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Claudio Vicentini

2. Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo nella teoria della recitazione del mondo antico, parr. 4-6

Data di pubblicazione su web 24/03/2005
figurine in terracotta di attori greci, II sec. a.C., Museo del Louvre, Parigi

4. Moderazione e autocontrollo. La figura del personaggio.
La concezione tradizionale dell'attività dell'attore doveva però scontrarsi con un ideale che si andava imponendo nella cultura greca tra il quinto e il quarto secolo a. C, e trovava ampio spazio nell'insegnamento di Socrate e poi di Platone e di Aristotele. Era un'ideale di carattere morale, che poneva come valore la capacità di controllare gli impulsi e i desideri attraverso il rigoroso esercizio delle nostre facoltà razionali. Questo ideale si estendeva in campo estetico al riconoscimento del valore dell'autocontrollo e della moderazione, che diventavano requisiti essenziali di ogni manifestazione artistica: «se si oltrepassa la misura», sentenziava Democrito, «anche la cosa più gradevole diventa sommamente sgradevole».[1] Per quanto riguarda la recitazione ciò comportava il rifiuto di qualsiasi espressione emotiva incontrollata, che si riflettesse in gesti disordinati ed eccessivi. Così Platone nelle Leggi condannava i coreuti che in alcune cerimonie si esaltavano «effondendo sulle cose sacre ogni sorta di bestemmie» e tentavano di sollecitare l'anima degli spettatori e di «farli piangere di punto in bianco» con «parole, ritmi e lugubri armonie».[2]  E Aristotele, nella Poetica, criticava gli attori che «si lasciano andare in scena a movimenti di ogni genere», non diversamente «da quei cattivi suonatori di flauto che si rotolano su sé stessi». Sempre nella Poetica ricordava poi come l'attore Callippide fosse stato chiamato «scimmia» perché con i suoi gesti «passava ogni misura», così come tutti gli artisti «volgari e inetti».[3] Luciano, diversi secoli dopo, avrebbe concluso il suo racconto del danzatore colto da delirio mentre interpretava la furia di Aiace, osservando che l'artista, ritornato in sé al termine dello spettacolo, si era ammalato per il rimorso e la vergogna e si era rammaricato a lungo dei suoi eccessi, soprattutto perché uno dei suoi rivali aveva rappresentato in seguito lo stesso soggetto senza cadere nel medesimo errore e aveva riscosso l'approvazione generale.[4]

Lo sviluppo delle tecniche della recitazione e l’ideale della moderazione come requisito indispensabile ad ogni espressione artistica, esigevano dunque che l’attore, sulla scena, mantenesse un rigoroso controllo dei propri impulsi irrazionali. Ciò non significava affatto che  dovesse spogliarsi di ogni tensione emotiva. Questa, anzi, restava un requisito indispensabile per la sua arte. Ma nel nuovo clima culturale la tempesta di sentimenti che originariamente doveva sconvolgerlo e trascinarlo fuori di sé tendeva ad essere concepita in termini profondamente diversi, e veniva strettamente legata a una nuova esigenza, quella di rendere in modo convincente e rigoroso la precisa figura di un particolare personaggio. Il personaggio - la funzione che svolgeva all'interno della composizione poetica e il significato della sua presenza nella costruzione di un'opera - era infatti progressivamente diventato nella riflessione teorica del quarto secolo l'elemento distintivo della forma drammatica teatrale. Platone, nella Repubblica, tracciava la differenza tra la poesia «semplice» e la poesia «imitativa» osservando che nella prima il poeta parlava «in propria persona» mentre nella seconda riferiva il discorso «come se fosse un altro», e così facendo conformava quanto più possibile «il proprio dire a quello del singolo personaggio». E, concludeva, la forma di questa poesia è appunto quella «della tragedia e della commedia».[5] Successivamente Aristotele stabiliva la celebre differenza tra la poesia «narrativa» o «epica» e la poesia «drammatica», spiegando che in quest'ultima sono gli attori a rappresentare direttamente tutta intera l'azione «come se fossero essi medesimi i personaggi vivi e operanti».[6]

