osserva Quintiliano, l'oratore deve apprendere la chironomia, ossia la legge del movimento delle mani.[18] E in seguito dovrà padroneggiare un complesso codice vocale e gestuale, che riguarda l'impiego di ogni parte del corpo. A cominciare dalle posizioni della testa: Atteggiamenti decorosi sono in primo luogo mantenere la testa eretta e in posizione naturale, perché quando è bassa indica viltà, quando è volta all'indietro arroganza, quando è inclinata su di un lato fiacchezza, quando è troppo dura e rigida un carattere brutale.[19] Ma la massima capacità espressiva risiede nei tratti del viso: gli occhi, le guance, le labbra, le narici e perfino le sopracciglia, che quando sono «aggrottate», indicano ira, «abbassate» tristezza, «distese» gioia. E poi Quintiliano prosegue con le spalle, le braccia, i piedi, le mani e le dita, indicando tutti i movimenti opportuni, fino al minimo dettaglio. Se si afferra gentilmente l'ultima falange dell'indice da entrambi i lati, con le altre due dita moderatamente curvate, ma con il mignolo meno curvato, si ha un gesto adatto alla discussione. Si ha l'impressione però che discuta con maggiore energia chi tiene piuttosto la falange di mezzo, con le ultime due dita tanto più piegate quanto quelle precedenti sono scese lungo la falange … La mano leggermente piegata come quella di chi formula un voto viene mossa a brevi intervalli, mente le spalle assecondano il movimento, gesto particolarmente adatto a chi parla con riluttanza e come timidamente. E' adatto a esprimere meraviglia il gesto che consiste nel volgere un poco il palmo della mano verso l'alto, chiuderla dito per dito a partire dal mignolo, poi, mentre le dita piegate ritornano alla posizione precedente, distenderla e nel contempo ruotarla in senso opposto.[20] E nella meticolosa descrizione di tutti questi movimenti, la ricerca della massima capacità espressiva si associa all'esigenza di una precisa stilizzazione, capace di conferire all'azione dell'oratore non solo decoro, ma anche la grazia e la bellezza dirette a procurare agli spettatori un indispensabile «diletto». Gli specialisti vietano di alzare la mano al di sopra degli occhi e di abbassarla al disotto del petto; a maggior ragione si considera un difetto muoverla verso il basso partendo dalla testa o farla scendere al basso ventre. La mano viene fatta alzare verso sinistra senza superare il limite della spalla, oltre non è conveniente … Non è mai corretto gesticolare solo con la mano sinistra …  Stare fermi con il piede destro in  avanti e avanzare con la mano corrispondente è brutto.[21]

11. Possibilità di una teoria antiemozionalista.
Nell'azione complessiva di chi si esibisce di fronte al pubblico si intrecciano così due forme di comportamento. Una spontanea, che lascia affiorare sul volto e nei gesti i tratti semplicemente dettati dalle emozioni, e una consapevole e regolata che adotta gesti e movimenti studiati e codificati, tanto per rendere più incisive le espressioni quanto per dotarle di una particolare grazia e bellezza. Tra queste due forme di comportamento si instaura un delicato equilibrio. Se viene compromesso si produce il pericolo di una recitazione rozza  ed esagitata o, al contrario, fredda e artificiale. E questa è appunto la posizione esplicita della trattatistica di Cicerone e Quintiliano. Tuttavia la possibilità di codificare i segni espressivi delle diverse passioni indicandoli fin nei minimi dettagli con estrema precisione, proprio come avviene nel minuzioso catalogo fornito da Quintiliano, schiude un'altra via. L'attore o l'oratore possono tentare di riprodurre questi segni - movimenti del capo e delle braccia e delle mani, inflessioni della voce - immediatamente su di sé, a freddo, servendosi di una tecnica lungamente esercitata. Le forme espressive che utilizzano sono studiate e codificate proprio in modo da rispondere perfettamente alle esigenze del teatro o del tribunale, e dunque da apparire, in quei particolari contesti, assolutamente convincenti. Una persona in grado di riprodurle abilmente, adattandole alle proprie caratteristiche personali, riuscirebbe perciò a rendere la presenza di passioni e stati d'animo così bene da non lasciare insoddisfatta alcuna esigenza degli spettatori. Il suo effettivo coinvolgimento emotivo risulterebbe a questo punto superfluo: si ridurrebbe a un semplice strumento a cui l'attore dovrebbe ricorrere quando la sua tecnica non è sufficientemente perfezionata. E potrebbe anche, in particolari casi, mostrarsi addirittura nocivo, turbando la necessaria concentrazione che l'oratore deve dedicare alla perfetta resa artistica delle proprie espressioni.[22]

