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Italo Moscati

Carmelo Bene senza la divisa dell'avanguardia

Data di pubblicazione su web 21/12/2002
Carmelo Bene
Si chiamano Sale Storiche quelle che hanno ospitato la Mostra d'Autore a Palazzo Bricherasio, a Torino, dedicata a Carmelo Bene. Ma sono piccole sale in cui Carmelo è stato un po' stretto nei giorni dal 24 ottobre al 10 novembre del 2002; comunque, meglio di niente. Torino sembra avere adottato Bene, dopo avergli dedicato due rassegne sulle sue opere, attraverso i documenti cinematografici, televisivi, radiofonici esistenti. Roma dorme, la Puglia aspetta forse che finiscano le lite tra familiari e vedove di Carmelo prima di far capire cos'è e cosa sarà la Fondazione intitolata all'attore. Carmelo è morto nel 2002 eppure la sua scomparsa, nonostante i pochi mesi passati, sembra più remota, sostanzialmente legata a memorie formali, quasi infastidite, troppo "dovute" per apparire sincere.

La Mostra d'Autore raccoglieva manifesti, foto, libri, qualche oggetto, la riproduzione di una serie di articoli, una parte dei quali sono i coccodrilli pubblicati dai giornali nei giorni del lutto. Poca roba, un omaggio che non risulta frettoloso e limitato soltanto perché la capacità evocativa, che accompagna sempre e comunque tutto ciò che riguarda Carmelo, riesce a staccare la Mostra stessa dall'anonimità e a trasformarla in una promessa di un'altra Mostra più ampia, più all'altezza della varietà e dell'intensità dell'eclettico lavoro di Bene.

È andata meglio con il convegno per una ricchezza di interventi interessanti che hanno aiutato a colmare la sensazione di vuoto parziale e l'allusività della Mostra. L'elenco dei nomi era lungo e addetti al teatro, al cinema e all'università hanno cercato di costruire una serie di percorsi non tanto per esaurire i discorsi da fare su Carmelo quanto per, ancora una volta, rimandare ad altri appuntamenti formulati secondo un più ordinato progetto di studio e di riflessione. Ma è andata Bene - i giochi di parole sul cognome dell'attore si sono confermati irresistibili anche a Torino -, poiché gli interventi hanno disciplinato commozione e ricordi stemperandoli in uno sforzo evidente. A proposito di cognome, ecco una scelta esemplare dei titoli degli stessi interventi : "Il mondo senza Bene", "L'amato Bene", "Una vita per Bene", "In principio Bene…"

A me sono piaciuti particolarmente, tra quelli che ho avuto modo di sentire, i racconti di Sylvano Bussotti, ironico e affettuoso; dello scenografo Salvatore Venditeli, capace di far comprendere come nascevano le belle immagini degli spettacoli di Carmelo; del musicista Gaetano Giani-Luporini, sul rapporto tra suoni e musiche con le partiture complessive del teatro e del cinema dell'attore-regista; di Claudio Meldolesi, uno dei pochi in grado di inquadrare sul piano storico la figura di Bene. E voglio citare anche Edoardo Fadini che ha guidato le manifestazioni e , inoltre, ha dato vita con Lydia Mancinelli ad un godibilissimo, divertito duetto sulla vita pubblica e privata del cosiddetto eroe dell'Avanguardia.

Ecco, sulla base di quel che ho visto e ascoltato a Torino, adesso che Carmelo è apparso alla Madonna o a Pietro nell'anticamera del Giudizio, l'unica cosa che per ora mi sento di fare è di liberarlo di un peso, il peso di un corpo immateriale che ha nascosto e ingombrato, zavorrandolo, il suo stesso corpo in carne e pelle e ossa, fatto di invisibile polpa creativa, sofferente in senso proprio e spesso insofferente rispetto agli altri corpi, rispetto al suo stesso corpo.

Il peso che vorrei togliere dalle ceneri di Carmelo è quello di una divisa che gli è stata imposta nei lunghi anni - più lunghi della sua età effettiva, al di là dell'ultimo respiro, a 65 anni - in cui ha lavorato per plasmare qualcuno che non c'era prima, un attore di fine secolo, capace di sopravvivere a se stesso e diventare il Morto che Parla, il Suicida che raconta il suo gesto, in una sfida teatrale ed esistenziale. Mentre, intorno al lui, per molti, appariva come una sorta di marionettistico Golem uscito dalle notti dei progetti umani, ovvero un Superuomo senza patria né tempo. Esiste infatti come consolazione per tutti una famiglia di supermen, di mostri, di relativi sosia potenziati, dal Golem a Frankenstein e oltre; ovvero una seconda famiglia elettiva e ideale, una famiglia allargata, che ci ricorda l'esistenza di semi inquieti in cerca di orizzonti e di forza. È il focolare di titani spaventosi, dal cuore tenero, davanti al quale noi scaldiamo volentieri i nostri pensieri per addomesticare e sconfiggere le paure profonde, e il corrispettivo bisogno di generare sogni di eterna, spettacolare potenza. Ma Carmelo non è mai stato un titano.