E' dunque la presenza del personaggio, motore vivente dell'azione, a costituire l'elemento distintivo della forma drammatica. Ma il personaggio per apparire convincente ed efficace, per funzionare insomma sulla scena, deve possedere una qualità indispensabile: il suo carattere, le passioni che lo agitano, e le azioni che compie devono essere legate da una profonda «coerenza». Non può provare passioni che non siano conformi alla sua indole, né manifestare qualità morali che noi abbiano nulla a che vedere con le azioni in cui si impegna, né compiere azioni che appaiano improbabili per un uomo del suo stampo. Come spiega Aristotele: dato, per esempio, un personaggio di questo o quel carattere, ciò che egli dice o fa deve risultare appunto da cotesto suo carattere conformemente alle leggi della verità e della verosimiglianza.[7]  La figura del personaggio si presenta quindi come una connessione, rigorosamente prestabilita,  di carattere, passioni e azioni. Le diverse forme che questa connessione poteva assumere erano del resto codificate, e si definiva così una sorta di galleria di figure, o tipologia di profili esemplari dei diversi generi di umanità, individuati secondo categorie generazionali, sociali, economiche, o morali. Era una tipologia diffusa nella trattatistica di argomento retorico o etico. Aristotele, ad esempio, nella sua Retorica, distingueva le categorie dei «giovani», delle «persone mature», dei «vecchi», oppure dei «nobili», dei «ricchi», dei «potenti», dei «poveri» o degli «sfortunati». E a ognuna di queste figure assegnava specifiche forme di passioni e di comportamenti.[8] In una simile prospettiva ogni personaggio teatrale doveva dunque corrispondere ai parametri di una tipologia consolidata, e l'attore per renderlo adeguatamente sulla scena doveva riprodurne con precisione le passioni e i comportamenti previsti, evitando di assumere atteggiamenti o modi di agire che potessero apparire difformi dal codice stabilito. Era assolutamente sbagliato, sentenziava ad esempio Aristotele, rappresentare donne nobili come se fossero femmine di malaffare, oppure, osservava Luciano, figure di eroi ardimentosi con  un  incedere molle ed effeminato.[9]

5. La nuova forma del coinvolgimento emotivo.
Rappresentare la figura del personaggio e manifestare le passioni e gli atteggiamenti che gli erano propri, costituiva così il compito fondamentale dell’attore. Ma per raffigurare davvero un personaggio in azione non era sufficiente combinare a freddo una composizione di tratti coerenti tra loro. Una semplice combinazione del genere sarebbe apparsa inerte e poco convincente. Per animarla era necessario che l'artista provasse davvero, nell'atto di creare, le passioni che attraversavano il personaggio. Questa norma, secondo la Poetica di Aristotele, riguardava innanzi tutto i poeti: i poeti che riescono più persuasivi sono quelli che, movendo da un'eguale disposizione d'animo coi loro personaggi, vivono di volta in volta le stesse passioni che vogliono rappresentare: cosicché, per esempio, con molto maggior verità riuscirà a rappresentare un animo in tempesta chi abbia l'animo in tempesta, un animo adirato chi si senta adirato. [10] Si trattava del resto di un'opinione da tempo largamente diffusa nel mondo greco. Aristofane un'ottantina di anni prima l'aveva già utilizzata in chiave satirica in una commedia, le Tesmoforiazuse, dove appariva in scena il poeta Agatone, di cui erano note le preferenze omosessuali, mollemente adagiato su un letto, acconciato in vesti femminili e circondato da raffinati oggetti di toeletta. E Agatone spiegava appunto di doversi comportare così per ragioni strettamente professionali, sostenendo che nessun poeta poteva comporre i propri drammi se non assumeva gli atteggiamenti dei suoi personaggi. Per rendere efficacemente le figure femminili doveva quindi adottarne integralmente i modi e i costumi. 

Nella cultura greca, a partire dalla fine del quinto secolo a.C., si può perciò individuare un nuovo modo di intendere il coinvolgimento emotivo dell’artista nel momento della creazione. Accanto al modo arcaico, che ipotizzava un intervento divino capace di produrre uno stato di esaltazione allucinata e incontrollabile, si colloca una concezione più recente, in cui la partecipazione dell'artista consiste nella sua capacità di riprodurre in sé una gamma di passioni, non tanto «estreme» e «dirompenti», quanto piuttosto precise e strettamente definite, secondo le indicazioni dettate dalla figura del personaggio. Per quanto riguarda la recitazione è evidente, da questo punto di vista, che l'attore non può comunque agire sulla scena senza mettere in gioco la propria interiorità. Per rappresentare il personaggio deve provarne davvero le passioni, e solo così è in grado di renderne efficacemente gli atteggiamenti e le espressioni. Ma si tratta di un coinvolgimento emotivo strettamente controllato e misurato. L’attore utilizza la propria tensione interiore esclusivamente per rendere con i gesti e con la voce, atteggiamenti espressivi predeterminati e rigorosamente coerenti con la figura da rappresentare. Il controllo che l’attore deve esercitare sui propri sentimenti, d’altro canto, non limita affatto l’intensità della reazione emotiva che la sua prestazione provoca nel pubblico, che viene indotto a soffrire, disperarsi o rallegrarsi seguendo le vicende dei personaggi sulla scena. La capacità di scatenare le passioni degli spettatori resta infatti, nell’opinione del tempo, il criterio fondamentale per valutare la bravura di un interprete. E non per nulla i più famosi attori avrebbero continuato a vantarsi della loro capacità di far piangere, senza alcun ritegno, gli spettatori.[11]  Ma il coinvolgimento del pubblico non avviene più ad opera di un misterioso contagio d’origine divina. Si presenta invece come il semplice risultato di un processo del tutto naturale, già descritto da Platone, secondo cui ogni essere umano è indotto a partecipare spontaneamente agli stessi sentimenti e alle stesse passioni che vede espressi efficacemente da  altri, di fronte a sé.[12]