L'ipotesi di un simile modello di recitazione, basata sulla simulazione fredda ma perfetta e artisticamente convincente delle emozioni, affiora così nel pensiero del tempo.  Cicerone, in un passo del De oratore sembra addirittura ammettere che disponendo di «un’arte più grande» sarebbe forse possibile esprimere efficacemente una passione senza provarla, mediante la semplice simulazione a freddo.[23] Poi, nelle Tusculanae disputationes, sia pure toccando il problema in un contesto particolare, mentre discute gli effetti dell'ira, assume senz'altro questa possibilità come reale, e anzi la pone alla base stessa dell'arte dell'attore e dell'oratore: All'oratore certo non si addice affatto lasciarsi prendere dall'ira, ma non è disdicevole che la simuli. Ti sembriamo forse in preda all'ira quando durante le cause parliamo con un tono di voce più aspro e aggressivo? … Pensi forse che Esopo fosse in preda all'ira quando declamava questo verso, o che lo fosse Accio quando lo scrisse?  Passi del genere sono magnifici da declamare, e un oratore, se è un oratore, lo fa meglio di qualsiasi attore, ma si declama con calma, a sangue freddo.[24] E lo stesso passo si ritrova riproposto qualche decennio dopo anche nel De ira di Seneca. «L'oratore, dice, talvolta, quand'è irato, riesce più efficace».  No, ma quando imita chi è irato: anche gli attori scuotono la gente con le loro declamazioni, non se si adirano loro personalmente, ma se recitano bene la parte di chi è irato. E anche coi giudici e nell'assemblea e dovunque dobbiamo piegare l'altrui volontà al nostro modo di opensare, simuleremo ora l'ira, ora la paura, ora la misericordia, per ispirarle negli altri e quel che la passione sincera non avrebbe ottenuto, spesso l'ottiene la finzione.[25] Ma soprattutto la visione di un'arte dell'attore i cui effetti sul pubblico non si fondano sul contagio diretto e immediato delle emozioni, bensì sulla percezione di una particolare abilità nella simulazione, emerge in uno scritto di Plutarco, che appartiene alla stessa generazione di Quintiliano.

Nelle Questioni conviviali Plutarco affronta un problema caratteristico: perché mai ricaviamo piacere dall'osservare un attore che sulla scena imita la collera o la tristezza, mentre poi siamo colti solo da pena e dispiacere quando osserviamo una persona in preda a questi sentimenti nella vita reale. E' un problema a cui non è facile rispondere. E Plutarco lo risolve in questo modo. Se proviamo piacere osservando un attore che lamenta disperatamente lutti e disgrazie, è perché tutti noi possediamo un gusto innato per tutto ciò che appare prodotto dall'arte, dalla tecnica, da una particolare abilità intelligente e razionale. La nostra natura è infatti attirata spontaneamente da ogni dimostrazione di destrezza e di ingegno. Abilità, destrezza e ingegno che si manifestano appunto nell'esibizione dell'attore, proprio perché questa consiste non in una semplice espressione di sentimenti davvero provati, ma in un accorta e sapiente simulazione: chi è veramente in preda alla collera e alla tristezza non mostra che gli effetti ordinari della passione e dell'emozione, mentre l'imitazione, per poco che sia riuscita, manifesta un'abilità che la rende attraente. E noi prendiamo in questo caso un piacere del tutto naturale mentre sentiamo della pena nell'altro.[26]

Così, secondo una visione che affiora tra l'epoca di Cicerone e quella di Plutarco, l'arte della recitazione potrebbe risiedere esclusivamente nella capacità di simulazione. E’ frutto di abilità, più che di ispirazione o di reale partecipazione emotiva. Tanto più è attraente, piacevole ed efficace quanto più l'attore riesce a riprodurre perfettamente, attraverso una tecnica raffinata, i sintomi di una passione. Ma solo perché ciò manifesta una particolare bravura. L'espressione autentica di un'emozione provata davvero, sulla scena resterebbe inerte, goffa e penosa.

 



[1] Cicerone, De oratore, II,190, trad. cit., p. 433. Vedi anche Quintiliano, Institutio Oratoria, VI,2,28.
[2] Cicerone, De oratore, II,196, trad. cit., p. 439. Vedi anche Quintiliano, Institutio oratoria, VI,2,28.
[3] Quintiliano, Institutio oratoria, VI,2,29.
[4] Cicerone, De oratore, II,193. Vedi anche Quintiliano, Institutio oratoria, VI,3,35.
[5] Cicerone, De oratore, II,192.
[6]  Ivi, II,191.
[7]  Ivi, II,195.
[8] Quintiliano, Institutio oratoria, VI,2,31, trad. cit., vol. II, p. 1029.
[9] Cicerone, De oratore, I,113-115; Quintiliano, Institutio oratoria, I, Proemio, 276-27; II,17,5-15; II,19,1; XI,3,10-12.
[10]  Ivi, III,215, trad. cit., p.729.
[11]  Ivi,  I,130, trad. cit., p. 201.
[12] Quintiliano, Institutio oratoria¸ XI,3,61, trad. cit., vol. III, 1883.
[13] Ivi, II,12,9, trad. cit., vol. I, p. 349.
[14] Cicerone, De oratore, III,102.
[15] Quintiliano, Institutio oratoria, XI,3,68.
[16] Cicerone, De oratore, III,216, trad. cit., p.729.
[17] Ivi, III,217-218, vedi anche Orator, 55 e 56.
[18] Quintiliano, Institutio oratoria¸ vol. I,11,17.
[19] Ivi¸ XI,3,69, trad. cit., vol. III, p. 1887.
[20] Ivi¸ XI,3,95 e 100, trad. cit., vol. III, p. 1897 e 1899.
[21] Ivi ¸ XI,3, 112-114 e 124, trad. cit., vol. III, p. 1905 e 1911.
[22] Ivi,  XI,3,25.
[23] Cicerone, De oratore, II,189, trad. cit., p. 433.
[24] Tusculanae disputationes, IV, 55, trad, it. di L. Zuccoli Clerici, Milano, Rizzoli, 1996, p. 411.
[25] Seneca, De ira, II,17,1, trad. it. a cura di R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 159.
[26] Plutarco, Questioni conviviali, V,1,2.
















Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo nella teoria
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