La divisa è quella della avanguardia. Avanguardia, definizione generica eppure esatta di tutte le volontà e le voluttà del Novecento, sola religione laica legittimata ad esistere, nonostante le sue falle, le sue insidie, le sue falsità, in mezzo alle altre religioni laiche del secolo che fu. Il Novecento, centuria di anni in cui Fascismo, Nazismo e Comunismo hanno cercato di fare concorrenza sul piano della teoria e pratica laica alla religione del Vaticano; una fede che un povero filosofo-scrittore solitario, sfidando il dileggio e la dimenticanza, Nietzsche, aveva cercato ingenuamente di comprendere o comunque di interpretare, scoprendo che nel suo alto mistero ispirato al Cristo poteva annidarsi il germe di una ipocrisia di fondo e di superficie, a causa del consapevole o spesso inconsapevole tradimento dei ministri del verbo.

L' Avanguardia - usiamo la maiuscola per darle una dignità formale che non ha mai preteso, ma che fa comodo quando si pretende di fare Storia - ha composto una lunga stagione di arrabbiature e di illusioni, una specie di voluttuario controcanto ai poteri e alle potenze della politica e delle culture ad essi asservite, un sogno ad occhi aperti degno peraltro di essere vissuto.

L'Avanguardia, definita Storica per il curriculum risalente ai primi del Novecento, armò con sentimento, passione, amore per la tecnica e per i nuovi linguaggi espressivi, sull'onda di una furiosa spinta verso la ghigliottina delle arti della classicità e in genere della tradizione, intere generazioni di giovani testardi, emotivi, disposti ad abbracciare la causa dannunziana di Fiume, il futurismo di Marinetti e di Majakovskij, e via via il dadaismo, il surrealismo e tutti gli "ismi" disponibili.

Di fronte a Carmelo apparso all'Avanguardia tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, i tempi degli entusiasmi e delle esaltazioni, e cioè i periodi rutilanti delle rivoluzioni antiborghesi di sinistra o di destra, erano già conclusi. Resistevano le mura, reali e metaforiche, come quelle di Berlino che poi cadranno miseramente; ma le crepe per mandare in macerie il castello nato con la presa del Palazzo d'Inverno subito dopo la prima guerra mondiale erano talmente ampie e visibili, anche da molto prima, da far prevedere un inarrestabile, rapido, terremoto.

Carmelo è nato alla scena tra queste macerie ideologiche e i cimiteri novecentschi. Per il ragazzo di Campi Salentina (in provincia di Lecce), approdato a Roma e all'Accademia d'arte drammatica, doveva essere enormemente eccitante, e carico di energia-materia da utilizzare, il fatto che la caduta gloriosa o ingloriosa dei vari Marinetti, Majakovskij, Breton coincidesse con il coma infinito dell'Attore all'antica italiana (Zacconi, Ruggeri, Ricci, Gassman …) e con l'ascesa al patibolo dei registi-dittatori, ascesa dovuta più alla fine di un percorso narcisistico e non soltanto ideologico, che ad un avvicendamento nei ruoli di comando dopo l'eclisse dell'Attore.

Questa coincidenza di fattori, prodigiosa in quanto creata dalle sedimentazioni e dai fiumi carsici della Storia, costellata da una interminabile teoria di congedi riluttanti in svolgimento sotto gli occhi di tutti, con tombe e sepolture definitive sempre rimandate, doveva essere per il giovane Carmelo un piatto ghiottissimo su cui avventarsi e accanirsi, in nome di una fame atavica, spontanea, nativa, una fame stimolata dalla voglia di sostituire le vecchie portate senza stupefacenti nuove ricette, in nome di una vendetta da servire fredda, agli occhi di spettatori ammirati e sbalorditi fin dalle prime esibizioni romane del Carmelo d'antan, amato da Ennio Flaiano e da Alberto Arbasino, pescatore di perle nella compagnia parrocchiale D'Origlia-Palmi in un teatro situato a pochi metri dalle mura vaticane.

Forse Carmelo, come i ragazzi passati in tenera età attraverso il Fascismo, la Guerra e la Resistenza, nonché gli anni della Democrazia Cristiana, avvertiva istintivamente di dover compiere al contempo un doppio movimento: svolgere un compito difficile, quasi una "missione", tagliando con un passato da lasciare definitivamente alle spalle; tentare una scommessa inebriante, lanciandosi istintivamente, e con qualche calcolo di mercato inteso come bisogno di spazio per esistere, verso un futuro che era tanto indecifrabile quanto incalzante, un dopodomani in grado di trasformarsi in un laboratorio attivo dove riciclare memorie ed eredità, insieme a sospetti, e idee al di là della linea degli orizzonti disponibili.

A causa della duplice prospettiva - compito difficile e scommessa inebriante - Carmelo si è "trovato" ad essere il solo padre, e anche la madre, della Avanguardia italiana, anzi della Neoavanguardia, secondo il nome di battesimo scelto da gruppi intellettuali, il Gruppo '63, da Arbasino a Umberto Eco a Edoardo Sanguineti, frementi dal desiderio di cercare spazi al sole sotto l'insegna di una modernità liquida già aggiornabile alla postmodernità (i retrobottega dei rigattieri da nobilitare, compresi i massmedia), neanche segretamente disposti a provar di essere una futura classe dirigente. Carmelo, come gli succedeva di norma, si lasciava adorare.

Ma Carmelo non è mai stato, non poteva essere un padre o una madre, simbiosi genitoriale che in lui comunque si realizzava intimamente, ma solo a suo vantaggio o svantaggio, a seconda dei casi. Carmelo è stato per scelta e per sviluppo della sua vita un figliol prodigo, imprevedibile, compiaciuto della sua genialità, parte di una vanità senza confini, rigogliosa e nello stesso tempo dolente.