 La nuova teoria riusciva così a spiegare in modo assai più articolato il fenomeno della recitazione e dei suoi caratteri emotivi. Ma a questo punto si apriva un problema capitale. Secondo la concezione arcaica le condizioni interiori dell’attore erano determinate dall’azione divina che sconvolgeva il suo animo in una tempesta di sentimenti. Nella nuova concezione ogni riferimento all'intervento della divinità cadeva, e l'attore doveva non tanto esaltarsi quanto piuttosto provare  una serie di passioni assolutamente precise e definite: l'ira, il dolore, la gioia, e tutta la varietà di emozioni che animavano il personaggio nello sviluppo della vicenda. E si trattava allora di spiegare come mediante le sue semplici risorse personali potesse evocarle in sé, scena dopo scena, proprio al momento giusto e in riferimento all’esatta tipologia del personaggio.

Platone per la verità aveva parlato di una sorta di influenza che la figura del personaggio poteva esercitare sulle disposizioni interiori dell'attore. Nella Repubblica e nelle Leggi, descrivendo la creazione artistica come una forma di imitazione, aveva osservato che le imitazioni protratte nel tempo «si consolidano in abitudini e costituiscono una seconda natura». E' un fenomeno, aveva spiegato, che ha luogo non solo «per il corpo e per la voce» ma anche «per il pensiero».[13] Ora l'attore, sulla scena, produceva appunto un'imitazione del personaggio. Anzi, proprio «mimare una figura e un atteggiamento» con il proprio corpo e con la propria voce, costituiva la forma «più eccellente» di imitazione[14]. E l'imitazione coinvolgeva inevitabilmente le disposizioni interiori dell'artista. Perciò da un lato chi recitava non poteva rappresentare efficacemente figure troppo distanti dalla propria natura.[15] E dall'altro lato le qualità e le disposizioni interiori del personaggio non potevano non incidere sulle condizioni interiori di chi lo rendeva sulla scena. Al punto che l'interpretazione di figure inferiori e indegne appariva a Platone moralmente deleteria e pericolosa per quanti praticavano la recitazione, e diventava necessario adottare alcune severe misure cautelative: a coloro che pretendiamo di curare e che debbono essere uomini onesti, non permetteremo di imitare, essi che sono uomini, una donna, giovane o anziana, mentre insolentisce il marito o contende con gli dei … E non dovranno imitare schiave e schiavi intenti ad attività di schiavi … E nemmeno uomini cattivi, sembra, e vili: uomini che si comportano all'opposto di come abbiamo detto per ora; che s'ingiuriano e si fanno ridicoli a vicenda e dicono frasi oscene, ubriachi o sobri; e tutte quelle altre sconvenienze che simili individui commettono quando parlano, e quando operano, verso sé come verso gli altri.[16] Per questo in uno stato regolato da leggi giuste e sagge ai cittadini non può essere consentito interpretare personaggi bassi e ignobili. Però è bene che qualcuno reciti questo genere di figure, perché «non è possibile conoscere ciò che è serio senza il ridicolo, né tutti i contrari senza tutti i loro contrari». E si dovrà allora ricorrere alle prestazioni di schiavi e stranieri: Si deve invece comandare che operino siffatte imitazioni schiavi e stranieri stipendiati, ma non ci si dedichi mai assolutamente a nessuna di simili occupazioni; nessun uomo libero abbia fama di apprendere tali cose, nessun uomo e nessuna donna.[17]       

