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Gianfranco Pedullà

Silvio D'Amico. Una biografia


Perugia, Morlacchi, 2023, 360 pp., euro 20,00
ISBN 978-88-9392-459-7

L’opera di Gianfranco Pedullà nasce da amore e competenza, lunga assiduità con la materia studiata e assimilata, in collaborazione sia con gli archivisti sia con gli eredi del protagonista. La fonte documentaria principale è il Fondo “Silvio d’Amico”, conservato nel Museo Biblioteca dell’Attore di Genova che ha promosso la pubblicazione, grato anche per il dono dell’archivio paterno da parte dei figli di Silvio, Alessandro e Fedele. Due Premesse avvertono su precedenti ricerche e saggi d’inquadramento e di valutazione del grande critico novecentesco. La prima (ripubblicata), di Siro Ferrone, sulla situazione editoriale degli Scritti al momento dell’uscita delle Cronache 1914/1955 (cura di A. d’Amico e L. Vico, con Introduzione di G. Pedullà, Palermo, Novecento, 2001-2002). Ne era sorto un bilancio riguardante la biografia artistica, oltre che sul progetto generale di riforma che, nella visione d’un “Teatro d’arte”, implicasse il «sottrarre la direzione agli attori» (p. 15), assieme a una severa incidenza della critica militante. Il lavoro di d’Amico applicato agli attori costituiva «un dizionario ragionato dei nostri più grandi interpreti» (p. 16).

Lo studioso mostra la genesi del lavoro, partendo dalla bibliografia dedicata allo storico e critico insigne. Accanto ai propri, richiama i contributi dei biografi precedenti, quali Radice, Meldolesi, Mancini, Lapini, Schino, Viziano, Tinterri, ecc. Anche la vicenda dell’edizione (purtroppo incompleta) delle Opere viene rievocata. La vita del protagonista è percorsa dalla prima giovinezza, in aspetti emarginati o sottovalutati, per recuperarne diversi rendiconti parziali usciti ancora lui vivente. Vengono poi i più significativi interventi post mortem. Le ingenti informazioni mostrano all’analisi la preponderanza di documenti sul pensiero e sull’elaborazione di un’Opera, rispetto ai fatti e agli snodi della vita comune, familiare e quotidiana. Dei primi vent’anni (dal 1887 all’anteguerra) s’incontrano nell’Introduzione alcune tracce dell’accesso di d’Amico all’ambiente culturale romano al tempo degli studi universitari di Giurisprudenza. Si segnala l’affinità con Gordon Craig: «Pur da punti di vista opposti, cercavano entrambi un teatro che andasse oltre il naturalismo borghese in scena, entrambi auspicando l’avvento della figura del regista ma con strategie opposte» (p. 23).

In quanto collaboratore alle Cronache 1914/1955, Pedullà afferma: «La nostra convinzione è che rappresenti un perno fondamentale del teatro italiano, l’intellettuale che con maggiore lucidità e perseveranza abbia elaborato un progetto organico di riforma teorica e pratica della scena nella prima metà del Novecento» (p. 28). Il lavoro si giustifica nel «documentare la presenza del grande critico nelle principali decisioni pubbliche riguardanti la vita del teatro, nelle sedi giornalistiche ed editoriali di maggior rilievo. […] Appare ininterrotta la sua grande capacità di rapporto con le maggiori figure della scena italiana. […] Una personalità poliedrica […]. Un intellettuale concentrato su una precisa idea di riforma del teatro ma, nello stesso tempo, estremamente duttile nei rapporti con il potere politico» (p. 28), per una funzione pubblica primaria dell’arte.

