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Roberto De Simone

Note di regia per l'opera Il Re Bello

Data di pubblicazione su web 20/10/2004
La locandina dell'opera
Quando - per l'anniversario della fondazione dell'ateneo fiorentino - Siro Ferrone mi propose di comporre un melodramma per celebrare anche il trentennale della morte di Palazzeschi, di buon grado accettai. Accettai in primo luogo perché - mai come in questo momento - si avverte l'impellente esigenza di rinverdire la nostra memoria storica, il nostro immediato passato, la memoria del Novecento testé trascorso: un secolo, nel bene e nel male, che ha lasciato consistenti tracce nel nostro DNA; il secolo stesso di Palazzeschi, nel quale si assommarono i fasti e i nefasti di D'Annunzio, le mitraglie di Marinetti, le illuminazioni di Ungaretti, il saio di Pasolini, e poi la ruvidezza di Manzù, gli spazi di Carrà, il blu di Boccioni, e poi ancora le vetrate sonore di Puccini, di Respighi, la meccanicità di Casella, le asperità di Petrassi, le spettroscopie di Luigi Nono; il secolo traumatizzante di due guerre mondiali, la prima delle quali ha avuto il potere di sancire la nostra unità nazionale.

Ed io, lo confesso: mi sento italiano solo al cospetto della guerra del '15-'18, cui parteciparono in prima linea i siciliani, i calabresi, i pugliesi, i napoletani, per la prima volta in marcia per due con i toscani, coi veneti, coi sardi, e così affratellati per i futuri monumenti ai caduti, furono tutti falciati inutilmente nel compiere atti di folle eroismo o di lucido ed egualmente eroico disfattismo, condotti al massacro al ritmo di ipocrite fanfare che tuttavia oggi ci commuovono perché in esse viviamo i fantasmi, veri o mistificati, della Patria, delle itale bandiere, dei militi ignoti, dei Fratelli d'Italia, che devono - dico "devono" - far parte della memoria dei giovani, vittime spesso di un lavaggio della ricordanza, senza la quale il presente che trascorriamo è privo di qualsiasi riferimento alle nostre radici storiche.

E la seconda guerra? Quell'apocalisse epocale che, pur conducendoci alla civiltà della Coca Cola, ci restituì a caro prezzo una libertà democratica, ci affrancò dal fascismo, spazzò via i Savoia, e instaurò una stagione culturale di abbaglianza internazionale. Eravamo poveri ma belli! Ecco perché, pur detestando i nazionalismi romantici, fascisti e guerrafondai, una qualsiasi banda musicale che esegua quei bruttissimi e pacchiani inni patriottici mi procura lo scioglimento ematico, l'accelerazione alle coronarie, e l'involontaria umidificazione alle pupille.

Insomma, per questi motivi, lessi d'un fiato il bel libretto che Siro Ferrone aveva tratto da Il Re bello: una delle più originali e stravaganti novelle di Aldo Palazzeschi. Si narra di un Re in disperata attesa di un erede perché la Regina sua consorte gli partorisce, quasi a dispetto, solo figlie femmine. Quando l'esausta sovrana, dopo undici parti, dà alla luce l'ennesima principessina, Sua Maestà, contrariatissimo, impone al suo primo ministro di annunciare al popolo la nascita del sospirato principe ereditario. Muoiono la Regina ed il Re, e il diciannovenne nuovo sovrano, alias principessa Marina en travesti, più volte si duole col vecchio ministro Ercole Pagano, cui dichiara di mal sopportare la menzogna di Stato che non le consente di vivere appieno il suo ruolo di donna. Purtuttavia, in ossequio alla volontà paterna, ella, denominata da tutti "il Re bello" per la sua avvenenza, si presta anche alla farsa politica di sposare una nobile principessa di sangue reale, dalla quale la nazione si aspetta l'augusto discendente.

Invece è il Re bello a confessare al suo ministro di essere incinto dopo una furtiva relazione con il più prestante delle guardie reali. Giunge il momento del parto e il vecchio Ercole Pagano annuncia al popolo che il Re bello, per inaudito miracolo, ha partorito finalmente l'erede maschio, anzi, ha partorito due gemelli, e subito dopo è stato assunto in cielo. Si commuovono i creduli sudditi ed elevano un inno di gloria al loro defunto e divinizzato sovrano. Nell'ultima scena il Re bello, finalmente in abiti femminili alla moda, dà l'addio al vecchio ministro, e si accinge a partire dal regno come "contessa Marina", per sparire per sempre. La favola, desunta sicuramente dalla tradizione popolare, accoglie elementi agiografici dalla leggenda di santa Marina, di cui si riscontrano varianti orali in area irpina, lucana, salentina e, probabilmente, anche toscana.

In ogni modo, conquistato dal libretto, composi la musica nell'arco di circa due mesi, col primario intento di riferirmi alla tradizione italiana del melodramma, prendendo avvio da due esemplari modelli di opera comica: Falstaff e Gianni Schicchi e proseguendo con assoluta libertà, miscelando elementi ironici di colorature barocche, bronzei squilli per eroi castrati, grotteschi echi verdiani e pucciniani, riferiti rispettivamente a un maschilismo patriottico da "Corriere dei Piccoli" e a un femminilismo alla "Liala" di sicuro effetto teatrale ma contraddittorio e ricattatorio. Né mancano frammenti parodistici ricalcati sulle galoppate di Brunilde, sulle virilità dei bersaglieri, sui pudibondi canti di Vispe Terese, sull'illusorio milione di Bonaventura, su fallici turgori sinfonici con Viagra wagneriano, tuttavia, senza mai scendere a patti con Riccardo I e II (Wagner-Strauss), con Wolf Ferrari, con Mahler, o con i più recenti eredi di avanguardistici trapianti viennesi o parigini. L'opera vuole essere un divertito footing nella storia musicale del Novecento italiano, dedicato ai giovani, per ripetere con l'ironia toscana di Aldo Palazzeschi: "Gli uomini che prendono sul serio gli altri mi fanno compassione, quelli che prendono sul serio sé stessi mi fanno sganasciare dalle risa".



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La segnalazione dell'opera

 
Inventare progettare costruire prototipi
articolo di Siro Ferrone 

Premeditata e all'improvviso
articolo di Maurizio Agamennone

 Intervista a Roberto De Simone

Trascrizione del seminario tenuto da Roberto De Simone per gli studenti dell'Università di Firenze


 
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