All'interno di una preoccupazione di tipo morale emergeva così una visione della recitazione in cui l'attore riproducendo i gesti e i comportamenti esteriori del personaggio ne assimilava le qualità e le disposizioni d'animo. Tuttavia questo processo di assimilazione interiore avveniva in un tempo relativamente lungo. Le qualità del personaggio operavano a poco a poco sulla struttura profonda dell'anima dell'interprete, dove si consolidavano i vizi e le virtù delle figure ripetutamente imitate. Era dunque un processo di trasformazione morale che poco o nulla aveva a che vedere con la capacità dell’attore di sollecitare immediatamente in sé, nel corso della rappresentazione, una molteplicità di passioni che dovevano susseguirsi in modo preciso, l'una all'altra, con andamento più o meno rapido secondo lo svolgimento delle scene. Aristotele, dal canto suo, quando sosteneva che i poeti devono «muovere da un'eguale disposizione d'animo coi loro personaggi» e «vivere di volta in volta le passioni che vogliono rappresentare», aveva risolto la questione appellandosi a un «dote naturale». Ma in questo modo il problema era soltanto aggirato. All'intervento divino capace di scatenare improvvisamente nell'artista gli stati emotivi necessari, si sostituiva un dono della natura che il poeta o l'attore non potevano in alcun modo sollecitare o regolare.[18] Si trattava di una facoltà misteriosa, sottratta ad ogni forma di controllo, impossibile da eccitare mediante qualche risorsa consapevole dell'interprete, o mediante qualche abile espediente tecnico.

6. L'arte dell'attore e dell'oratore.
La soluzione del problema, almeno secondo i documenti che ci restano, doveva essere suggerita solo in epoca romana nei trattati d'oratoria di Cicerone (l’Orator e il De oratore) e di Quintiliano (l’Institutio oratoria), scritti rispettivamente verso la metà del primo secolo a.C. e verso la fine del primo secolo d.C. Queste opere insieme al dialogo platonico di Ione costituiscono, anche se indirettamente, le più ampie trattazioni sull'arte dell'attore nel mondo antico di cui oggi possiamo disporre e hanno esercitato un’influenza fondamentale sulla teoria della recitazione in epoca moderna, fino al termine del diciottesimo secolo. Gli scritti di Cicerone e di Quintiliano riguardano in effetti la figura dell'oratore e non quella dell'attore, ma sono ricche di paragoni tra le tecniche dell'oratoria e quelle della recitazione e soprattutto muovono dal presupposto dichiarato della loro stretta somiglianza.[19]

Innanzi tutto, spiegano Cicerone e Quintiliano, l'oratoria e la recitazione sono simili per gli scopi che si propongono. Quando declama di fronte al pubblico l'oratore non deve solo informare e convincere ma, proprio come l'attore, anche commuovere e dilettare tutti i presenti.[20] Poi è simile il rapporto che lega l'uno e l'altro al testo da declamare. L'attore dispone di un dramma che il poeta ha composto tenendo conto degli effetti da produrre sulla scena. E l'oratore, prima di presentarsi in pubblico, prepara il suo discorso non soltanto scegliendo gli argomenti più adatti ma anche individuando le immagini, le parole e le frasi più efficaci per colpire l'immaginazione degli spettatori. Quindi, declamando quanto ha preparato, utilizza proprio come l’attore le intonazioni della voce, i gesti, i movimenti, insomma tutta l'espressività fisica necessaria per impressionare l'uditorio e modellarne l'animo. E'una sorta di «eloquenza del corpo», che nei termini della trattatistica viene chiamato «actio».[21] Si tratta, secondo Cicerone, di un linguaggio fondamentale e indispensabile che «scaturisce direttamente dall'anima», possiede un'efficacia «che proviene dalla natura» e può esercitarsi con estrema intensità anche «sugli ignoranti, sulla folla, e persino sui barbari».[22]

Il compito dell'oratore e quello dell'attore consistono dunque nel trasmettere con un linguaggio fisico parole e immagini attentamente predisposte. E in tutti e due i casi la capacità di padroneggiare gesti e intonazioni – dunque gli strumenti propri della recitazione -  appare di gran lunga più importante, per ottenere gli effetti desiderati, del testo da comunicare. Come gli attori di teatro, osserva Quintiliano, «aggiungono tanto fascino ai poeti migliori che quegli stessi ci danno infinitamente più piacere all'ascolto che alla lettura, e riescono ad assicurare un uditorio anche ad autori di infima qualità», così l'actio «ha un'efficacia e un potere straordinario nell'oratoria». Infatti «non è tanto importante la natura di quello che abbiamo elaborato nella nostra mente quanto il modo in cui esso viene espresso»[23]. Su questo punto era d'altronde possibile invocare la testimonianza di Demostene, modello esemplare di oratore per la cultura del mondo antico: Demostene, quando gli si domandò quale fosse l'elemento primario di tutta l'oratoria, diede la preminenza alla declamazione, e le concesse il secondo e il terzo posto, fino a che il suo interlocutore cessò di fargli domande: così poté sembrare che egli l'avesse considerato non l'elemento principale dell'oratoria, ma l'unico.[24]