Carmelo era, per una condanna scelta nel momento stesso di costituirsi al tribunale della vita, un figliol prodigo senza ritorni, anzi sempre proiettato in corse, e cioè fughe in avanti, fughe di conquista, senza fine; e dunque via dalla noiosa Accademia, da una compagnia teatrale fatta di gerarchie e parole di polvere, dai set cinematografici o dagli studi televisivi corrosi dall'intima tensione a produrre solo cose inutili.

Queste corse, queste fughe di conquista senza fine sono apparse, davanti alla buca del suggeritore dei fatti e dei casi accaduti, e hanno lacerato il sipario negli anni in cui tutto sembrava in movimento e se ne stava andando in punta di piedi , ormai esaurita, l'Italia del neorealismo, un'Italia che aveva avuto le sue nuove basi postfasciste nelle macerie, nei lutti, nelle commozioni dei film di Rossellini e di De Sica.

Quando ,nel 1959, Carmelo esordiva al Teatro delle Arti di Roma nel Caligola di Albert Camus, regista Alberto Ruggero, Federico Fellini stava girando La dolce vita e Pier Paolo Pasolini preparava il primo film Accattone dopo aver fatto l'oscuro sceneggiatore per conto di Mauro Bolognini e altri registi di commedie dedicate ai poveri ma belli dell' epoca (il film omonimo di Dino Risi è del 1956). Il teatro in Italia era il Piccolo di Milano con la coppia Giorgio Strehler-Paolo Grassi, lo Stabile di Genova con Ivo Chiesa e Luigi Squarzina, e un corredo di compagnie di giro a caccia di eredi delle generazioni vissute e promosse durante il regime fascista; e tra questi eredi, primo tra tutti, giganteggiava Vittorio Gassman che, di lì a poco, farà nascere il Teatro Popolare sul modello di quello francese di Jean Vilar.

Insomma, Carmelo arrivava alle Arti nel momento in cui una svolta senza una precisa identità, senza radici profonde, era in vista; ma nessuno la vedeva, neanche lui, lui che ha saputo "sentire" il futuro più che essere capace di costruirlo, poiché il futuro di Carmelo è sempre consistito nell'avere fatto costruito per se stesso nel tempo un viaggio nel passato, nel suo passato, nel campo dei ricordi e delle radici, fruttuoso albero degli zecchini.

Tutto accadde nello scampolo degli iniziali anni sessanta. Carmelo aveva capito uno degli elementi essenziali per partecipare alla svolta senza volto che era sul punto di scatenarsi; e cioè l'elemento della comunicazione anticonvezionale e diretta con il pubblico, da ottenere con la sfida spudorata, l'insulto, la beffa, il gesto provocatorio. Scontri capaci da far dimenticare le contestazioni a Pirandello per il suo Stasera si recita a soggetto, scontri veri, scontri fisici. Carmelo in platea non cercava i poveri ma belli, ma i borghesi mondani golosamente a caccia di emozioni entro i confini della licenza scenica, un confine da violare per uno come Carmelo.

Carmelo cercava di porsi come l'artista della curiosità e della rissa in costume da bagno, il piccolo bagno nella piccola folla condotta per mano dei critici che abbiamo nominato, Flaiano, Arbasino, ai quali aggiungere Sandro De Feo. Critici di gusto, colti, capaci di calcolare la dose giusta di iconoclastia da servire ai loro lettori, per assecondarli, e farli emergere, individuandoli nell'oscillare incerto tra il doppio desiderio di essere spettatori affamati di sensazioni e consumatori raffinati di cultura. Cercavano di capire, e Carmelo li portava in giro tra irriverenze e guasconate, poiché probabilmente il suo vero intento era quello di farsi applaudire comunque, negando simpatia e gratitudini, mentre cercava di capire meglio come fare per capire la sua personale strada da percorrere.

Ma c'era una rivista, "Sipario", diretta da Franco Quadri, che aveva cominciato a segnalare qualcosa che non avveniva, non aveva alcun riscontro nei teatri borghesissimi del centro di Roma o nelle sale o teatrini al di qua e al di là delle rive del Tevere. Erano segnalazioni che viaggiavano velocemente perché esisteva una cieca aspettativa di un nuovo pubblico, anche non composto di giovani o giovanissimi, che al rito delle serate teatrali non era più disposto a prestarsi, attratto com'era dal cinema, dalla fotografia, dai rotocalchi, dalle timide immagini televisive, ossia da un oscuro bisogno di guardare e di ascoltare in modo diverso. L'occhio e l'orecchio di un pubblico anonimo, niente affatto mondano, anzi nemico della mondanità e del divismo dei mattatori e delle prime donne, cercavano il corpo, o meglio i corpi. Corpi glorificati dalle immagini, corpi senza bardature, corpi liberi.

Non credo che Carmelo conoscesse neanche per sentito dire l'esistenza del Living Theatre di Julian Beck o Judith Malina, del loro teatro bandito da New York, fatto insieme a un gruppo di giovanissimi di diverse nazionalità. Come credo che non conoscesse o volesse conoscere Jerzy Grotowski, il regista polacco, di quattro anni più grande di Carmelo, morto qualche anno prima: animato da una passione mistica per il corpo spogliato dell'attore e per le atmosfere misteriose, cariche di spiritualità e di un erotismo potente sotto la superficie levigata dell'epidermide, del conflitto-attrazione tra uomo e donna. Anche in questo caso, un attore-regista che rifiutava il realismo e la psicologia, gli schemi ideologici, le verità da spiegare o divulgare; e si era scelto un itinerario di sofferenza, di marginalità cercata e praticata, come protesta silenziosa e mimetizzata nell'Europa delle vulgate marxiste.

