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Éloge du désordre. Penser le théâtre avec Christian Biet. Sous la direction de Tiphaine Karsenti, Olivier Neveux et Christophe Triau


Paris, Classiques Garnier, 2024, pp. 444, 39,00 euro
ISBN 978-2-406-15808-0

Non una raccolta “in omaggio”, ma una rassegna di saggi originali dedicati all’opera dello studioso, morto nel 2020 mentre stava organizzando il convegno intitolato Éloge du désordre. Ora si pubblicano gli atti dei lavori, svolti nel 2021 in assenza del promotore. In certo senso, la direzione della ricerca si modifica nell’affidare all’ordine una materia soggetta al disordine, mentre offre un’antologia sostanziosa delle conseguenze che l’opera di Christian Biet ha impresso sugli studi teatrali. Gli incontri avevano seguito due direzioni: la prima, per «réfléchir aux suites à donner à cette œuvre, à la façon dont elle nourrit des recherches» (p. 8); la seconda si concentrava sull’opera stessa di Biet, «à ses cohérences, ses insistances, à ses évolutions […]. L’étudier en tant que corpus et par là témoigner de son importance» (p. 8) e per misurarne variabili e costanti. Un’opera che partiva dalla composizione di un corpus drammaturgico testuale per i secoli XVII- XVIII e si spingeva a indagare funzioni proprie delle manifestazioni contemporanee e d’avanguardia, fino alle nozioni di séance e di performance, nell’accezione già proposta da Richard Schechner, qui rappresentato da una testimonianza personale. 

La cinque parti molto articolate del volume ammettono scelte di gusto e casuali per fornire un campionamento plausibile dell’insieme, complesso e suggestivo. In Moments d’une recherche, i saggi si concentrano sulle tappe significative dell’iter del protagonista. Pierre Frantz si sofferma sulle novità introdotte da Biet nell’osservare la séance teatrale per scoprirvi «une compréhension du moment, c’est-à-dire de ce qui était le présent des hommes du passé» (p. 17) i quali vengono seguiti in “processo”, lungo quei secoli considerati come fossero il loro presente. Altri risultati contribuiscono a ricollocare il repertorio, da Marivaux a Dancourt (Florent Carton), nella situazione antecedente l’affermarsi della nozione di “quarta parete”, con riferimenti allo spettatore ritenuto parte del fenomeno nella sua storia “materiale”. Entrano così in discussione le interpretazioni del mito di Edipo, centrate su quella di Voltaire e paragonate con le meno celebri e studiate.

Vincent Jullien sfrutta l’esperienza condivisa con Biet (in Le siècle de la lumière, 1600-1715, del 1997) per chiarire il metodo dello studio attorno alla componente fisica dell’illuminazione sulla scena. Coinvolge la tragedia Andromède di Corneille e gli esperimenti di Blaise Pascal per definire la funzione decisiva della luce. È uno sguardo inedito sull’allestimento delle pièces à machine che nelle implicazioni fisiche conduce al senso più vasto dell’uso e quindi del significato, secondo l’applicazione introdotta da Biet nell’analisi all’evento spettacolare e viceversa. Si coglie meglio il ruolo della messa in scena nel metodo scientifico, in analogia agli studi di Pascal sulla fenomenologia del vuoto (p. 33).

Clare Finburgh Delijani, in Elargir le cercle, compara le osservazioni di Biet sul pubblico teatrale dei secoli XVI-XVII con quelle sull’attualità. Con sorprendente efficacia lo studioso analizzava il soggetto in situazioni tanto strane e lontane, cogliendo risultati probanti grazie agli incontri di scambio con diversi direttori di teatri, pubblicati sulla rivista «Théâtre / Public». Il transito dagli “études théâtrales” alla “spectaclogie”, secondo Guy Spielmann, si snoda attraverso la definizione di performance, séance, comparution che, nelle accezioni stabilite da Biet, risultano determinanti per «l’avènement en France d’une discipline de l’étude du spectacle […] autonomisée du champ littéraire où Biet avait fait ses debuts» (p. 428).