I fini, l'uso del medesimo tipo di linguaggio espressivo, la maggior importanza dell'intonazione vocale e della resa gestuale rispetto alla semplice efficacia delle parole e delle immagini contenute nel testo, rendono dunque il compito dell'attore strettamente affine a quello dell'oratore. Ma esiste anche un altro e più preciso elemento di somiglianza. Tanto chi recita una commedia quanto chi declama un'orazione deve saper assumere gli atteggiamenti e le forme espressive di personalità differenti dalla propria. L'attore sulla scena parla e agisce in modo da rappresentare un personaggio. In maniera non troppo diversa, secondo Quintiliano, l'oratore deve sovente calarsi nella figura del proprio assistito, e parlare e agire come se fosse proprio quest'ultimo a rivolgersi al pubblico.[25]

L'affinità tra le tecniche dell'oratoria e quelle della recitazione appare a questo punto così stretta da rendere più che opportuno per l'oratore trarre insegnamento dagli attori. Demostene, come ricorda Quintiliano, aveva avuto come maestro l'attore Andronico, e Cicerone all'inizio della sua carriera si sarebbero ispirato all'arte di due altri celebri principi della scena, Esopo e Roscio.[26] Tra l'actio e la recitazione teatrale venivano tuttavia individuate due differenze fondamentali. Mentre l'oratore trattava di fatti autentici e di persone reali, l'attore rappresentava figure immaginarie e vicende inventate che doveva rendere vive e plausibili di fronte agli occhi degli spettatori.[27] Inoltre era essenziale che l'oratore per essere convincente e credibile apparisse sempre dotato di un'indubbia autorevolezza personale. Così non solo quando parlava in propria persona ma anche quando si calava nella figura del suo assistito, chiunque esso fosse, doveva riuscire a proiettare un'immagine improntata alla correttezza e al decoro. Di qui discendevano alcune importanti varianti stilistiche, e l'oratore doveva compiere una rigorosa selezione tra le possibilità espressive offerte dall'arte teatrale. Avrebbe evitato i gesti troppo pesantemente mimici di cui l'attore si serviva per evocare una realtà solo immaginata. Nell'oratoria, osservava Cicerone, le espressioni delle diverse emozioni sono «accompagnate dal gestire, ma non da quello teatrale che dà espressione a ogni parola», bensì «da un gestire che chiarisce la situazione e il pensiero in generale, non con la mimica ma con semplici cenni».[28]  Inoltre mentre era senz'altro opportuno che l'attore mantenesse sulla scena un decoro che però, oltre al rispetto del buon gusto, non aveva finalità particolari, per l'oratore l'autorevolezza e la dignità della propria figura rappresentavano una vera e propria arma retorica a cui non poteva assolutamente rinunciare. Quindi, come spiega Quintiliano, non gli si addicevano «le smorfie e i gesti strani che di solito fanno ridere nei mimi», e gli era del tutto estranea «la mordacità scurrile, da palcoscenico».[29] La sua azione doveva insomma apparire complessivamente più sobria e misurata di quella dell'attore: l'attore utilizzerà pause di esitazione, modulazioni della voce, vari gesti delle mani, diversi movimenti della testa. Il discorso [dell'oratore] ha un altro sapore e non vuole essere troppo condito; infatti si fonda sull'azione oratoria, non sulla mimica. Perciò si critica non a torto una declamazione piena di smorfie, che infastidisce con la gesticolazione e che saltella con continui cambiamenti del tono della voce.[30]

 