La cronologia scandisce gli eventi in cinque periodi. Nel primo capitolo (dal 1914 al 1921), l’industrializzazione e la Guerra fanno da sfondo alla «formazione di ispirazione cattolica», caratterizzata da una notevole apertura, «pur dentro un sistema etico-religioso di riferimento sostanzialmente tradizionale» (p. 34). L’avventura culturale ed estetica dell’intellettuale e organizzatore sembra procedere senza implicazioni pratiche e contingenti, in una vita assorbita soltanto dalla ricerca e dall’affermazione di idee e imprese dedicate all’arte teatrale in tutte le declinazioni. L’incontro con l’amico inseparabile, Sandro Rosso, avviene nella frequentazione dei modernisti. «Tutti e due solidamente attaccati al nostro tradizionale schema cattolico» (p. 34), nella definizione della coppia secondo le Note autobiografiche. I due si fanno complici nella redazione del testo Savonarola, progetto ambizioso di “dramma dell’umanità” che, allestito nel 1913, aprirà a d’Amico l’accesso al Ministero dell’Istruzione. Mentre già scrive riflessioni sullo spettacolo e recensioni, nel 1923 insegna Storia del teatro all’Accademia di Santa Cecilia. Durante e dopo la Guerra, il giornalista profitta delle “cronache” per perorare la causa del teatro d’arte e denunciare le deformazioni del “grande attore”. Nella polemica con Croce, «il critico, consapevole del carattere tendenzioso della sua riflessione e della sua azione, ancora nel 1935 polemizza con l’atteggiamento diffuso tra registi, innovatori e teorici della scena per cui il dramma nascerebbe dagli attori» (p. 39).

Nel cogliere la crisi del sistema teatrale, ne contrasta il ritardo strutturale (generi e interpreti) rispetto al rinnovamento drammatico europeo che pure annoverava Pirandello. Molti passaggi s’avvicendano, quali la reazione precoce di d’Amico, dal 1914 sensibile all’usura dell’interprete ottocentesco; la scelta di Ermete Novelli a modello del Grande attore in via di sparizione; la carenza di traduzioni lamentata nel repertorio; la necessità d’un Teatro nazionale e di organismi “stabili”. Gli appaiono problematici il teatro dialettale e il rapporto con la tradizione della Commedia dell’Arte. Sull’interventismo dell’ufficiale cattolico, l’autore trae citazioni dal Diario di guerra, che in riferimento al movimento “nazionalista” trova confronto con l’Esame di coscienza d’un letterato, di Renato Serra. Non pubblicare in vita il Diario potrebbe significare che l’interventista «non si riconoscerà più in quella veemenza politica giovanile» (p. 54).

Sul drammaturgo mancato (due opere appena, Savonarola e Mistero della Natività), l’ipotesi, avanzata da Orazio Costa, è di un «pregiudizio cattolico verso la scena, una sorta di pudicizia che sentiva di non poter varcare» (p. 56). Si tratta anche di funzione e qualità della critica, in cui l’opera damichiana s’inserisce all’inizio Novecento, con interventi originali su drammaturgia, recitazione e scenografia; nel verificare stile e scopo di critici militanti, come Gramsci, Gobetti e Lanza. Riconosce in gusti e comportamenti, «non frequento la gente di teatro», il modo per «conservare la libertà di dire onestamente il fatto mio a tutti» (p. 68). Quando d’Amico pubblica il primo libro, Il teatro dei fantocci (Valecchi, 1920), riprende la questione del «“ritardo” del teatro italiano rispetto al maggiore dinamismo di altre esperienze europee» (p. 60) che tornerà immancabilmente abbinata al fenomeno evolutivo della regia

Fra i punti fermi – veri leitmotiv nella sua riforma – il valore del testo-parola, da opporre alla visione, nel gusto di Piscator, e la spiritualità, intrinseca all’arte teatrale: convinzioni che presuppongono l’autonomia dell’arte dalla politica, sostenuta a più riprese, ma con il rischio di illudersi sull’effettiva influenza del potere e della censura. Trattando di teatro e fascismo, ritorna la figura dell’a-fascista che con il regime collabora restandone autonomo. Esame del resto già svolto da Pedullà nel titolo specifico, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, riedito nel 2009. Ancora diffusa la varietà degli interessi, eclettici e comprendenti il saggio, la nota, la promozione del pensiero (con l’editoria) cattolico, mediante scritti agiografici, sui Vangeli e testi di teatro “religioso”, a fondamenta di un «teatro cristiano» (p. 229).