La facoltà spiccata di collegare passato e presente emerge ancora dal processo seguito dallo scienziato, ricostruito in Anachronismes et analogies. Penser en travers di Tiphaine Karsenti, per una definizione della storia mediante parametri filosofici e antropologici. Christohe Triau, in Avec et contre la sidération. Le jeu du jugement et de la suspension, ribadisce il privilegio accordato da Biet al Teatro quale luogo dell’esercizio del “giudizio”, validato dalla sensibilità verso il rituale del “processo”. Anche Guillaume Cot contribuisce a chiarire (Le jeu de l’ordre théâtral) l’incrocio fra teatro e diritto nel pensiero che acquista in progress una nuova coerenza teorica. Penser la performance avec Biet di Chloé Déchery introduce altri elementi concettuali nella problematica, trattata in maniera pragmatica e materialista. Alessandra Preda porta un contributo sui Séminaires Balmas (tenuti dall’Università di Milano a Gargnano) e segnala la strumentalità preziosa che l’approccio di Biet consegue grazie al suo modo di porre il pubblico al centro d’ogni programma d’indagine critica. 

Desprez e Meere discutono sulla «question du hors-scène dramatique» (p. 183) in Centralité du dèsordre dans le théâtre de la première modernité. Verificano un caso di centralità attribuita allo spazio teatrale in città e ne misurano gli effetti urbanistici e sociali degli eventi connessi. Testimonianza d’altra fonte, ma di analoga sostanza, quella di Bolduc che raccoglie dati su quattro situazioni tipiche della proto-performance nel XVII secolo: la chaire (tribuna, pulpito), la cérémonie (cerimonia, rituale), la scène (scena) e l’échafaud (il patibolo). Richiama l’iconografia raccolta da Biet per Les Miroirs du Soleil (in Louis XIV, Paris, Gallimard, 1989) arricchito dai tableaux narratifs dello studioso. Jeffrey S. Ravel, con L’œil sur la scène en France et Angleterre vers 1800, ricostituisce le reazioni tumultuose all’aumento dei prezzi degli spettacoli a Londra e delle manifestazioni a favore dell’O P (Old Prices) che suscitarono l’intervento dell’eroe allegorico John Bull (p. 265).

Dalle illustrazioni dei disordini, anche violenti, durante le rappresentazioni parigine, si nota che spesso pièces truci non smuovessero dalla calma gli spettatori, mentre è noto come il pubblico intervenisse concretamente nell’azione. E si capiva che alla stessa reazione concreta rispondeva la diversa tattica politica nel rappresentarla, con descrizioni più epurate in Francia che non in Inghilterra. Plaisirs de l’hétérogeneité di Jobez e Loncle ipotizza un contributo ulteriore: «Révélant et réveillant la dynamique conflictuelle, contradictoire, multiple de la séance théâtrale de l’Ancien Régime, Biet a animé la recherche en histoire du théâtre en lui donnant de la “respiration”» (p. 280). Con l’interpretazione in chiave giuridica del “caso” di Mille francs de récompense, Myriam Roman riscontra in Victor Hugo la permanenza del “tragico” come ingranaggio, fatalità, anankè, quasi nuovo genere drammatico indotto da cause sociali e giuridiche. Passano al vaglio le drammaturgie italiane recenti in Annamaria Cascetta, nel distinguere la presenza del “tragico” (pure senza tragedia) e nel riconsiderare i due concetti interdipendenti. Gli esempi provengono da opere di Pippo Delbono, Pier Paolo Pasolini ed Emma Dante.

Continua nell’ultima parte la riflessione sul pensiero di Biet dedicato alla contemporaneità. L’implicazione politica emerge nella dissertazione filosofica di Olivier Neveux, nutrita di parallelismi fra Arendt, Kant e Biet. Pierre Banos-Ruf si sofferma sulle valenze contemporanee della visione drammaturgica e sugli effetti dei rapporti con l’editoria relativa. Dai titoli e dai soggetti toccati parrebbe netto il prevalere (almeno quantitativo) dell’attenzione al campo della performance, quale indizio dell’influsso che lo studioso ha esercitato sui suoi allievi e colleghi. La convergenza di interessi e d’esperienze convocati dal libro è davvero sorprendente, data la varietà dei partecipanti all’impresa. L’incontro con opere problematiche e discutibili come l’attuale mi pare dovrebbe suscitare una risposta ponderata e protratta, da esprimersi con chiarezza e responsabilità. Il riconoscimento della sua importanza dovrebbe approfondire il dibattitto fino all’acquisizione duratura del suo valore. La superficialità e l’onda delle mode, purtroppo, impediscono la formazione auspicabile d’un patrimonio (o “canone”) in costante integrazione.



di Gianni Poli


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