[1] Democrito, Frammento  B 102 in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlino, 1903, trad. it. di V. Alfieri in Gli atomisti, Bari, Laterza, 1936, p. 239.
[2] Ivi, 800d, trad. cit., p. 802.
[3] Poetica, 1461b, 30 e 35; 1462a 5; trad. cit., pp. 205-207.
[4] Luciano, La danza¸ 84.
[5] Repubblica, III, 393a-c, 394c, trad, cit., vol. II, pp. 214-15.
[6] Poetica, 1448a, trad. cit., pp. 54-55.
[7] Ivi, 1454a, trad, cit., p. 113. E vedi anche 1461b.
[8] Retorica, 1388b-1391b. La tipologia dei personaggi, definiti in base a categorie sociali, generazionali e caratteriali  si rifletta del resto nella configurazione delle maschere. Vedi in proposito l'elenco delle maschere descritto nell'Onomasticon di Polluce (IV, 133-154), e Heinz Kindermann, Il teatro greco e il suo pubblico, tard. it. Firenze, La Casa Uscher, 1990,  pp. 104-106
[9] Poetica, 1462a, e Luciano, Il pescatore, 31.
[10] Poetica, 1455a, trad. cit., p. 126.
[11] Senofonte, Simposio, III, 11. Per celebrare la grandezza di Teodoro si tramandava come recitando una tragedia di Euripide di fronte ad Alessandro di Fere, tiranno famoso per la sua crudeltà, avesse ispirato nel pubblico un tale sentimento di pietà nel rappresentare le sventure dei personaggi da indurre il tiranno ad abbandonare precipitosamente la rappresentazione (Plutarco, Vita di Pelopida, 19). Sotto questo aspetto l'arte della recitazione consisteva dunque nella capacità di creare un'autentica tensione emotiva tra due poli - l'attore e lo spettatore - che dovevano riflettere in sé una varietà di passioni strettamente riferite alle figure dei personaggi. E il processo doveva essere ovviamente innescato dall'attore, nel momento in cui riusciva a provare davvero le emozioni del personaggio da rappresentare.
[12] Repubblica, 605e, trad. cit., vol. II, p. 438.
[13] Platone, Repubblica, 395d, trad. cit., vol. II, p. 216.
[14] Platone, Sofista, 267a, traduzione italiana di A. Zadro, Opere, cit., vol. I, p. 434.
[15] Platone, Repubblica, 394e-395a, trad. cit., vol. II, p. 216.
[16] Ivi, 395e-396a, trad. cit., vol. II, p. 217.
[17] Platone, Leggi, 816e, trad. cit., vol. II, p. 822.
[18] Aristotele, Poetica, 1455a, trad. cit., p. 126.
[19] Cicerone, De oratore, III, 83.
[20] Cicerone, Orator, 69; De oratore, II,115 e 128; Quintiliano, Institutio oratoria, III,5,5 e XI,3,154.
[21] Cicerone, Orator, 55, trad. it. a cura di G. Barona, Milano, Mondadori, 1998, p. 41. Vedi anche De oratore¸ III,222.                            
[22] Cicerone, De oratore, III, 221 e 223, trad. cit., pp. 735-37.
[23] Quintiliano, Institutio Oratoria, XI,3,2 e 4, trad. it di C. M. Calcante,La formazione dell'oratore, Milano, Rizzoli,1997, vol. III, p. 1855. Vedi anche Cicerone: l'actio «è il fattore preponderante dell'oratoria; senza questa il migliore degli oratori non  può valer nulla, mentre un oratore mediocre, abile in questa, spesso può superare i migliori» (De oratore, II,213, trad. it. di I. Torzi e G. Cettuzzi, Milano, Rizzoli, 1999, p. 727).
[24] Quintiliano, Istituto Oratoria, XI,3,6, trad. cit., vol. III, p. 1855-57. Vedi anche Cicerone, De oratore, II,213.
[25] Quintiliano, Institutio oratoria, IV,1,47. Vedi anche ivi III,8,49; XI,1,39, e Cicerone, De oratore, II,192.
[26] Quintiliano, Institutio oratoria, XI,3,7; Putarco, Vita di Cicerone, 5; Macrobio, Saturnalia, III,14,12.
[27] Cicerone, De oratore, II,34 e 192-193; III, 214. 
[28] Ivi, I,251, trad. cit., p. 735. Vedi anche Quintiliano, Institutio oratoria, XI,3,88 e 89.
[29] Quintiliano, Institutio oratoria¸ VI,3,29, trad. cit., vol. II, p. 1047.
[30] Ivi, XI,3,181-183, trad. cit., vol. III, pp. 1941-43. Vedi anche ivi, I,8,3 e XI,3,22-24.












Da Platone a Plutarco. L'emozionalismo
nella teoria della recitazione
del mondo antico:

parr. 1-3

parr. 7-8

parr. 9-11


 

 
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