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Italo Moscati

Roma, i luoghi, il cinema

Data di pubblicazione su web 07/10/2004
Anna Magnani in Roma città aperta
Scivola la macchina da presa lungo i Fori Imperiali, dopo aver inquadrato per qualche istante il Colosseo illuminato a giorno nel pieno della notte. Le moto con i caschi marziani girano intorno a Piazza Venezia. Sono appena arrivate dal GRA, grande raccordo anulare; lì pioveva e le prostitute si proteggevano a gruppi sotto ombrellini larghi una spanna, le auto delle polizia a sirene spiegate andavano veloci non si sa verso dove, un cavallo a criniera bagnata e senza sella correva davanti a una fila di macchine dai vetri appannati.

Ora le moto sono giunte a Piazza Venezia. La macchina da presa inquadra una strana scena non più a colori ma in bianco e nero. In mezzo alla gente, tra le bandiere e le mani che sventola, arrancano le jeep dei soldati americani che salutano e regalano sigarette, cioccolata, gomma da masticare. Poi, all'improvviso, il bianco e nero cede ai colori e allora ecco che le bandiere pallide prendono vigore, le divise sono meno slavate, gli elmetti luccicano sotto il sole, i ragazzi e le ragazze agitano fiori rossi, bianchi, verdi, gialli…Un passo ancora ed ecco Piazza di Spagna, dove un fioraio che sistema i suoi petali e li mostra alla macchina da presa che li annusa, macchie variopinte mentre il cielo è sempre più blu …. Di nuovo il bianco e nero, la piazza è la stessa, c'è più confusione, i turisti scattano fotografie, i barrocciai caricano coppie di giovani sposi… passa una Vespa con un giovane alto e bruno a cui si stringe il braccio di una ragazza dai grandi occhi e dalla frangetta mossa appena dal vento…

Ora i motociclisti sono arrivati a Trastevere, passando pericolosamente attraverso le bancarelle della Festa de Noartri, i tavoli delle trattorie sono colmi, arrivano i camerieri con i piatti di pasta all'amatriciana e da una finestra un uomo urla d'amore e di rabbia…

Punto. A capo. Questa speciale macchina da presa, più finta e vera della finzione, ha inquadrato e montate insieme immagini di diversi film che nel tempo si sono impossessati di Roma o di sue parti, con golosità. Sono immagini di opere famose come Roma di Federico Fellini del 1972 e altre che non sono entrate nella storia del cinema e che sono lì dietro un angolo della memoria pronte. Sono le immagini in bianco e nero girate nel giugno del 1944 da anonimi cineoperatori americani al seguito delle truppe che liberarono la città, ma sono anche quelle a colori che girò William Wyler, il quale fece posare gli occhi delle sue macchine sul set di una città finalmente aperta per davvero. Occhi che riprendevano la scalinata di Piazza di Spagna a colori, fissando nell'angolo in basso a sinistra la scena del fioraio. Lo stesso fioraio e lo stesso chiosco, magari rimesso in sesto e riverniciato, che Wyler nel 1953 volle per il suo film in tempo di pace Vacanze romane con Gregory Peck e Audrey Hepburn, il giornalista e la principessa che s'innamorano nell'incanto di una città senza angoscia, questa volta di nuovo in bianco e nero. Una coppia semiclandestina, da favola, e una Vespa che fanno un'icona da museo rimasta tale.

Un film nel film, nel gioco della memoria. Che si conclude provvisoriamente con i motociclisti felliniani che da Trastevere, luogo di culto e di peccato, villaggio di amore morte e simpatia, potrebbero spostarsi veloci sul pezzo di strada dove muore Accattone di Pasolini, 1961; dove corre Anna Magnani per non separarsi dal suo uomo e dove muore falciata - come si dice - da una nazista raffica di mitra, 1946, Roma città aperta; dove si spogliano, litigano, mangiano, si bagnano sotto un acquazzone estivo i bagnanti di Casotto di Sergio Citti, 1977; dove Peter Greenaway, 1987, taglia con i suoi obiettivi di regista-pittore il ventre antico e nuovo della capitale, dissanguando il suo protagonista ne Il ventre dell'architetto. Punto. Il gioco potrebbe continuare, è ovvio, a lungo, e ognuno può farlo, costruendo il suo film personale con i ricordi che affiorano nella mente senza troppo pensare, facendosi aggredire dalle scene e dalle sequenze in cui Roma è stata rappresentata e rovistata.

Da alcuni questi anni in qua, si va volentieri a caccia del cinema che non c'è più, perché quello che c'è piace meno o appare distratto dalla fiction tv e dalle commedie intimiste ambientate talvolta in malinconiche se non addirittura vuote spelonche delle coscienza. Circola la voglia di restituire la vita ad una passione di celluloide che sembra consumarsi (ma non è detto), si scatena una sorta di pellegrinaggio tra i posti delle cineriprese, in termine tecnico gli "esterni", dove sono stati messi su i set e dove sono stati realizzati i film più cari, affettuosi, significativi (perché non citare quel set vero e immaginato che è la Roma del mondo di C'eravamo tanto amati di Ettore Scola, 1974?) .

