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Leah R. Clark

Collecting Art in the Italian Renaissance Court: Objects and Exchanges


Cambridge, Cambridge University Press, 2018, 326 pp., £ 75
ISBN 978-1-108-42772-2

In questa nuova pubblicazione della Cambridge University Press, Leah R. Clark indaga i fenomeni di «circulation, exchange, collection and display of objects in the Italian courts, and in particular Ferrara and Naples» (p. 1) durante la seconda metà del Quattrocento, quando tra la pace di Lodi (1454) e le campagne militari di Carlo VIII nella Penisola (1494-1498) i principi italiani intesserono fondamentali alleanze diplomatiche per assicurare stabilità ai loro domini. In tale contesto, lo scambio di doni diplomatici fu essenziale per consolidare i rapporti tra le case regnanti di Ferrara, Milano, Mantova, Napoli e Urbino e veicolò con la circolazione di oggetti d’arte un aggiornamento intorno ai canoni figurativi fioriti all’ombra delle corti per la rappresentazione della magnificenza principesca.

La storiografia artistica ha dedicato recentemente significativi contributi alla conoscenza della cultura materiale e del collezionismo dei Signori rinascimentali (basti qui citare, tra i molti titoli possibili, il valido L. Fusco-G. Corti, Lorenzo de’ Medici: Collector of Antiquities, Cambridge, Cambridge University Press, 2006), soffermandosi sulle scelte dei collezionisti per l’elaborazione di una personale politica culturale che contemplasse anche il possesso di preziosi e desiderabili manufatti.

Clark propone però un approccio diverso a questi temi di studio, mettendo al centro della propria trattazione la storia degli oggetti al fine di individuare quei richiami ad alleanze politiche, culture artistiche estere, comuni memorie letterarie che bronzetti, libri, mobili d’alto artigianato, gioielli sapevano rievocare con la loro presenza a corte.

Così, nel primo capitolo, il lettore apprende come una testa di cavallo in bronzo esposta nel cortile di Palazzo Carafa a Napoli (oggi conservata nel locale Museo Archeologico) ricordasse ai visitatori il ruolo giocato dal conte di Maddaloni tanto nell’affermazione della monarchia aragonese a Napoli, quanto nella definizione delle alleanze tra la casa d’Aragona e i Medici. Infatti, il Magnifico aveva donato la scultura a Diomede Carafa nel 1471, quando a Firenze maturava il progetto di riaprire una filiale del banco mediceo nella città partenopea. Qui contemporaneamente si completava l’arco di Castel Nuovo, cui era destinato un monumento equestre ad Alfonso V d’Aragona (mai ultimato da Donatello), la cui testa equina sarebbe forse l’unica parte completata. All’epoca si diffuse la voce che il bronzo fosse un pezzo antico delle collezioni medicee, il cui omaggio inseriva Lorenzo nella cerchia di cultori di arti classiche ospiti della corte, nonché di amanti di equini purosangue, da lui più volte donati a Ferrante I.

L’interesse per questa insolita scultura, secondo alcuni dotata persino di poteri magici, generò dunque un pubblico di conoscitori di antichità e oggetti preziosi che di simili rarità sapeva ricostruire la storia, identificare il luogo di provenienza, talvolta anche precisare i precedenti proprietari; informazioni necessarie per comprendere il prestigio che il possesso dell’oggetto attribuiva al suo collezionista. Nel capitolo secondo, l’autrice valuta come, ad esempio, il valore di alcune gemme antiche fosse aumentato non solo passando da un celebre proprietario a un altro, ma anche grazie alla riproduzione dei loro intagli. È il caso di una corniola sul soggetto di Diomede e il Palladio ottenuta nel settembre del 1471 dal Magnifico. Nel Rinascimento più intenditori sapevano come questa fosse appartenuta a Paolo II Balbo e prima ancora all’ambasciatore veneziano Ludovico Trevisan, che l’aveva acquistata da Niccolò Niccoli; mentre la sua iconografia aveva ispirato diversi artisti, come le maestranze della bottega di Donatello che la riprodussero in uno dei medaglioni del cortile di palazzo Medici a Firenze tra il 1450 e il 1460, prima ancora che il gioiello entrasse nelle raccolte dei banchieri fiorentini.

Copiare un oggetto in un quadro, una miniatura o una scultura poteva dunque essere un modo per ribadire la fama del principe collezionista; per dare un significato diverso al manufatto; nonché per creare un dialogo elitario tra l’artista, il committente e il pubblico ammesso alla visione dell’opera. È quanto avviene grazie alle dotte citazioni di testi e immagini che compongono il dittico eseguito intorno al 1490 da Ercole de’ Roberti per Eleonora d’Aragona (oggi alla National Gallery di Londra) con l’Adorazione dei pastori e La morte di Cristo, analizzate nel terzo capitolo. Clark vi rintraccia le memorie visuali di alcune tele appartenute alla principessa citate negli inventari dei suoi beni, e ipotizza che a ispirare il pittore siano stati scritti devozionali contemporanei letti e posseduti dalla duchessa, ricordando come la capacità di citare testi fosse dote apprezzata dagli estensi anche in oratori e performers, quali ad esempio l’histrio Matotus ricordato nella Politia litteraria di Angelo Camillo Decembrio.

Il quarto capitolo analizza, infine, la diffusione nelle corti italiane di emblemi, imprese e immagini associabili al cerimoniale araldico dell’ordine dell’ermellino, istituito da Ferrante I d’Aragona nel settembre 1465, due mesi dopo la vittoria riportata sugli oppositori alla sua successione al trono di Napoli e sui sostenitori del partito angioino nella battaglia di Ischia. Anche in questo caso la studiosa, interrogando le fonti sull’assegnazione dell’ordine a diversi alleati della corona aragonese, precisa quale rete di relazioni fosse intessuta con l’invio del maestoso collare e del manto dell’ermellino, candido come l’animo dei cavalieri che si associavano e si riconoscevano nell’ideale di nobile, aristocratico governo espresso dal motto Malo mori quam foedari.

Il merito maggiore del libro, che talvolta avremmo preferito più puntuale nella citazione delle fonti e nel quale avremmo letto volentieri l’edizione integrale degli inventari dei beni di Eleonora d’Aragona (pubblicati solo parzialmente nell’appendice) sta nell’approccio proposto alla cultura materiale cortigiana. Vi si apprezza lo sforzo di fermare l’attenzione sulle caratteristiche degli oggetti esaminati per ricondurne le particolarità estetiche alla cultura artistica, letteraria e cerimoniale della corte di provenienza e di quella esposizione dei manufatti. Per la capacità di interrogare gli oggetti in merito alla loro storia, al loro impiego e al loro valore economico, affettivo e sociale, questo studio risulta pertanto una lettura interessante sulla società di corte e sulle possibilità di analisi multidisciplinare ancora impiegabili per la sua conoscenza.


di Claudio Passera


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