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In fuga. Voyages en musique / Viaggi in musica

A cura di Camillo Faverzani

Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2023, pp. XV-310, 35,00 euro
ISBN 978-88-5543-332-7

I Seminari su “Voyages en musique”, iniziati nell’anno 2019-2020, ritardavano per la pandemia e soltanto ora i risultati escono in volume. I collaboratori, italiani e francesi in genere, partecipano alla ricerca che, presso l’Université Paris 8, si «prefigge di mettere in relazione letteratura e operistica» (p. XIII). Il gruppo si applica soprattutto al testo, «alla narrazione intesa perlopiù quale rapporto tra note e poesia, nel processo di costruzione del libretto» e analizza «come il teatro per musica abbia saputo interpretare il viaggio» (p. XIV).

Nella rassegna in cinque parti, il criterio cronologico guida Faverzani ad anteporre i Viaggi “immaginari” a quelli “romantici”. Le migrazioni, verso l’America e verso l’Europa, includono esempi antichi e recenti, fino a Ellis Island (2002) di Sollima e Alajmo. Quanto alla navigazione in mari italiani, Francesco Cento osserva che «le disavventure per mare hanno come prerogativa la rilevante immensità del mare quale elemento di separazione dei personaggi» (p. 4). Per analizzare la modalità della “fuga”, moltiplica le occasioni e le sue cause, a partire da L’italiana in Algeri di Rossini (testo di Anelli, 1813) fino a Ero e Leandro (1879) di Bottesini e Boito. Ancor più nota la storia di Manon e Renato de Grieux in Manon Lescaut, seguita nei passi melodrammatici del libretto di Giacosa e Illica. Idomeneo di Mozart, Il pirata di Romani (e Bellini) e Otello di Boito (e Verdi) mettono in scena il topos della tempesta quale momento decisivo del dramma. Per diverse potenze scatenanti, variano gli accenti nell’esprimere il fenomeno meteorologico meraviglioso e terribile. Inoltre, peripli, ritorni e approdi scandiscono passi sensazionali e/o risolutivi. Capita allora il ricordo dello “stidione”, congegno per simulare i moti ondosi in spettacoli precursori quali Arianna di Monteverdi (Mantova, 1608) e dei decenni seguenti. Al proposito si cita il ricorrere di incidenti rappresentativi, imputabili all’impiego di macchinari sofisticati, ma difettosi, come nel Mosè in Egitto (1818) al San Carlo di Napoli.

Temi simili riprende D’Angelo in Scene a bordo. La fuga, come scampo e rischio, propone Il Pirata di Romani musicato da Bellini, ove sono protagoniste «Le onde, quindi, luogo-simbolo di trasformazioni relative, strada verso l’ignoto […] tra romanticismo e decadentismo» (p. 15). Poi, quelle che si agitano nel dramma di Charles Denoyers, ispirato dal dipinto Scène de naufrage di Géricault (1819), rese dalla scenografia veristica allestita al Théâtre de l’Ambigu-comique nel 1839, secondo la ricostruzione (da recensione d’epoca) immaginata per esaltare la musica in emozione, comparabili con quelle del Vascello fantasma (1843) di Wagner. A sua volta, Cammarano imitò l’opera di Denoyers nel Vascello de Gama (1845), musicato da Mercadante, e qui le opere sono poste a raffronto minuzioso. È dato rilievo al megafono quale strumento amplificatore usato dai marinai, la cui eco si avverte in La Gioconda (1876) di Ponchielli e in Ero e Leandro (1879) di Boito con musica di Bottesini. Superando altre tempeste, si giunge al Cristoforo Colombo di Illica e Franchetti (1892), corredato di originali didascalie esecutive. In Manon Lescaut, la celebre scena dell’imbarco mostra che «All’opera si può navigare, insomma, ma più col pensiero» (p. 25) che non mediante realizzazioni scenicamente plausibili.

Attorno a Il vascello de Gama, Begotti ricostruisce – da fonti ben documentate fra storia, pittura e musica – la «tragedia umana rielaborata in tanti linguaggi» (p. 27). Sempre ispirato dal naufragio della Méduse, l’evento centrale dell’opera è ricollocato nella sua cornice storica e sociale e con un resoconto sul rapporto fra musica e poesia, aperto a digressione sul sodalizio (e carteggio) fra il librettista Cammarano e Verdi. Tale soggetto viene ripreso nel Novecento e ora adeguatamente illustrato. Sulla rotta delle Americhe si incontra logicamente l’impresa di Colombo, espressa nell’opera omonima di Claudel e Milhaud (1928).

Per Galigani, le fonti dettate dal Navigatore (Diario di bordo, Libro delle profezie) e dagli scrittori Comte de Roselly e Léon Bloy alimentano il significato attribuito all’opera novecentesca. Pertinenti le note sul testo di Claudel (Le Livre de Christophe Colomb), i personaggi, l’apologia dell’eroe e la sua identificazione con la colomba biblica (e relative citazioni funzionali), l’uso dei flash-back cinematografici. Lo studioso non s’avvale stranamente degli studi interdisciplinari più recenti di Pascal Lécroart, specialista vivente tra i maggiori sul rapporto fra musica e testo in Claudel. Quel problema centrale, dal poeta riferito a Wagner, nell’analisi musicologica s’avvale appena della biografia di Milhaud di Antonio Braga (1969). Ritenendo irreperibili sia la partitura, sia documenti sonori e visivi, probanti la struttura e la ricezione dell’opera (complessa e ambiziosa), Galigani rinuncia ai confronti con allestimenti recenti, quali un’edizione tedesca del 1998, diretta da Philippe Jordan, con regia di Peter Greenaway e Saskia Boddeke.