È una sorta di via Francigena senza fine, che si morde appassionatamente la coda, per viandanti del grande schermo, una via che va al cuore o al ventre di una Cinecittà trasformatasi nel tempo. La Cinecittà che è uscita dagli studi ed è andata a mendicare realtà in giro per Roma anche quando aveva milioni di dollari per ricostruirla, come del resto ha fatto fin dal dopoguerra, Quo Vadis? di Mervyn LeRoy, 1951.

Molti hanno tentato di fare una galleria virtuale di questa via Francigena. Sulle sue pareti, come lungo un corridoio, si è pensato di collocare i quadri di un'esposizione in cui i pellegrini (noi spettatori) potessero specchiarsi. Ma l'impresa si è rivelata improba, se non impossibile. Sono state fatte, di necessità, delle scelte. La Roma di Pasolini, quella di Fellini, quella di Pietro Germi (Il maledetto imbroglio, 1959, dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana), su su fino a quella di Nanni Moretti (Caro diario, 1993), Marco Bellocchio (Buongiorno notte, 2003). Selezioni rigorose, forse, particolari, comunque valide. Ma…

Ma c'è anche la Roma di Poveri ma belli di Dino Risi (1956), de I soliti ignoti di Mario Monicelli (1958) o de Il sorpasso ancora di Risi (1962) e quella di tanti film con i vecchi comici come Totò, Peppino De Filippo, Mario e Memmo Carotenuto, e così via, una Roma dei quartieri piccoloborghesi e popolari. Una Roma fatta di un cordone di palazzi e case, una banlieu che circonda e si allarga intorno al centro storico, una cintura slabbrata, grigia e senza differenze, con uomini e donne vestiti con dignità, ognuno con le sue cadenze dialettali conservate come reliquie di un passato dal quale si è stati costretti a prendere la fuga.

Chi potrà mai guardarla, rivederla, magari studiarla, sottraendola alla furtiva visione notturna delle televisioni saccheggiatrici del divertimento, anzi dell'entertainment (in Italia una parola che fa schifo), per rubarne i piccoli ritratti bozzettistica e ricomporli nella grande cornice?

È la Roma misteriosa e avvolgente in cui Lucio Dalla, peloso come uno scimmione e carico di capelli, penetra accompagnato dai fratelli Taviani (Sovversivi, 1966) . È la Roma che gli fa esclamare la battuta, cito a memoria, su una città confusa e magmatica che ti apre le braccia come un'enorme, confortevole mignotta, più antica della Saraghina.

Poi, accadono fatti strani. O almeno capitano a me. Mi prende l'incontenibile di fare passi inversi. Ovvero, spesso sento il bisogno non di andare ai film e ai posti dove fu o è stato girato ma di compiere un viaggio opposto: partire da un posto, cercare, arrivare al posto. Faccio un esempio che riguarda un film del 1968. Lo si vede poco o mai. Forse, persino l'autore, Bernardo Bertolucci, non lo vede da tempo e non lo cerca, non so.

Si chiama Partner e racconta di un insegnante in un'accademia di teatro che trova un altro "io" che compie in sue vece le azioni, anche criminali, oppure rivoluzionarie, che egli vorrebbe, ma non sa compiere. È un film ispirato a Il sosia di Dostoevskij e la Roma che ne viene fuori è quella a cavallo fra centro storico e la cintura di cui sopra, più sul versante del centro storico: il villaggio tra le due sponde del Tevere, case traforate dal tempo e dall'oblio, stipiti, cornicioni, tetti che si portano addosso la patina del remoto, una dimensione povera quasi degradata e comunque di lusso, aristocratica, un ambiente, anzi una folla di emozioni dove il '68 e le sue innumerevoli metafore si calano per ricomparire frementi e velleitarie, importanti e labili.

Ricordo un muro screpolato di un palazzo nobiliare, un angolo, vicino ad un arco, forse nei pressi del Vaticano, dove le mani del Sosia sessantottino o qualcuno con lui o come lui ha attaccato manifesti, slogan, parole d'ordine di protesta. Una stagione di illusioni ed entusiasmi perduti. Il Vietnam e tutto quel che c'era da attaccare come i manifesti: più o meno tutto di quel mondo, di quell'Italia scopriva che nelle scosse venute dall'eterna estate californiana e dal Maggio parigino c'era le sue stesse scosse in attesa di svelarsi e di farsi vedere. Come in un film.

Dunque. I viaggi all'inverso, dai posti-set al film, non sono gli affluenti della via Frangigena di cui si diceva ma un sogno rovesciato che in una società , la nostra, in cui se succedono tante cose, e soltanto che il cinema ci riporta ai siti della realtà ma che i siti stessi ci riportano al cinema… Siti o persone… Chi può dire che, per chiudere il cerchio, la Anna Magnani inseguita da Fellini nella notte di Roma non viva oltre lo schermo quando si passa lì dove abitava, a pochi metri da piazza Argentina? Quel portone, quella viuzza lucida sotto la luna frustano l'oblio. Passateci.



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