L’attività multiforme comprende dal 1932 la direzione della rivista «Scenario». La riflessione sull’attore prosegue, anche nelle “cronache”, luogo privilegiato della discussione sul significato del riformismo applicato all’attore (p. 111). Anche i profili degli interpreti maggiori sono occasione per distinguerne virtù e vizi e suggerire obiettivi di miglioramento. Il frutto significativo sarà Tramonto del grande attore (1929), fonte di una discussione protratta (vi partecipa Bragaglia, con Del teatro teatrale, 1929), coinvolgente l’intera cultura nazionale. Le proposte damichiane s’ampliano grazie a esperienze internazionali. Nel soggiorno parigino del 1927 le acquisizioni francesi si integrano con quelle russe e tedesche (da Vachtànghov a Reinhardt e Piscator), arricchite da spettacoli di compagnie straniere in tournée. Tanti dati e notizie informano sugli impegni editoriali, fra i quali quelli d’ambito religioso che concedono attenzione alle «filodrammatiche parrocchiali» (p. 171).

Nella maturità degli anni Trenta, la critica della recitazione s’affina nei profili dedicati a Moissi, Ruggeri, Petrolini, Pitoëff e altri. Nel Convegno Volta (1934), che lo vede protagonista, evidenzia contraddizioni di rapporti per coerenza con i propri ideali etici. Da un lato, la vicinanza alle istituzioni agevola la fondazione della Regia Accademia d’Arte Drammatica; dall’altro, cresce l’implicazione nell’editoria cattolica. All’organizzatore efficiente s’affianca sempre più autorevole lo storico del teatro che concepisce una Storia del teatro drammatico (in dispense, poi in volumi, 1939-1040), la cui pubblicazione è interrotta dalla guerra. Durante il periodo bellico, ferve il movimento sorto dallo spirito della Resistenza, a diffondere il manifesto Per un teatro del popolo (1941). Grande svolta, però non impressa dallo storico, ma dalla Storia, poiché d’Amico «si muove in una logica di separazione impossibile fra arte e società […] cadendo nella riproposizione statica delle sue posizioni» (p. 246).

Nell’ultimo decennio la vita dell’uomo emerge più di quella dell’intellettuale. Arrestato e incarcerato, nel Diario di Regina Coeli dà testimonianze ascrivibili all’a-fascismo; posizione discutibile, ma “sottostimata”, risulta a Pedullà la sua collaborazione con il regime. Affiora la “dissimulazione” quale scelta imposta dai «tempi di tirannia» (p. 253). Scelte sempre oscillanti (imbarazzanti?) si succedono, come le dimissioni dall’Azione Cattolica e l’adesione, ma “apolitica”, all’Alleanza della cultura promossa dal P.C.I. Finché nel nuovo corso democratico trova occasioni di dialogo con la generazione dirigente di Grassi, di Pandolfi e, presso i primi Teatri Stabili, con Strehler. L’Accademia da riformare e l’impostazione dell’Enciclopedia dello spettacolo distinguono le sue ultime opere. Nelle quali comprende, con spirito di rinascita e su fondamenti cristiani, l’idea di «teatro d’arte per tutti» (p. 312).     

Il libro lascia il senso d’una sproporzione tra l’interesse al pensiero e alla progettazione culturali del critico romano e la sua presenza nella vita familiare e civile più comune e quotidiana, dalla salute al passatempo. Quasi l’impegno intellettuale e produttivamente motivato escludesse ogni altra partecipazione, sia materiale sia affettiva. Quasi, insomma, la biografia fosse essenzialmente tutta riversata e reperibile nell’Opera. Forse quel titolo, Una biografia, denuncerebbe la scelta di rappresentare la vita del protagonista quale storia dei suoi ideali, più che uno svolgimento episodico di fatti. Così sarebbe ribadita una vocazione esclusiva e assoluta: non potendo essere il poeta drammatico, necessario e assente, d’Amico riuscì a impersonare il vate di ideali incrollabili, fondati sulla fede nell’uomo, sulla spiritualità capace di trascendenza nella sua più autentica, anche artistica, espressione.



di Gianni Poli


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