Credo invece che Carmelo conoscesse, anzi lo so per certo, Antonin Artaud, e il suo teatro della crudeltà, un teatro in cui al centro doveva essere l'attore che lancia gesti in mezzo alle metaforiche fiamme del palcoscenico. Gli interessavano le tracce indicate da Artaud, attore come lui, in bilico fra cinema (recitò per Abel Gance Napoleon e Carl Theodor Dreyer in La passione di Giovanna d'Arco) e teatro (ad esempio lo spettacolo I Cenci). Artaud teorizzava il teatro come "peste" che dissolve e purifica, che libera una "crudeltà latente" capace di rifondare o estinguere il teatro stesso. Era una lezione, rimasta nelle memorie del sottosuolo, che Carmelo poteva certamente apprezzare. A suo modo, anche il giovane interprete di Pinocchio, Amleto, Nostra Signora dei Turchi, Arden of Feversham - tutti spettacoli, dal 1962 al 1968, contaminati da una "peste" a volta a volta sarcastica, comica, funebre, rabbiosa - avvertiva i profumi di un misticismo capace di intrecciarsi nel paganesimo della sua terra di Puglia, di un gioco della crudeltà intesa come piacere inesorabile, di un atteggiamento d'ambiguità verso il teatro, croce e delizia, attanagliato dall'incertezza fra rifondazione e morte.

Artaud era un personaggio capace di infilarsi nel teatro, percorrendone luci e ombre fino agli inferi, proprio come Carmelo intendeva fare, e faceva, ma con minore solennità e grandeur pensosa rispetto al teatrante francese. Carmelo era la risposta italiana, l'unica capace di corrispondere alla consapevolezza di gente di teatro, come il lontano Artaud (morto nel 1948, ancora giovane, a cinquantadue anni), e come il vicino Julian Beck (morto nel 1985, prematuramente, a sessant'anni). Essi sapevano di avere a che fare con un cadavere, un cadavere che tale non era soltanto per la concorrenza omicida dei massmedia, in particolare del cinema, ma anche per l'esaurirsi della sua capacità di gridare o sussurrare l'assoluto, la vita e i suoi indecifrabili, inebrianti abissi nell'intimità di ciascuno. E fare scempio giocoso del cadavere. La trasformazione, anzi lo svelamento del teatro come ossimoro, l'una e l'altra cosa insieme, festa e loculo, un doppio colpo di scena.

Mi sono imbattuto per la prima volta in Carmelo per un suo Spettacolo Majakovskij, nel 1967. Ero appena arrivato a Roma da Bologna. Qui avevo visto tre recite del Living Theatre: Mysteries and Small Pieces, Frankenstein, The Brig. L'arrivo del gruppo di Beck e della Malina era dovuto a uno di quegli equivoci che spesso capitano anche quando si prendono iniziative con le migliori intenzioni. Infatti, il Living era stato invitato dalle autorità comunali all'interno di una tourné italiana di solidarietà verso il gruppo in cattive acque in patria, a causa di censure sui contenuti e le forme dei loro spettacoli, ma anche per non ben chiarite vicende di tasse.

Gli spettacoli mi conquistarono. Erano impressionanti. Niente scenografie o effetti speciali, niente costumi se non quelli necessari, come le divise, per The Brig, ambientato in un carcere militare. In apparenza, una grande capacità d'improvvisazione ma, in realtà, una straordinaria capacità artistica capace di entrare e uscire dalle acrobazie dell'improvvisazione sulla base di un calcolatissimo studio sulla fisicità e sul movimento. In Mysteries, un capolavoro, i corpi diventavano figure concrete e astratte, come se su una tavolozza si rincorressero colpi di pennello a suon di musiche terribilmente efficaci. Quei corpi, senza costumi, senza orpelli: giovani, coperti da folte chiome, capaci di danzare e di cantare. Quei corpi troppo nudi e quindi scandalosi per un pubblico ammirato in gran parte ma anche diviso, incerto, sconcertato.

L'eco in città trovò spazio nelle polemiche sui giornali locali. L'amministrazione comunale si preoccupò. I benpensanti, chiedevano la sospensione delle recite, il Living correva il rischio di essere scacciato anche da Bologna che pure aveva protetto il gruppo e voleva continuare a farlo. Qualcuno all'interno del partito comunista - maggioranza quasi assoluta nel consiglio comunale - ebbe l'idea di chiamare il critico teatrale di "Rinascita", Bruno Schacherl. Schacherl, uomo colto e spiritoso, venne e disse che il Living si ispirava, oltre che a Pirandello, realizzando un funambolico gioco delle parti, a Bertolt Brecht, il grande drammaturgo del Berliner Ensemble, il modello del Piccolo di Strehler e Grassi, oltre che della sinistra. Il critico non convinse i benepensanti, ma le recite furono per fortuna portate a termine. (L'anno dopo il Living, ad Avignone, mise ben in mostra la sua vocazione anarchico-libertaria realizzando Paradise Now, una sorta di sabba in cui il teatro sconfinava nella platea, e viceversa, e apriva le braccia al coinvolgimento più totale e dirompente. Altro che Brecht).