Nel saggio di Pantini, specialista di Piccinni, si riesumano due intermezzi d’ambientazione “americana” sul tema del selvaggio. Gli italiani in America (1768) rappresenta esploratori italiani avventuratisi fra i nativi. A Roma va in scena L’americano, storia di un californiano catturato da un viaggiatore che lo porta in Italia. Non sorprende, data la presenza di preconcetti correnti sul tema a fine Settecento, come presso il Goldoni delle commedie La Peruviana e La bella selvaggia. I due libretti picciniani mostrano, ciascuno a suo modo, gli stili comuni di descrivere il “selvaggio”, l’estraneo per eccellenza. Nel primo, si sottolineano le suggestioni e le reazioni suscitate dalla pratica dei sacrifici umani; nell’altro, la visione negativa del selvaggio è capovolta, mostrando che la sua sensibilità è invidiabile rispetto a quella di Marcone, il protagonista napoletano.

Con Robinson Crusoé (1867), Jacques Offenbach non ottenne il successo che avrebbe meritato, pure mostrando l’abilità di altre opere più ammirate. Gli adattamenti del romanzo alla scena considerati da Lelièvre sono in sei versioni (tav. a p. 75), precedenti quella di riferimento di Cormon-Crémieux per la musica di Offenbach. Ancora si verifica (tav. a p. 81) il passaggio dal romanzo al libretto per scoprire che «dans Robinson Crusoé le voyage n’est pas représenté sur scène» (p. 85).

Il fenomeno dell’emigrazione è attualizzato in Ellis Island di Sollima e Alajmo, allestito con la regia di Marco Baliani nel 2002. Coerenza di soggetto, testo e musica per un «kolossal sobre et sombre» (p. 96) nel quale la coralità prevale sul protagonismo individuale. La “compilazione” del libretto è bene illustrata e l’Intervista ai due autori chiarisce i moventi e l’obiettivo del lavoro. Al rammarico per la mancata diffusione segue il racconto dell’unica rappresentazione e si discute la funzione delle parole e della musica, nella prospettiva di eventuali modifiche e riscritture, per edizioni con un organico orchestrale e vocale magari ridotto (p. 105).

Il curatore partecipa al libro con il saggio già pubblicato in italiano in Il tradimento di Leporello. La ricca e durevole ispirazione, emanata dalla Gerusalemme liberata, che si può considerare «un’immensa pièce teatrale» (p. 152), è verificata da Eskenazy in Armida, addio, mia vita!, seguendo gli orientamenti di Metastasio e di Algarotti, per rilevare l’indole mutevole del personaggio femminile. A modello sono assunti Armida abbandonata (1782) di Cherubini e Armida (1771) di Coltellini e Salieri. Il critico valuta la rarità della concezione, insolita per l’epoca, di un «projet dramaturgique pour le moins unique dans le paysage opératique italien […]. Son importance est d’autant plus grande qu’il existe peu de préambules de ce genre dans les livrets des drammi per musica» (p. 155). Una densa discussione s’apre sugli snodi topici degli arrivi e delle partenze dei personaggi, regolati da un moto spesso simbolicamente significativo. Trattando del Viaggio a Reims di Rossini (1825), interessano a Barbato gli allestimenti contemporanei diretti da Ronconi, Codignola, Fo, Michieletto e Scozzi. Della “sinfonia romantica” e della “musica a programma” tratta Morski, nelle esperienze dei “romantici” Čajkovskij, Sibelius, Rimskij-Korsakov, Berlioz e Dvořak.

Un’ardua ricerca epistemologica con esempi pertinenti, applica Colombati a temi ed eroi mitologici e a figure moderne, sul filo di “musica e narrativa”, fino al «viaggio dentro e oltre il tempo» (p. 211). Nella ricerca del movente creativo del poema sinfonico, con la ciclicità temporale (come in Tristano e Isotta), si può far vivere «un viaggio che risponde all’azione interiore» (p. 213) mediante la tecnica del cromatismo. Sono filosofiche le argomentazioni attorno al Flauto magico condotte da Decadi sul conflitto interiore affrontato da Tamino. La drammaturgia di René De Ceccatty e Giorgio Ferrara regge l’opera di Colasanti tratta da Proserpina (1820) di Mary Shelley, esito attuale di due secoli di interpretazioni del dramma. L’alto livello musicologico di Lanzellotti approfondisce la partitura per compendiare il lavoro adattativo e compositivo che muta il senso impresso da Shelley «da tragedia della fanciulla rapita a dramma della madre defraudata dell’amore più caro» (p. 242). La regia stilizzata e metafisica di Ferrara esprimeva «in modo palmare l’aspazialità e l’atemporalità della vicenda» (p. 242) che Colasanti ha creato fondendo modelli classici, antichi e contemporanei.


di Gianni Poli


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