Con questi ricordi, e queste emozioni, alle spalle, incontrai Carmelo in una cantina di Vicolo del Divino Amore nei pressi di piazza Fontanella Borghese, a poche decine di metri da Montecitorio e quindi della Camera dei deputati. Si scendeva una scala, fra l'odore dell'umidità e della vernice che non riusciva a colorarla e a domarla. In uno spazio non più grande di un pianerottolo era collocato il palcoscenico. Davanti, su una irta e corta gradinata sulla quale erano stati sistemati una ventina di banchi di scuola, palchi e poltrone per gli spettatori.

L'occasione del Divino Amore era fornito da Lo spettacolo Majakovskij. Carmelo recitava solo, anche se non proprio, nel senso che accanto a lui, seduto al pianoforte, c'era un musicista, Vittorio Gelmetti, che lo accompagnava. Gelmetti era per la verità una vera e propria spalla, scambiando con Carmelo sguardi e interventi improvvisi: una volta incalzava con un accordo al piano, un'altra prendeva un martello e rompeva un mucchietto di vetri che si era portato, un'altra faceva "rumore" con un pezzo di legno. Si trattava non tanto di stacchi quanto di una punteggiatura su una partitura gestuale e vocale che Bene imbastiva con i versi del poeta russo, trasformandola in una ironica, aggressiva, furente immedesimazione, un'immedesimazione che era sì un tentativo di identificarsi ma anche un caparbio far da sé, un trasferirsi nel corpo del poeta, come già aveva fatto con il suo Pinocchio e con i personaggi di Shakespeare, compreso Otello (in uno spettacolo su cui dovrò tornare più avanti).

Artaud, Beck, Carmelo. La trinità dell'Avanguardia, anzi, come si è detto della Neo-avanguardia. Guai comunque a pronunciarla, questa parola, in presenza di Carmelo. Al convegno di Ivrea del 1967, primo e unico dedicato a questo teatro che cercava unità sapendo non poterla mai trovare se non a spese della sua vitalità senza freni e senza regole, mentre i critici si dilettavano a usarla, e a manipolarla, questa parola intinta nel miracolistico o nel miracoloso, lIiconoclasta per eccellenza si guardava dal farlo, e come lui quei pochi che avevano capito l'improponibilità della stessa parola e della intesa unitaria che si pensava di risuscitare dalle zolle del Novecento fecondate invano dall'amore per la rivoluzione, dal delirio creativo. Una nuova fecondazione in vitro, postuma, stava a dimostrarlo lì, a quel convegno, nonostante le buone intenzioni di coloro che lo avevano organizzato. Le rivoluzioni delle avanguardie si sono consumate dentro i totalitarismi o all'interno delle forme di capitalismo non ancora globalizzate (Andy Warhol, tanto per citare un nome).

Ma il rifiuto di Carmelo verso le etichette e le formazioni confezionate o pre o postconfezionate, era non già un capriccio bensì il prodotto di una visione lungimirante. L'Iconoclasta aveva compreso che le stagioni delle rivoluzioni erano passate del tutto, malgrado lui continuasse a cantarle con Majakovskij perché questi canti erano inni di dolore e non revival, come sarebbe piaciuto a quanti stavano alla posta del '68 per raccoglierne i frutti con comodo e trasformarli in consenso prima ideologico e poi politico.

Da quella sera, decisi che non avrei abbandonato le serpentine di Carmelo fra un testo e l'altro, i film, i recital, i programmi televisivi. Ma non mi pareva fosse il caso di farlo diventare una reliquia vivente, come facevano allora certi critici abbarbicati alla sua figura, anzi al suo monumento o alla sua teca per giustificare se stessi nell'adorazione convinta (?) dell'Avanguardia - con gli anni era caduto addirittura il Neo - come luogo obbligato della stilistica teatrale, della moda anticonvenzionale, del pret-à-porter nelle sfilate lunghe, interminabili, ripetitive come quaresime.

Ogni tanto però dimenticavo Carmelo, volutamente; mi mantenevo a distanza, e lo studiavo meglio; pensavo così che se non sarei mai riuscito a descrivere fino in fondo il suo indiscutibile talento, forse sarei stato capace di interpretare la sua incontenibile furia inventiva al di là degli appuntamenti imposti dalle abitudini e dalle convenzioni istillate dai sensali di matrimonio all'opera fra spettatori e artisti, fra pubblico in cerca di novità e animali di scena da esibire.

Carmelo viveva tutte le dimensioni del suo tempo e quindi anche quella della gratificazione teorica. Disprezzava la maggioranza dei critici che aveva letteralmente paura di lui e delle sue reazioni. Alcuni scappavano al suo cospetto, altri si nascondevano subito dopo le prime per non trovarselo di fronte, altri ancora cercavano in tutti modi di farsi detestare, coprendolo di ingiurie, al fine di stabilire come alibi una reciproca incomunicabilità.

Ma dal disprezzo, spesso semplicemente traducibile in una noncuranza snob, l'Iconoclasta sottraeva tutti coloro che sottoponevano il suo lavoro ad analisi spesso meticolose che peraltro tendevano a togliere Carmelo dalla squisita fogna dello spettacolo, dove peraltro si trovava a suo agio, e a cooptarlo nelle noie universitarie o negli specialismi astratti. Mi fermo alla situazione italiana. Se vale la pena di fare un'eccezione per Maurizio Grande, uno studioso che lo ha studiato sul serio e gli ha dedicato pagine di notevole interesse, bisogna dire che le truppe nazionali dei filosofi e dei semiologi hanno sempre cercato di calcare una seconda divisa, ingombrante come un cappotto sformato e abbondante, sulle spalle di un campione dell'Avanguardia che non aveva alcuna voglia di esserlo, e tutto sommato "umilmente" aspirava a essere Carmelo e basta. (Bisogna dire che c'è riuscito; anche se adesso, dopo morto, si levano voci di chi vuol rilanciarlo come il campione di un'esperienza che è un mausoleo di cartapesta. E non si tratta delle voci delle sue pur numerose, agitatissime, vedove passate dai suoi set, dalle sue ribalte, dai suoi letti).

Mi serve del tempo, e mi serve rivedere da capo tutto il lavoro di Carmelo, per cominciare a fissare qualche punto fermo su una carriera che si è fermata nei primi mesi del 2002. Mi serve staccarmi da certe cose che so di lui, senza dimenticarle. Ad esempio, porto vivo il ricordo delle trasfusioni di sangue a cui si sottoponeva, specie negli ultimi anni, vuotando il contenitore di un corpo mai risparmiato alle fatiche e dagli abusi, per riempirlo, e saturarlo di nuovo.

Un giorno lo andai a trovare nella sua casa in via Aventina, a Roma, negli anni Settanta, aveva poco più di trent'anni. Stava scrivendo su un tavolo simile a quelli degli architetti, in piedi, e si reggeva a stento. A terra languiva una cassa colma di bottiglie di vodka e di birre, vuote; su un tavolo c'erano portacenere carichi di mozziconi di sigari toscani spenti e smozzicati. Droge leggere pesanti come possono essere le droghe pesanti. Era sfinito. Parlava a stento. Eppure, il racconto che mi fece - si trattava della sceneggiatura di Giuseppe Desa da Copertino, il santo che volava - era lucidissimo nella nebbia delle parole e dello sguardo. Quando si poneva di fronte ai suoi lavori li trasformava in una sorta di protesi, tante protesi fatte di idee accavallate e imbevute di altre idee, e alla fine chiarissime.

Il ricorso continuo alle trasfusioni, adesso che ci ripenso, era il puntiglio posto nel cercare nuove protesi e quindi nuove idee. In fondo, cos'è il suo cinema se non un tradimento del teatro per buttarsi in imprese inedite, disperatamente difese? Come quando a Venezia, nella Mostra del '68, squassata dalla contestazione e dagli interventi della polizia, difendeva - attaccando - il suo diritto di proiettare il film tratto da Nostra Signora dei Turchi contro la volontà dell'Anac, ovvero degli autori che avevano scelto di stare dalla parte dei contestatori. Era il suo primo importante festival, e il film, il suo debutto, gli era venuto particolarmente bene, a dimostrazione che un artista non si rifugia in un linguaggio ma ne assaggia e ne mastica due, tre, e tutti quelli che sente di poter invadere con la fantasia e il piacere di impossessarsi dei linguaggi per poterli travasare. I contestatori, burocrati delle tecniche della protesta, volevano impedire al protestatario senza tecniche di consumare pubblicamente il tradimento che ricaricava il corpo come una trasfusione.

I linguaggi erano la materia di queste trasfusioni che Carmelo cercava per andare oltre con la sua ricerca. Dopo il cinema, venne la televisione. Che cosa poteva dare o ricevere l'Iconoclasta da un mezzo composto dalle icone più tenaci e vischiose, venute dalla tradizione teatrale più che cinematografica? Carmelo inventò la fine del grigio. Lavorava con il bianco e nero per una trasmissione dedicata al suo amato Majakovskij e ad altri poeti russi. Si accaniva nel voler eliminare dal bianco e nero le zone di grigio che spesso visivamente coprivano o intaccavano la lucentezza dei due colori di base. Era un'ossessione non riduttivamente estetica nel valorizzare la qualità dell'immagine e farle guadagnare efficacia. Era, come mi disse, la rivolta metaforica contro il grigio dilagante nella tv intesa come struttura complessiva, come cifra costante nelle narrazioni del piccolo schermo, dai tg agli sceneggiati, dai film per la tv alle inchieste, agli spettacoli di varietà.

Era lo stesso grigio che si poteva trovare alla radio, la radio che condivideva con la tv la stessa appartenenza a una struttura, e continua a condividere in Rai. Carmelo cominciò a toglierlo questo similcolore, questa crosta, e fu in una delle Interviste impossibili dove interpretava personaggi come Edmondo De Amicis, Tutankamon, Attila, Casanova, Oscar Wilde, e altri ancora. L'intervista che mi colpì di più fu quella a Wilde, il Dandy che correva a prendere il treno, in ritardo, tallonato da un fastidioso intervistatore (che era Arbasino). Si trattava di trasmissioni scritte da penne e lingue famose, piccanti se non proprio taglienti - Giorgio Manganelli, Luigi Malerba, Vittorio Sermonti e simili. Nei panni, anzi nella voce del Dandy, l'Iconoclasta segnalava la sua esplicita intenzione di non prestarsi troppo a un gioco che, pur nella qualità, aveva un certo sussiego e compiacimento che non gli potevano appartenere. C'erano in quella voce le premesse per il Carmelo radiofonico di anni dopo, quando anche soltanto una scheggia recuperata al passato (dalla versione della Salomè, proprio di Wilde) - scheggia ripetuta come uno stacchetto sonoro nelle serate di Rai3 successive alla morte dell'attore - , riusciva a far percepire la tecnica e la passione poste nel tentare di cogliere i segreti dei Canti di Giacomo Leopardi, dell'Adelchi, dei Canti Orfici di Dino Campana. Messa in risalto come voce che veniva ormai definitivamente dall'oltretomba, la scheggia riproduceva la capacità di resuscitare a nuova vita i versi dei poeti e di farli sentire come un intenso ritmo musicale, un gioco fra bacchette e spazzole della batteria che suona sempre sotto la trama delle parole, della poesia.

La scheggia mi ha aperto gli occhi, del tutto, sull'innamoramento che Carmelo portava per le macchine, per la tecnica che bisognava inventare per usarle al meglio. In un tratto, riascoltando le registrazioni complete, ho capito che Carmelo sapeva ri-ottenere dalle macchine del cinema, della tv, della radio quella quota di vitalità immateriale, quella sorta di anima (come chiamarla?) che egli stesso versava dentro di esse, sicuro che la sua fiducia sarebbe stata ricambiata. E infatti così era. Sotto lo sguardo ammirato e sbarrato dei direttori della fotografia, dei montatori, degli operatori, Carmelo svolgeva un suo particolare, personalissimo rapporto con il guscio (le macchine) che subito intercettava e restituiva in palpabili risultati quel che il Grande Improvvisatore aveva avviato, forzando ogni forma consolidata e passivamente assunta dalle stesse macchine per diretta responsabilità di chi aveva rinunciato a "ispirarle".

Ecco un pezzo della storia di Carmelo che non è stata ancora scritta,e invece si dovrebbe. Come per gli alieni il disco Volante è un braccio o un piede e non un vestito o un mezzo di viaggio, così per Carmelo una moviola era soprattutto un suo proprio arto, non una protesi.

A proposito del Grande Improvvisatore. La definizione di Grande Improvvisatore riguarda il rapporto con le macchine perché, per quanto riguarda l'improvvisazione che era tanto cara ai critici sarti della divisa d'Avanguardia, ritengo di poter affermare che a Carmelo non importava. In questo era diverso da tutti gli autori di teatro e di cinema, e poco si curava dei critici che provavano chissà quale eccitazione futurista quando sembrava loro di intravedere in uno spettacolo imbastito al momento, in un film senza sceneggiatura il miracolo di una creatività spontanea capace di essere cucinata lì per lì, come un uovo al tegamino. Un altro elemento poco interessante per Carmelo era il coinvolgimento del pubblico, caro invece agli stessi critici, inteso come la trasformazione di una recita della messa comune tra officianti e devoti in una fusione collettiva nel nome di una celebrazione sublime. Il sociologo Christopher Lasch, nel libro La cultura del narcisismo, spiega perfettamente come e perché tra anni Sessanta e Settanta alcuni artisti cercavano di soddisfare il loro narcisismo in azioni sostenute da un potente sentimento di trascendenza. Julian Beck, nota Lasch, è tra questi artisti, da Paradise Now in poi. La paura di perdere una posizione di primato poteva spingere questi artisti a decollare, trasformando le tavole di un palcoscenico in un sacro tappeto volante.

Carmelo ,invece, marcava le distanze, teneva alla differenza. Gli spettatori dovevano stare dov'erano e non sognassero neanche per un istante di essere invitati, e tanto meno pregati, a salire sulla scena o sugli schermi: l'una e l'altra erano per l'Iconoclasta i territori di un dominio dove non si tolleravano dubbi, tentennamenti, discussioni, e guai alle mescolanze compromettenti. Ciascuno al suo posto, per imparare la lezione: da una parte, in alto, senza scalate, grazie a una logica definitiva, l'Iconoclasta impegnato a rendere più efficaci e sottili le sue già trascinanti lusinghe laiche; dall'altro, non un pubblico di devoti ma un pubblico che si arrabbia o gode secondo le intenzioni esplicite dell'Iconoclasta, alchimista delle reazioni che più gratificano la sua opera.

Potrei finire qui gli appunti di studio, le premesse, gli spunti al volo. Ma ho due episodi da raccontare. Tengo agli episodi, e agli aneddoti, se sono una notizia e aiutano a formarsi un'idea, magari fuori dai canoni, degli artisti o dei personaggi storici. Ovvero, la politica e le imprese militare non aiutano a capire questi ultimi, e un prezioso, esauriente elenco degli spettacolo o dei film, gli elogi o le frecciate della critica non servono a svelare i molti, diversi laboratori degli artisti.

Dunque, primo aneddoto. Il gioco delle parti, in una serata curiosa e bella come una appassionante partita a poker nei giorni di un autunno dei primi anni Ottanta. Mi ero recato a Ravenna per assistere alla prima di Otello che Carmelo recitava su un grande letto bianco con enormi cuscini in mezzo a sei attrici, tutte giovani e tutte molto attraenti. Lo spettacolo si svolse senza intoppi, il pubblico - abituato ai conformismi del saper vivere - forse non aveva afferrato molto, e tuttavia applaudì calorosamente e a lungo. Tutto bene. Avevo un appuntamento dopo la recita con Carmelo e la compagnia per la solita cena di mezzanotte. Dovevo tornare a Roma e mi ero segnato la partenza di un treno alle due e mezza, a cena finita. La cena si fece subito vivace e umida di vino e liquori. La conversazione si scaldò. Carmelo elogiava le sue attrici, e l'oste. Poi si cominciò a parlare dello spettacolo e io, forse per prolungare la serata fino all'orario della partenza, presi a fare qualche critica. Queste cose si sa come vanno a finire. Di frase in frase, le critiche divennero una valanga, anche a causa degli interventi delle ragazze e dello stesso Carmelo che non difendeva il suo lavoro e anzi vi si accaniva, trovando sempre qualcosa in più che sembrava non più funzionargli a dovere. Si decise che l'analisi sarebbe continuata in albergo. E infatti così fu, finchè ad una ad una le ragazze, stanche, salirono nelle loro stanze. Rimanemmo Carmelo e io a discutere, con calore. Il mio orologio cominciava a segnare l'avvicinarsi dell'ora della partenza. Carmelo, intanto, aveva recuperato il copione e lo sfogliava, pretendendo che gli dicessi quali erano i punti da cambiare per lo spettacolo. Caddi nell'invito, e glieli indicai. Preso da un furore indescrivibile, l'Otello fuori scena non si scagliò contro di me, ma chiamò il portiere e gli ordinò di svegliare le attrici nel sonno e di farle venire giù. Le sventurate scesero, senza trucco, scarmigliare, in camicia da notte, rabbiose, la più scatenata era Lydia Mancinelli, la compagna per vent'anni di Carmelo. Non ci fu nulla da fare. Dovettero sedersi e, ognuna con il suo copione, ripassava la parte o la rivedeva sulle indicazioni di Otello. Era una scena fantastica. Assistevo a prove aperte, davanti a un piccolo pubblico composto dal portiere dell'hotel e di alcune guardie notturne convocate da costui per il timore di veder scoppiare una rissa, del resto ce n'erano i primi segnali. Ero felice e avevo dimenticato di guardare l'orologio. Fu Carmelo che me lo fece notare, e mi disse con un sorriso demoniaco più o meno così: "Tu aspettavi il treno, e ci hai fatto tirar tardi, ma io te l'ho fatto perdere". Nel gioco delle parti aveva vinto lui, e non mi dispiaceva, anzi. Le prove trovarono altri bicchieri per ammorbidirsi.

Il secondo episodio mi è stato raccontato, e attendo conferma. Ma è un altro piccolo capolavoro. Carmelo partecipava a una cena in casa di uno dei ministri dello spettacolo degli anni Settanta. Era lì perché si era fatto raccomandare. Non aveva trovato il denaro per finanziare il suo nuovo film e sperava in una sovvenzione del ministero, come del resto capitava (e capita) anche oggi, per far partire la produzione. La cena si svolgeva nei giorni in cui i carri armati sovietici entrarono a Praga per sedare i movimenti di studenti e operai in una famosa primavera di opposizione. Sull'argomento, la discussione si ampliò e si scaldò. Tutti - il ministro era un socialdemocratico - erano d'accordo nel condannare l'invasione e le parole in questo senso si stavano facendo pesanti, polemiche, quando Carmelo s'infilò tra una battuta e l'altra. Estrasse dal taschino della giacca un rettangolo di cartoncino e disse, tra lo stupore dei presenti, che stracciava la tessera del partito comunista per protesta contro l'intervento e per solidarietà con gli oppositori. E così' fece, facendo a pezzi il cartoncino che finì in un portacenere tra i mozziconi di sigarette. La cosa suscitò meraviglia ma anche consenso, specie nel ministro. Ottenne Carmelo la sovvenzione per il suo film con questo atto di rifiuto dei carri armati comunisti attraverso lo scempio della tessera del partito? Non saprei dire; so che qualcuno, colui che mi ha riferito il fatto come autentico, andò a curiosare nel portacenere e scoprì che la tessera era un comune biglietto da visita. Lo scopritore non rivelò nulla, del resto era stato lui a procurare l'invito all'amico Carmelo.

In questi due episodi c'è un elemento in comune: la recita, a seconda dei momenti e delle persone, e quindi la voglia del gioco e dello smascheramento. La burla non per interesse ma per amore di chiarezza, che (nel caso della cena col ministro) diventa una denuncia implicita rivolta a un sistema che si reggeva - e regge - sulle blandizie al potere burocratico e alle sue convinzioni politiche, ovvero la denuncia del servilismo di certi ambienti fatto da un finto opportunista.

Questa recita di un Iconoclasta che amava gli antichi costumi di scena e la classicità, che aveva un buon rapporto con le macchine e la tecnica, che considerava il suo corpo una provetta per vitali e futuribili esperimenti in vitro, è il lascito vero di un artista che se n'è andato quasi di soppiatto, fugacemente, in nome di quelle fughe per la conquista che, come ho detto, sono state la sua scelta da Campi Salentina in poi.

Ricapitoliamo. Alla fine dei conti che contano e che verranno, ma come si può capire anche da subito, Carmelo si è moltiplicato infinite volte per renderci piacevolmente stimolati e contenti di noi stessi, figli di generazioni in via di degenerazione. È stato un provocatore, un teatrante e un cineasta deluso, rispetto a ciò che aveva trovato, cercando la diversità e la solitudine. È stato, infine, l'oggetto di una beatitudine dei corpi separati e specialistici, vale a dire dei critici e dei filosofi, offrendosi come cavia gloriosa. Lo vedo "living", sereno, soddisfatto e pronto a diventar furente a comando, sul vero Monte Carmelo, dove furono trovati i più antichi resti di "Homo sapiens" e dove lui in altri lontani tempi fu forse il primo di una serie di eremiti, un monte immaginario diventato Monte dei Cocci Universali, davanti alla sconfitta del teatro e dell'arte. Carmelo, re sapiens dei nostri Cocci. E noi siamo, anche senza volerlo, eremiti con lui.


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